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linterferenza

Capitalismo e liberalismo potrebbero divorziare?

Fabrizio Marchi

C’è una questione “scabrosa” che voglio affrontare da tempo e di cui in parte ho già trattato in questo articolo.

Per molto tempo, se non da sempre, il capitalismo è stato del tutto sovrapposto al liberalismo. Questa equazione, capitalismo=liberalismo è stata sostenuta più o meno da tutti, sia dai pensatori liberali che da quelli marxisti (ma anche da quelli di altre formazioni filosofiche e ideologiche).

Sia i liberali che i liberisti – oggi del tutto o quasi sovrapposti – hanno ovviamente tutto l’interesse a sostenere questa tesi, per ovvie ragioni. E cioè perché sostenere che il capitalismo è inscindibile dal liberalismo significa sostenere che capitalismo e democrazia (e diritti) marciano assieme. L’affermarsi dei diritti, della libertà e della democrazia marcerebbe di pari passo e sarebbe anzi una diretta conseguenza dell’affermarsi del capitalismo e viceversa. Questo, in estrema sintesi, il pensiero dei liberali e dei liberisti. Questa visione delle cose fa comodo ad entrambi – comunque, come dicevo, molto spesso o quasi sempre sovrapposti (ma sarebbe un errore non prendere nella dovuta considerazione anche quei pensatori liberali ma non liberisti) – perché in questo modo il capitalismo può vantare di essere l’unico sistema economico e sociale in grado di garantire diritti e democrazia.

Dal canto loro, sia pure da un punto di vista opposto e naturalmente di critica radicale, i marxisti hanno sempre avallato questa tesi perché gli ha consentito di sottoporre entrambi (capitalismo e liberalismo) al fuoco incrociato della loro critica radicale e strutturale al sistema capitalista di cui il liberalismo ha rappresentato e tuttora rappresenta l’ideologia (falsa coscienza) necessaria di riferimento. Tutt’al più, sempre nel caso dei pensatori marxisti (ma anche di altri non marxisti), ha prevalso la tesi (peraltro in parte corretta, a mio parere, ma insufficiente e incompleta) che il capitalismo, all’occorrenza, laddove minacciato dall’insorgenza di movimenti operai e/o antagonisti o addirittura dalla possibilità di una vera e propria rivoluzione, ricorra ai metodi brutali, alla sospensione di ogni garanzia democratica, alle dittature militari o al fascismo (nelle sue varie e differenti declinazioni e determinazioni storiche), per poi tornare ad una condizione di “normalità”, una volta superata la minaccia.

Personalmente la vedo da tempo in modo diverso. Io credo che se la storia ci ha insegnato qualcosa, fra le altre cose, è che il capitalismo – che non è soltanto un rapporto di produzione, a mio parere, ma anche un ideologia molto flessibile (e anche questa è la sua forza) – può incistarsi e sposarsi con qualsiasi contesto sociale e culturale. Certo, non c’è alcun dubbio che nella fase della sua affermazione, nel mondo europeo e occidentale, tra il XVII e il XIX secolo, il capitalismo abbia avuto come sua ideologia di riferimento il liberalismo al fine di abbattere il sistema feudale e assolutistico e affermare il proprio dominio, né avrebbe potuto essere altrimenti, date appunto le circostanze storiche. Ed è altrettanto vero che in quella fase i due erano, per lo meno sulla carta, del tutto sovrapposti. Ma appunto sulla carta, perché sappiamo benissimo che il diritto liberale è stato sistematicamente violato sia dal punto di vista interno (sfruttamento dei lavoratori, repressione del dissenso e limitazione delle possibilità di organizzazione sindacale e politica) che esterno (guerre imperialiste e dominio coloniale). E però questa sistematica violazione dei diritti veniva (e tuttora in parte) viene interpretata dai pensatori liberali come una degenerazione o tutt’al più come una falla di natura formale che però non ne inficia o non ne inficerebbe la struttura. I marxisti, per parte loro, hanno invece interpretato questa evidente contraddizione come un vizio strutturale del pensiero liberale (e hanno ragione) ma non hanno mai preso in considerazione l’idea che quest’ultimo possa essere, anche se non in toto, separato da quello capitalista e liberista.

