Print Friendly, PDF & Email

palermograd

Ingrao prima di Tangentopoli

Il CRS tra autonomia del sociale e hybris della politica

di Tommaso Baris

Giuseppe Cotturi, Declino di partito. Il Pci negli anni Ottanta visto da un suo centro studi, prefazione di Maria Luisa Boccia, Roma, Ediesse, 2016

Nel 1979, alla fine della VII legislatura, Pietro Ingrao, che nel luglio del 1976 era stato eletto alla presidenza della Camera con il sostegno consensuale delle principali forze politiche nel quadro della strategia della “solidarietà nazionale”, rifiutava l’offerta di continuare in quel ruolo, ricoperto in uno dei momenti politici più delicati e drammatici della vita del paese.

Il leader della sinistra interna comunista sceglieva invece di entrare nella commissione affari costituzionali del Parlamento e tornava nel contempo a dirigere uno dei centri studi legati al Pci, quel Centro per la riforma dello Stato, di cui era stato primo presidente un altro grande battitore libero del comunismo italiano come Umberto Terracini. Pur privo di grande risorse finanziarie e sicuramente meno noto rispetto ad altre pensatoi del partito, il Centro per la riforma dello Stato divenne sotto l’impulso del primo comunista presidente della Camera uno importante centro di analisi ed elaborazione del delicato passaggio politico tra gli anni Settanta ed Ottanta.

Il libro di Giuseppe Cotturi, che del Crs è stato uno dei direttori proprio in stretta collaborazione con Ingrao, ripercorre ed analizza proprio il lavoro svolto da quel laboratorio culturale e politico sotto la spinta del suo autorevole leader tornato ad immergersi nella vita concreta del partito dopo la parentesi istituzionale. Spesso identificato e recluso nella sua immagine di politico caratterizzato da una dimensione fortemente utopica e sognatrice dell’agire pubblico, come del resto suggerisce la sua stessa ultima autobiografia apparsa per Einaudi qualche anno fa (Volevo la Luna), Ingrao, smentendo questa rappresentazione, si immerse in quel delicato frangente affrontando in maniera diretta e forte uno dei nodi che gli parevano essere diventati ineludibili del sistema politico italiano: quello della crisi istituzionale della Repubblica dei partiti, per usare la nota formula dello storico cattolico Pietro Scoppola, letta nell’ottica di un progressivo ed allarmante scollamento tra società politica e società civile. Colui che ancora nel 1977, in Masse e potere, aveva insistito sul ruolo dei grandi partiti di massa come soggetti capaci di rappresentare il complesso corpo sociale che si era messo in movimento, insistendo sulla loro capacità di ripensare il sistema istituzionale verso nuove forme di partecipazione democratica ed allargamento delle capacità decisionali verso il basso, nel corso del decennio successivo pare più chiaramente, proprio grazie al lavoro di organizzazione culturale e riflessione teorica portato avanti dal Crs, cogliere invece l’allargamento della distanza tra le spinte sprigionatesi nella società e il sistema tutto dei partiti politici di massa.

Ingrao colse quindi acutamente i problemi irrisolti che la stagione dei “movimenti” – formula impropria e riduttiva con cui qui proviamo a riassumere l’apparizione di nuove e molteplici soggettività (il femminismo, l’ecologismo, il pacifismo, il volontariato) – lasciava sul campo. Ingrao intuiva quindi che il collasso delle piccole formazioni della sinistra extraparlamentare e la sparizione della parte più immediatamente politica del “movimento” in seguito allo scontro tra le frange minoritarie più estremiste scivolate nella lotta armata e le forze repressive dello Stato, non significava affatto la fine della “autonomizzazione” delle forze sociali dal sistema dei partiti: la mobilitazione di ampi e diversificati settori della società non si sarebbe arrestata, anche se mutavano sicuramente i modi rispetto alle forme tradizionali e la funzione stessa di mediazione dei partiti politici. I nuovi attori portavano infatti in dote un “conflitto sulla politica di trasformazione, sullo spostamento del potere dall’alto al basso, sull’autonomia dei soggetti e la rappresentanza, sulla pluralità irriducibile all’unità del Politico e del Soggetto partito”, come ha scritto Maria Luisa Bocca nella prefazione al volume (p. 12). Mettevano quindi in discussione l’assetto tradizionale dei partiti di massa e dello stesso Pci, a cui chiedevano un ripensamento profondo delle sue forme organizzative e del suo modo di rappresentare nella società politica le istanze del sociale.

