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manifesto

Di cosa parlano le (pubbliche) ferite del caso Berdini

Tomaso Montanari

Tra qualche anno chi mai ricorderà le infelicissime frasi con cui un assessore disse a un giornalista che non lo stava intervistando ciò che dicevano financo i gatti del Colosseo? Chi rammenterà che, sì, Berdini Paolo fu un po’ coglione, e sleale verso Raggi Virginia? Nessuno: mentre la ferita alla città, alla natura, alla legalità di Roma sarebbe lì, madornale, per centinaia di anni

Ma davvero il cuore della vicenda Berdini è la monumentale ingenuità – la coglioneria, come dice lui stesso – del protagonista suo malgrado? Io non lo credo.
Questo triste passaggio illumina altre nostre ferite.

La prima. Davvero c’entra qualcosa il giornalismo con questa storia? C’era una notizia? Quale? Immaginiamo per un attimo un Paese in cui i giornalisti registrino e trascrivano ogni loro informale conversazione con uomini pubblici: ci rendiamo conto del grottesco inferno cui andremmo incontro? Tutti citano il dettaglio del precariato dell’‘intervistatore’ per dimostrare che Berdini fosse cosciente di parlare con un giornalista. Ma quel dettaglio non ci dice forse qualcosa di un’Italia in cui l’assenza dell’etica professionale è spesso in rapporto diretto con l’assenza della dignità del lavoro? Quale precario (nel giornalismo come nell’università e altrove) può dire «preferirei di no» al capo da cui – letteralmente – dipende la sua stessa vita?

La seconda. Quanto è profondo l’imbarbarimento civile e morale innescato dall’elezione diretta dei sindaci? Nonostante che il 4 dicembre abbiamo rigettato il tentativo di costruire un arrogante e strapaesano sindaco d’Italia (o d’Italicum), diamo per scontato, senza neanche il velo di un dubbio, che Berdini abbia violato un sacro vincolo di lealtà tra il sindaco e i suoi assessori, quasi fosse quello che univa il signore feudale e i vassalli da lui investiti. Diamoci un pizzicotto, svegliamoci: la fonte della sovranità non è il sindaco, nonostante la sua consacrazione plebiscitaristica. L’unica lealtà di cui dovremmo tener conto è quella verso il popolo sovrano e l’interesse pubblico, e semmai verso il programma e i valori del partito che ha vinto le elezioni: un programma e dei valori che, per l’ambiente (che è una delle famose cinque stelle), Berdini rappresenta fedelissimamente, pur non facendo parte del partito. Già, il partito: è davvero paradossale che la scalabilità del Movimento 5 stelle e la sua plateale carenza di democrazia interna abbiano finito per consacrare ancor di più il personalismo dei sindaci. Paradossale in particolare a Roma: dove avrebbe vinto davvero chiunque il Movimento avesse candidato.

La terza, che è la più grave. In gioco non c’è il rapporto tra Berdini e la Raggi. In gioco c’è quella che il maggiore urbanista italiano ha ieri definito su queste pagine «forse la più grossa speculazione fondiaria tentata a Roma dopo l’Unità d’Italia. Un milione di metri cubi a Tor di Valle, in una fragile ansa del Tevere». Un enorme colata di cemento della quale lo Stadio e gli impianti sportivi sarebbero meno del venti per cento. Una colata che sommergerebbe, insieme con il Piano Regolatore, ogni speranza di vivere in una città regolata dalla legge e dal bene comune, e non dal potere eterno dei signori del cemento.

Ebbene, tra cinquant’anni – o anche solo tra dieci – chi mai ricorderà le infelicissime frasi con cui un assessore disse a un giornalista che non lo stava intervistando ciò che dicevano financo i gatti del Colosseo? Chi rammenterà che, sì, Berdini Paolo fu un po’ coglione, e sleale verso Raggi Virginia? Nessuno: mentre la ferita alla città, alla natura, alla legalità di Roma sarebbe lì, madornale, per centinaia di anni.

È questo il tema, è di questo che si dovrebbe parlare, e di questo che si deve decidere. Oppure possiamo continuare a sacrificare il bene comune e il futuro di tutti sull’altare di uno squallido, irrilevante e insensato teatrino del nulla che giova solo ai veri padroni di Roma.

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