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micromega

La sinistra che perde

di Nicola Melloni

Le elezioni americane possono essere stato uno shock inaspettato per molti, e sono sicuramente un segnale preoccupante per tutti coloro che temono il ritorno prepotente di una destra aggressiva e minacciosa. Sono però, allo stesso tempo, un segnale che verrebbe da dire inequivocabile del declino della liberal-democrazia, un cambiamento di paradigma su cui vale la pena soffermarsi.

Come già largamente argomentato, l’ago della bilancia – e, dunque, il tema principale di queste elezioni – sono state le regioni operaie a forte tradizione democratica che sono passate in blocco a Trump. I dati possono aiutarci a capire meglio: se è vero che la Clinton ha vinto il voto popolare ed preso più voti di Trump tra le fasce di reddito più basse è anche però vero che 1) il trend dei voti a favore dei Repubblicani tra i blue collar è in crescita e, soprattutto 2) Hillary ha perso milioni di voti per strada, che si sono rifugiati nell’astensione – e questo è stato vero in particolare proprio nella cosiddetta rust-belt dove Trump ha vinto le elezioni. Il che equivale a dire, che sono stati soprattutto i democratici a perdere le presidenziali, piuttosto che i repubblicani a vincerle.

La radice di questa sconfitta va ricercata in questioni politiche lasciate irrisolte per molti anni ed esacerbate dalla crisi; ed in marchiani errori tattici che però sono figli proprio di quelle questioni politiche.

Il Partito Democratico è stato storicamente il partito della classe operaia (pur con qualche eccezione, a partire dai famosi Reagan Democrats) ma come praticamente tuti i partiti progressisti occidentali ha, negli ultimi decenni, abbandonato qualsiasi velleità di rappresentare i lavoratori. Puntando su un centrismo sempre più esasperato, la sinistra ha sperato di poter battere la destra attingendo nell’elettorato moderato, mantenendo intatto il bacino di voti tradizionale. Tradotto politicamente, si sono chiesti voti puntando più ad un legame affettivo che sulla base di piattaforme elettorali. Basandosi su analisi demografiche che privilegiavano la creazione di una coalizione incentrata sulla middle-classe e sulle minoranze etniche, e, soprattutto, sull’interesse padronale di cancellare qualsiasi riferimento alla lotta di classe, i democratici hanno volutamente ignorato la working class. L’unico tentativo di ricostruire un rapporto se non organico quantomeno politico tra mondo del lavoro e Partito Democratico è stato fatto da Bernie Sanders – che ha però incontrato la fortissima ostilità dell’establishment democratico e la derisione di pundits e analisti: i lavoratori sono stati trattati come un gruppo sociale marginale. La cecità tattica e l’arroganza ideologica hanno sottovalutato come la crisi avesse riaperto in maniera drammatica la questione sociale e come lo scontento fosse ormai diffuso – a tal punto da determinare, in effetti, il risultato elettorale.

 

La democrazia del meno peggio

La sorpresa nella notte elettorale era tangibile. Per mesi, per anni si è spiegato come le nuove tendenze demografiche avevano trasformato l’America in una nazione permanentemente democratica. Si dava per scontato che i ceti sociali storicamente progressisti avrebbero continuato a votare per il meno peggio. Una logica consolidata – e che ben conosciamo in Italia – del meno peggio, secondo la quale, di fronte ad una scelta binaria è sempre meglio scegliere chi farà meno danni. Una castrazione della democrazia, un ricatto modello “voto utile”: non azzardatevi a tradire o sarà vostra la colpa dei disastri a venire. Se almeno Obama vendeva un sogno, la candidatura di Hillary è stato proprio il trionfo del meno peggio. La Clinton era la candidata di Wall Street, dell’establishment, era la candidata che difendeva un modello economico che è fallimentare per la maggioranza degli americani. Non vi erano motivi “attivi” per votarla. Il leit motif della sua campagna è stata l’impresentabilità di Trump e di una destra reazionaria, xenofoba e misogina, fronteggiata da un partito – quello democratico – tollerante e rispettoso dei diritti delle donne e delle minoranze.