Ecco, io credo, sfidando fulmini e saette, strali e scomuniche di ogni genere che potrebbero arrivare da ogni lato (ma il sottoscritto non è un accademico né un “intellettuale” mediaticamente riconosciuto come tale e quindi può permettersi il lusso di dire eventuali strafalcioni o esprimere pensieri scabrosi senza particolari timori…) che sia giunta l’ora di cominciare a pensare che liberalismo e capitalismo/liberismo possano essere separati. La qual cosa non comporta, ovviamente, l’adesione al pensiero liberale, ma solo la presa d’atto che i due non solo non necessariamente marciano assieme, ma che il secondo (il capitalismo) marcia forse e addirittura meglio senza il primo (il liberalismo).

Se è vero che il capitalismo si è affermato distruggendo gradualmente l’”ancient regime”, cioè il sistema feudale e le sue determinazioni politiche e ideologiche (sostanzialmente le monarchie assolute e la Chiesa) proprio attraverso il liberalismo, è altrettanto vero che ha continuato a proliferare, specie nell’età moderna e contemporanea, in assenza parziale o totale dei diritti e della democrazia.

Se la storia ci ha dimostrato qualcosa, è che il capitalismo è un sistema (rapporto di produzione) e un’ideologia (accumulazione illimitata del capitale e forma merce elevata a feticcio e oggi “assolutizzata”, cioè capace di occupare ogni spazio non solo dell’agire umano ma dell’umano stesso) estremamente flessibile, in grado di coniugarsi con qualsiasi contesto storico e culturale. Il capitalismo, nella sua accezione liberista, ha convissuto e prosperato allegramente con tutti i fascismi, con il nazismo, con le dittature militari e clericali, con i regimi apertamente razzisti, e oggi con le monarchie assolute wahhabite, con lo stato-partito “neoconfuciano” cinese, la società organizzate per caste indiana e in generale con tutti quegli stati asiatici (la quasi totalità) a capitalismo cosiddetto “autoritario”.

Dopo la sconfitta storica del Movimento Operaio e il crollo del socialismo reale e dell’URSS questa tendenza “autoritaria” del capitalismo non poteva che accentuarsi, per ovvie ragioni. E cioè perché lo stato sociale, il welfare, il sistema di diritti sociali e anche le stesse Costituzioni democratiche erano comunque il risultato di un rapporto di forze, e quindi del compromesso tra forze sociali e politiche in conflitto. E’ da questa dialettica che sono scaturiti i sistemi democratici e anche lo stato sociale. Nel momento in cui questa dialettica non esiste più perché una delle parti in conflitto (il lavoro) è stata sconfitta, è evidente che viene meno anche la necessità oggettiva di mantenere quegli standard di stato sociale e di democrazia che pure hanno indubbiamente caratterizzato la storia occidentale ed europea soprattutto nel famoso “glorioso trentennio”.

E’ vero che oggi, nel mondo occidentale, europeo ed americano, come sosteniamo da tempo, l’ideologia politicamente corretta è tuttora l’ideologia principale di riferimento, però è importante rilevare alcuni aspetti.

Il primo. L’ideologia politicamente corretta, fondata su una concezione distorta e opportunamente indirizzata dei diritti civili (femminismo inteso come criminalizzazione del genere maschile, mercificazione dei corpi camuffata come libertà, vedasi fra le altre la vicenda uteri in affitto ecc.), convive serenamente con la sistematica distruzione dei diritti sociali. Dal punto di vista di chi scrive è ovviamente una contraddizione, perché diritti civili e sociali non possono essere separati, e separarli significa indebolire se non distruggere la democrazia stessa. Ma tant’è, e questo è stato uno dei capolavori del sistema capitalista.

