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manifesto

Benvenuti nel deserto della postinformazione

Luca Celada

In un video aziendale di Facebook, Mark Zuckeberg denuncia il dilagare della post-verità nella Rete

«Il 2016 è stato un anno storico e turbolento», sostiene con marcato senso eufemistico Mark Zuckerberg in un messaggio video di fine anno registrato dal fondatore di Facebook assieme all’amministratrice Sheryl Sandberg, parte di una serie occasionale di «one-on-ones» in cui i due dirigenti discutono di temi «social». Questo particolare «tête-à-tête» ha avuto una eco negli Stati Uniti e in Europa per la valutazione con la quale Zuckerberg ha definito Facebook un nuovo tipo di mass media. «Facebook non è un tecnologia tradizionale», ha detto il 31enne fondatore del social network che raggiunge di gran lunga più utenti di qualunque radio, televisione o giornale della storia. «Non si tratta di una tradizionale  media company. Noi progettiamo una piattaforma tecnologica e ci sentiamo responsabili per come viene utilizzata».

SI TRATTA DI UNA SOSTANZIALE modifica della linea ufficiale dell’azienda di Menlo Park che ad oggi ha tenuto a  definirsi piattaforma tecnologica «neutrale» senza partecipazione attiva nel contenuto immesso dagli utenti. «Non scriviamo le notizie che la gente legge sulla piattaforma – ha sostenuto Zuckerberg -, ma allo stesso tempo sappiamo di essere molto più che semplici distributori. Siamo parte integrante del discorso pubblico».

L’acquisizione di una improvvisa consapevolezza editoriale segna una netta svolta per il social network. Facebook utilizzato da 1,8 miliardi di utenti, recentemente  è stato ripetutamente chiamato in causa per il ruolo nella diffusione di notizie inattendibili, la marea montante di voci ed illazioni che ha contribuito sensibilmente ad alcuni dei fenomeni «storici» evocati a Zuckerberg, a partire dal voto inglese sulla Brexit per arrivare all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Per far fronte al proliferare di notizie imprecise o strumentali nella sezione «trending» l’azienda ha di recente sostituito lo staff editoriale con un algoritmo . Ma «l’automazione» della verità da parte dei programmatori è risultata altrettanto insoddisfacente. La scorsa settimana Zuckerberg ha annunciato l’accordo con una serie di partner  giornalistici, fra cui la Abc News e la Associated Press alle quali appalterà  le analisi di attendibilità.

I TENTATIVI DI MEDIAZIONE «editoriale», oltre che l’inadeguatezza al ruolo dei programmatori di Silicon Valley, sottolineano la problematica attualmente legata ai social network. Mai come quest’anno è infatti stata esplicitata l’infuenza delle piattaforme come fonti di informazione. L’elezione di Donald Trump (lui stesso inveterato  twittatore),  resa possibile in gran parte proprio da una campagna imbastita sul sistematico offuscamento demagogico tramite internet, ha messo al centro dell’attenzione il flagello delle fake news e le devastanti  ripercussioni delle bufale virali emerse come più insidiose eredi della propaganda e fondamentali strumenti di persuasione populista.

Paradigmatiche sono ad esempio  le attuali diatribe in Rete sull’assedio di Aleppo. Una tragedia efficacemente offuscata dalle infinite polemiche fra post virali che perorano, in termini propagandistici, le cause delle parti in guerra. Il popolo di Facebook è stato così sommerso dalle mille sterili polemiche a base di «like» e controlike, mentre i belliggeranti hanno potuto perseguire indisturbati (e rigorosamente al riparo da occhi giornalistici) i propri sanguinari fini.

Il turbine di «notizie» virali senza possibilità di verifica costituiscono l’orwelliano ecosistema post-giornalistico: una utile cortina fumogena per gli interessi economici, finanziari, geopolitici in campo. Il «turbolento» 2016  di Zuckerberg ha insomma esplicitato come non mai gli effetti potenzialmente devastatanti della «postinformazione» veicolata proprio dai social network.

LA RAPPRESENTAZIONE forse più agghiacciante a questo riguardo si è avuta il mese scorso con l’episodio pizzagate, quando un uomo armato ha fatto irruzione in una pizzeria di Washington minacciando personale e avventori. Il negozio era stato oggetto di una campagna social che aveva insinuato che fosse la centrale clandestina di un giro di pedofili gestito nientemeno che da Hillary Clinton  e dal direttore della sua campagna elettorale, John Podesta. La bufala diffusa ad arte era stata potenziata da migliaia di «ri-post» fin quando un complottista lievemente più  squlibrato aveva imbracciato un fucile minacciando la strage. Simili campagne calunniose stanno diventando una norma in Usa dove una costellazione di siti legati alla «Alt Right» usano simili arbitrarie accuse per aizzare l’odio complottista.

DI QUESTA SETTIMANA è invece la notizia  di una famiglia ebrea  in fuga dalla propria casa in Pennsylvania dopo che una campagna virale l’aveva tacciata di aver ottenuto la cancellazione della rappresentazione natalizia alla locale scuola media del «Cantico di Natale» di Dickens (la guerra contro il Natale è meme favorito di Donald Trump). La bufala paranoica, ormai è evidente, è sempre più precorritrice di una diffuso «anafabetismo dell’informazione» che rende plausibile ogni stravagante accusa proviente da un post scritto da un mitomane online. O da qualcuno vicino a un neoeletto presidente degli Stati Uniti.

Lo pseudogiornalismo viene cioè impiegato sempre più come arma contundente di un dilagante neomaccartismo per invalidare fondamentali meccanismi democratici  e rimanda necessariamente alle responsabilità ora riconosciute anche da Zuckerberg.  Ma permane un fondamentale equivoco: i social network ambiscono ad essere nuove agorà ma si tratta pur sempre di monopoli privati a scopo di lucro che commercializzano un unico prodotto: gli utenti.

MALGRADO LA NARRAZIONE ormai anacronistica di internet cone inarrestabile democratizzatore «orizzontale» della comunicazione, le piattaforme in rete rappresentano dunque un mastodontico trasferimento di strumenti di dialogo e «informazione» dalla sfera pubblica e politica a quella commerciale, al riparo da molta  regolamentazione pubblica e quindi tantopiù  suscettibili di strumentale manipolazione.

Nessuno con la possibile eccezione di Wladimir Putin (o Beppe Grillo), ha dimostrato di afferrare il concetto meglio di Trump, che ha come prima cosa nominanto Steve Bannon, operatore del massimo portale di bufale complottiste («Breitbart News»), a super-ministro della disinformazione e braccio destro nella Casa Bianca. E il «summit digitale» al quale Trump ha recentemente convocato i massimi dirigenti dei social network, subito accorsi al tavolo del nuovo inquilino della Casa Bianca, ha esposto la natura essenzialmente mercenaria del complesso tecno-info-industriale.

Il  video dei due amabili impresari digitali che discettano  disinvoltamente del futuro dell’informazione come di una strategia di new economy, ha trasmesso un affascinante  – ed inquietante – scorcio dei nuovi poteri decisionali delle nostre vite.

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