Come, allora, non turarsi il naso e non scegliere la Clinton? Difficile capirlo se non si parte dallo sconquasso creato da un trentennio di neo-liberismo culminato nella crisi del 2007. Di fronte ad un crollo del sistema economico e più in generale dello stile di vita, cosa hanno fatto gli otto anni di presidenza Obama – e, in una diversa congiuntura economica, gli otto anni di Bill Clinton –per i lavoratori americani? Poco o nulla: de-localizzazioni, compressione salariale, immobilità sociale, accesso all’istruzione diviso per fasce di reddito. Le piccole vittorie e le modestissime riforme di questi otto anni impallidiscono di fronte alla strenua difesa di uno status quo iniquo. Se è vero che nominalmente gli Stati Uniti hanno superato la crisi economica molto meglio che l’Europa, è anche vero che i Quantitative Easing hanno sì rimesso in moto il PIL soprattutto gonfiando i titoli di borsa – e i portafogli azionari dei più abbienti – senza nessun beneficio per i salari. La disoccupazione è calata, ma i lavori precari sono aumentati, così come il ricorso ai food stamps. Invece di prendere l’occasione della crisi per riscrive un nuovo patto sociale – ed in fondo la promessa di Obama era proprio questa – si è semplicemente deciso di salvare il mondo precedente, che tanti danni e miseria aveva creato.

Ecco allora che se tradimento c’è stato non è stato sicuramente quello degli elettori, quanto piuttosto degli eletti che hanno volutamente ignorato le richieste della base. Davanti alla possibilità di punire questo tradimento, di reclamare nuovamente una centralità – o, più modestamente una rappresentanza – politica, anche lo spauracchio di Trump è divenuto meno pauroso. Perché se il cambiamento può avvenire solo nelle urne (questo hanno sempre predicato i teorici della democrazia governista), l’unica maniera per avviare questo cambiamento è rompere la gabbia del meno peggio – che, in fondo, nel corso degli anni è proprio quello che ha causato le condizioni disastrose attuali.

 

Il mito del razzismo

Di fronte ad una debacle di queste proporzioni, sarebbe lecito aspettarsi qualche cambiamento, ma le prime reazioni sono state sconfortanti. Incapaci – ma soprattutto restii, per ovvie ragioni – di comprendere il significato del voto, i commentatori prezzolati hanno subito trovato una spiegazione di convenienza. Nella logica della sinistra (?) neoliberista è inconcepibile non votare per il meno peggio, e dunque i motivi della sconfitta vanno cercati altrove. Per esempio, nell’ignoranza crassa di chi vota repubblicano: come se il livello di istruzione non fosse una proxy dello stato di salute di una democrazia; e senza contare che tanti, tra i cosiddetti istruiti, hanno deciso di astenersi – o durante le primarie di votare Sanders. Nel rancore dei lavoratori incapaci di vedere come Trump sia, in fondo, un padrone che li sfrutterà come e peggio di prima: vero, non fosse che, come detto, molti lavoratori non hanno scelto Trump e che, in ogni caso, il nuovo Presidente ha cercato un dialogo e offerto un programma economico che era incentrato – falsamente quanto vogliamo – sulla difesa del lavoro. E, soprattutto, questo il refrain principale tra le analisi del voto, il motivo della sconfitta va ricercato nel razzismo della working class. Ora, se anche questo fosse vero, forse bisognerebbe spiegare le radici di un tale fenomeno in un paese che ha eletto per ben due volte un Presidente di colore. La vittoria di una narrativa politica così estremista non può non chiamare in causa questioni politiche profonde che dovrebbero far riflettere sul fallimento della democrazia americana. Il razzismo viene invece preso come una variabile esogena che fa comodo per assolvere l’establishment e, allo stesso tempo, demonizzare la classe lavoratrice, rea di non aver supportato il partito di Wall Street.

La logica, ancor più dei numeri, smentisce una lettura così partigiana e povera: quattro anni fa, tutti gli stati del Mid-West ora passati ai repubblicani avevano votato democratico (il Michigan e la Pennsylvania lo facevano dal 1992; il Wisconsin dal 1988). Tanto per fare un esempio, a Bay County, in Michigan, dove ha vinto Trump, la popolazione è al 95% bianca e prevalentemente in una fascia di reddito medio bassa. Peccato che quattro e otto anni fa avesse votato Obama.