Il secondo.  Quarant’anni di bombardamento ideologico/mediatico politicamente corretto hanno finito per produrre inevitabilmente il suo alter ego, cioè il neo populismo di destra sempre più crescente in tutto il mondo occidentale, né poteva essere altrimenti. Questo fenomeno ideologico e sociale è solo apparentemente un fenomeno “antisistema”, anche se questo è ciò che spaccia per poter conquistare consensi, soprattutto nei ceti popolari. In realtà il neo populismo di destra (che porti le maschere di Trump, Le Pen, Hofer o Salvini è del tutto indifferente) non mette assolutamente in discussione il sistema capitalista; tutt’al più ne rappresenta una variante politica, appunto ideologica e gestionale, diciamo così. Lo vedremo ora con Trump e forse in un futuro prossimo con la Le Pen alla ipotetica guida della Francia.

Il terzo. La distruzione dei diritti sociali (che anche il neo populismo di destra si guarda bene dal contrastare, dal momento che anche le sue ricette protezionistiche si sposano serenamente e anzi prevedono l’annichilimento del potere contrattuale e sindacale dei lavoratori e il rafforzamento del ruolo e del potere dell’impresa) è un processo in corso da anni in occidente, cioè come dicevamo dal crollo del muro di Berlino ad oggi. Il modello e il termine di paragone utilizzati per questo processo di sistematica distruzione dei diritti e degli spazi di democrazia reale sono proprio quelli del capitalismo “autoritario” asiatico (cinese, giapponese, indiano o coreano), e quelli già collaudati del modello tatcheriano e addirittura di quello “pinochettista”.

Questa non è una scelta ideologica bensì un processo determinato dai fatti e nei fatti. Dopo di che il capitalismo, da sistema e ideologia flessibile qual è, si relaziona con la realtà sulla base delle sue necessità (la sua peculiare e intrinseca “volontà di potenza”, potremmo dire…), che poi sono costituite dalla sua tendenza strutturale alla illimitata e infinita riproduzione di se stesso.  Insomma, il capitalismo, volendo utilizzare una metafora banale ma forse efficace, è un po’ come l’acqua che si frange sugli scogli e ne prende la forma e non come un treno che va a sbattere contro una montagna…

Nella speranza, tutto sommato, di sbagliarmi (è un sincero auspicio e non un modo di dire) io credo che il divorzio fra capitalismo e liberalismo, se ragioniamo in termini globali (non vedo in quali altri termini dovremmo ragionare a meno di non guardarsi nell’ombelico), si stia consumando.  Lo dicono i fatti, non lo dico io…

Se così è, ci sono altre due brevi considerazioni da fare.

La prima. L’eventuale e ipotetico divorzio fra i due non comporta, come abbiamo visto, la dismissione dell’ideologia politicamente corretta, il che la dice lunga sulla vera natura di tale ideologia che si vorrebbe “progressista e di sinistra”.

La seconda. Tale divorzio (sempre eventuale ed ipotetico), che però parrebbe essere nei fatti, potrebbe consentire a noi – e quando dico noi intendo dire tutti coloro che provengono dal Movimento Operaio e da tutte le sue declinazioni e determinazioni storiche, ma in particolare i marxisti – di recuperare ciò che di positivo c’è anche nel pensiero liberale e che sottratto al dogma capitalista/liberista e inserito all’interno di un pensiero critico e anticapitalista, potrebbe risultare anche una carta vincente, metaforicamente parlando, non solo da un punto di vista meramente tattico ma strategico?  Del resto, come negare che quella della coniugazione fra eguaglianza e libertà sia stata una delle note dolenti dell’esperienza comunista più o meno in tutte le sue storiche determinazioni?

Mi sembra che la questione sia più che mai attuale e che sia giunto il momento di aprire una riflessione in tal senso.

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