All’“autonomia” che i nuovi soggetti sociali mettevano in campo sin dal loro apparire negli anni Settanta Ingrao immaginò bisognasse rispondere ripensando la forme tradizionali dell’organizzazione politica, tanto da promuovere una articolata ricerca sul partito politico chiamato a muoversi in un contesto nuovo, impegnandovi autorevoli intellettuali del mondo della sinistra, includendovi anche studiosi non comunisti. Non si mancava di sottolineare che quella spinta, lasciata a sé stessa e privata di relazioni positive, poteva tradursi anche in una torsione corporativa e iper-specialistica: ma proprio tale rischio lo spingeva a ragionare “sul bisogno di collegamenti e comunicazione con soggetti organizzati in apparati dotati di storia propria, di specificità” (p. 51). Il magma ampio e complesso del sociale – era questa l’intuizione ingraiana – non poteva più essere cancellato o ricompreso dentro l’unicità del Soggetto-Partito inteso in senso tradizionale. L’“autonomia”, concetto chiave del periodo entrato nel lessico della teoria politica a partire dalle riflessioni di Mario Tronti, diventava allora concetto cruciale anche nel rapporto tra centri studio e Pci, ma più in generale nel ripensamento dello spazio politico che il leader comunista auspicava il suo partito sapesse realizzare.

Creare dunque nuovi strumenti caratterizzati da una “forte impronta dell’autonomia” diventava la sfida per un Pci che non poteva più pensare di rinchiudersi nella antiche certezze del suo monolitismo organizzativo e della riproposizione della centralità operaia. Emergevano infatti fenomeni nuovi, che non potevano essere ricondotti agli schemi passati, modi stessi di agire politicamente fuori dal perimetro dei partiti tradizionali e delle istituzioni – come ad esempio il volontariato – che richiedevano un mutamento del piano del ragionamento stesso dell’azione politica.

Il Centro per la riforma dello Stato si mosse in questa direzione assumendo la dimensione europea come terreno di confronto con le esperienze della sinistra anche di governo, e quindi anche quella socialdemocratica, e guardando verso il Mediterraneo visto come luogo centrale per il movimento pacifista. È all’interno di questo quadro complesso ed articolato che matura la proposta ingraiana al suo partito, per uscire dall’immobilismo in cui era caduto, di un governo costituente che affrontasse organicamente il tema di una riforma costituzionale, incentrata da un lato sulla consapevolezza ormai maturata dell’impossibilità per i partiti tradizionali di rappresentare le nuove soggettività, e parallelamente di tradurre queste spinte in positivo, convogliandole verso un allargamento della qualità della democrazia, e superando così il mero conservatorismo istituzionale impostosi nello stesso Pci.

Ne scaturiva una proposta fortemente innovativa: “disponibilità a un riesame del sistema elettorale, richiesta di una pluralità di poteri popolari diretti (iniziativa di legge, referendum non più solo abrogativi), e poi strumenti di controllo dal basso attraverso una politica di ‘carte dei diritti’. Ma soprattutto”, come scrive Giuseppe Cotturi, “era rilevante il disegno di un processo concreto, sperimentabile e sotto il controllo democratico” (p. 96).

Complessivamente, dinanzi a queste proposte il Partito Comunista ribadì la sua sostanziale chiusura. Al problema del rapporto con i nuovi soggetti rispose con la sua definitiva trasformazione in partito degli amministratori e dei funzionari, di fatto partecipando a quel processo di separazione tra sistema politico e società che caratterizzò gli anni Ottanta. Di fronte alla incipiente crisi istituzionale rivelatasi poi nella sua dimensione reale con Tangentopoli, il Pci a quel punto occhettiano decise di rispondere con la scelta in favore della mera riforma elettorale schierandosi per l’uninominale, credendo di poter compensare in termini di recupero lideristico la marginalizzazione del sistema dei partiti che ne derivava. Si gettavano le basi così per l’uscita a destra dalla crisi, contribuendo a costruire le premesse del berlusconismo.

Add comment

Submit