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effimera

L’opzione autoritaria. Il patto Gentiloni piega la Consulta

di Joe Vannelli

La Corte Costituzionale ha reso nota la sua decisione e dichiarato inammissibile il referendum in tema di licenziamento.

Amato e Barbera, i due membri della Consulta legati al Partito Democratico, sono riusciti ad imporre al Collegio quanto gli uomini delle larghe intese pretendevano.

Non è una pronunzia di poco rilievo; è piuttosto la conferma di una svolta violentemente autoritaria che viene imposta all’intero paese. Non nascondiamocelo, sarebbe sciocco. Questa è una ferita consapevolmente inferta ai diritti residui, l’imposizione delle direttive provenienti dal complessivo governo europeo. Ci spiace, ma non ci sorprende; lo avevamo messo in conto.

Sia chiaro. Questa pronunzia travolge il precedente orientamento espresso dalla Corte Costituzionale, che nel 2003 aveva dichiarato invece ammissibile il quesito referendario che mirava ad estendere l’applicazione dell’art. 18 (la reintegrazione nel posto di lavoro) a tutti i lavoratori italiani. Ma in quel tempo non era ancora in vigore la lettera-ordine di rimuovere le tutele diretto ai governi nazionali del Sud-Europa; e le forze politiche si erano adoperate, unitariamente, per impedire il raggiungimento del quorum. La Corte Costituzionale aveva concesso il via libera al voto.

Oggi, nel 2017, il quadro è mutato. Il voto popolare del 4 dicembre ha determinato un clima di incertezza e reso evidente quel che il potere temeva, ovvero il dilagare del rifiuto, la maggioranza del dissenso. I sondaggi non lasciavano speranze ai governanti: 41% per la cancellazione del Jobs Act, solo il 19% a favore, un 40% di fisiologici astenuti. Tradotto in voti validi il sondaggio l’esito era di 80% a 20% contro le leggi di Renzi e Poletti. Al tempo stesso i poteri europei (Commissione e Banca Centrale) avevano chiarito che non sarebbe stato consentito il ripristino dei diritti e neppure una rinnovata tutela dei lavoratori.

I giuristi di fiducia del Palazzo hanno trovato il grimaldello tecnico per cancellare i tre milioni di firme raccolte dalla sola CGIL e per rendere vano il lodo Landini, ottenuto dalla FIOM dopo estenuanti trattative. Il potere insediatosi di fatto in Italia non intende in alcun modo mediare, accetta solo di discutere le condizioni della resa. La Consulta ha dichiarato inammissibile il quesito perché propositivo e non semplicemente abrogativo; per giungere a questo risultato si è posta in contraddizione con i principi enunciati in precedenza e soprattutto contro il buon senso; il quesito proposto, oltre che simile a quello ammesso in precedenza, si limitava infatti ad abrogare dei limiti che escludevano la tutela della reintegrazione. Le pressioni sono andate a buon fine, la Corte ha ceduto di schianto, si è piegata alle richieste politiche e alle esigenze autoritarie.

Rimangono fermi due referendum su tre, in tema di voucher e sulla responsabilità dei committenti circa i debiti accumulati dagli appaltatori. Ma, per quanto rilevanti e importanti, sono tuttavia una reazione azzoppata e colpita a morte. Ci verranno a dire che questa decisione va accettata e rispettata, perché proveniente da una democratica istituzione. Non è così. È una giornata nera, cade infatti l’ultimo brandello di credibilità di un organismo che, pur fra mille contraddizioni, era stato capace, in passato, di controbilanciare le tentazioni autoritarie. Si volta pagina, l’ordine regna a Roma.

Ora il patto Gentiloni potrà trovare applicazione fino al termine della legislatura, i lavoratori saranno ancora meno liberi, esposti alla prepotenza delle decisioni datoriali. L’autoritarismo in salsa occidentale ha trovato nella decisione della Consulta la sua bandiera. L’unico commento possibile è quello di gridare Vergogna !

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