Parlare di razzismo è fuorviante e facile, è la maniera più facile per spiegare il voto senza affrontare le questioni enormi che le tornate elettorali di questi anni stanno portando alla luce. De-rubricare a razzismo – o xenofobia, come nel caso della Brexit – la rivolta contro le elite, ed in particolare contro la sinistra di regime, è l’ultima linea di difesa per anni, decenni di politiche sbagliate; è un tentativo di ribaltare il discorso, incolpare gli elettori invece della leadership, per scongiurare qualsiasi tentativo di cambiare rotta.

 

Cosa rimane della sinistra?

La sinistra americana – ma, più in generale, ovunque in Occidente – ha abbandonato la sua missione storica che è di temperare le diseguaglianze e per dare rappresentanza ai più deboli. Non si tratta neppure di parlare di socialismo o di critica al capitalismo, ma si è abbandonata qualsiasi pretesa di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, sostituendo la questione sociale con il centrismo economico e con l’identificazione del progresso con i diritti civili che, pur importantissimi, sono diventati la nuova bandiera mentre si abbandonava in blocco il mondo del lavoro.

Dietro alla facciata (vera ma comunque facciata) di forza progressista e multi-culturale, la sinistra si è ormai candidata ad essere il volto ed il braccio dell’establishment, e nessuna candidatura avrebbe potuto dimostrarlo meglio di quella della Clinton – che, però, va sottolineato, ha perso per colpe storiche che vanno ben al di là della mediocrità della candidata. Ed ha lasciato in mano alla destra arrabbiata il malcontento sociale. Il mantra su cui si insiste è quello di un capitalismo 2.0, con le facce giovani e sorridenti dei CEO della New Economy (tutti invariabilmente con Hillary) che proietta una immagine inclusiva e tollerante, ma che non coglie come la crisi abbia riaperto la frattura – mai veramente chiusa – tra capitale e lavoro.

Lo scontento, la rabbia, la protesta sono il segnale della definitiva rottura del patto sociale, e chi credeva che una vittoria della Clinton avrebbe segnalato la fine della “nuttata” e il ritorno alla politica pre-crisi non ha colto il cambiamento di paradigma avvenuto negli ultimi dieci anni. Il modello “inclusivo” dei democratici è in realtà semplicemente tollerante ma marginalizza sempre più su base censitaria e non tiene in conto il desiderio di cambiamento non solo dei lavoratori ma anche delle nuove generazioni.

Ora, davanti alla sfida della destra, la sinistra si trova davanti a un bivio. La prima strada è quella del fronte comune contro l’avanzare del populismo nazionalista, annacquando ancor di più i suoi valori in nome della difesa della “democrazia liberale” – è in fondo quanto proposto da Ezio Mauro che chiede al PD di unirsi non sul merito delle scelte ma per sconfiggere gli anti-sistema; ed è quanto si è chiesto (ed ottenuto) al PSOE, e presto si chiederà al Partito Socialista francese. Una ri-edizione del meno peggio sotto forma di “unità popolare”. Oppure si può e si deve ragionare su come questo populismo reazionario sia il risultato di processi storici in atto da tempo e che chiamano in causa proprio quella struttura socio-economica che ha corrotto la vita politica.

In sintesi, l’analisi non può privilegiare gli epifenomeni – il ritorno del nazionalismo, il supposto razzismo, la crisi della politica tradizionale – a scapito delle cause. Ed in questo caso la risposta non può che partire dalle questioni poste dalla crisi, per ridare legittimità alla politica democratica tout court, per cambiare non le forme ma i contenuti della propria proposta. La democrazia liberaldemocratica, per intenderci quella post-Guerra Fredda, ha fallito: non si tratta di difenderla ma di superarla, prima che con l’acqua sporca dell’elitismo politico e di un sistema economico iniquo, si butti anche quel bambino inerme che è la democrazia.

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