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rassegna sind

La spirale perversa della precarizzazione del lavoro

di Guglielmo Forges Davanzati e Lucia Mongelli

Le politiche di flessibilità accrescono la disoccupazione, indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori, mentre – soprattutto nella sfera politica – rendono possibili ulteriori misure di deregolamentazione. Lo dimostrano gli studi empirici

Le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro (anche definite di “flessibilità del lavoro” o, forse più propriamente, di precarizzazione) sono state attuate in Italia con relativo ritardo rispetto ai principali Paesi Ocse (soprattutto anglosassoni) e, tuttavia, sono state attuate con la massima intensità, rispetto a tali Paesi, nel corso degli ultimi anni, a partire in particolare dalla cosiddetta legge Biagi (L.30/2003). Il dibattito accademico è stato dominato dalla convinzione secondo la quale la deregolamentazione del mercato del lavoro è uno strumento di policy necessario per accrescere l’occupazione in un contesto dominato da crescente volatilità della domanda che le imprese fronteggiano.

Solo in anni più recenti, si è fatta strada la convinzione che le misure di deregolamentazione del mercato del lavoro possono avere effetti di segno negativo sull’andamento del tasso di occupazione e costituire un fattore di freno alla crescita economica. Ciò fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, la precarizzazione del lavoro accrescere l’incertezza dei lavoratori in ordine al rinnovo del contratto e, dunque, incentiva risparmi precauzionali, deprimendo consumi e domanda interna. In secondo luogo, la precarizzazione del lavoro, in quanto consente alla imprese di recuperare competitività attraverso misure di moderazione salariale, disincentiva le innovazioni, dunque il tasso di crescita della produttività del lavoro e, per conseguenza, dell’occupazione.

Gli studi empirici si sono essenzialmente concentrati sui nessi esistenti fra regimi di protezione del lavoro e occupazione, rilevando, in particolare nel caso italiano, che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro tendono a generare l’effetto esattamente opposto a quello dichiarato, ovvero tendono ad accrescere il tasso di disoccupazione. Ai fini della verifica della correlazione esistente fra protezione del lavoro e dinamiche dell’occupazione, ci si avvale, in questa sede, dell’Employment protection legislation index (Epl), elaborato dall’Ocse. L’Epl è costituito da 21 indicatori sintetici, che permettono di stimare i due sottoindicatori che contribuiscono alla sua composizione: l’indicatore di protezione per i contratti a tempo indeterminato (Eprc) e l’indicatore di protezione per i contratti a tempo determinato (Ept). A una maggiore flessibilità corrisponde un indice Epl più basso.

Figura 1. Andamento dell’indicatore EPL in Italia. Anni 1990-2013
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Fonte: Nostre elaborazioni su dati Ocse

L’indicatore di protezione del lavoro Epl in Italia si è ridotto notevolmente negli anni e precisamente del 40,1%, passando dal 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013: sembrerebbe dunque più facile licenziare oggi rispetto al 1990. Una drastica e repentina diminuzione si è accertata dal 1997 al 1998, passando dal 3,76 al 3,19, con una diminuzione di più di mezzo punto, e dal 2001 al 2003, passando dal 3,01 al 2,38 (transitando nel 2002 con un 2,57) e una riduzione del 26,5%. Nonostante l’indicatore Epl abbia assunto valori quasi dimezzati nell’arco di quasi 25 anni, nel 2013 il tasso di disoccupazione risulta di più di tre punti più elevato di allora (3,17).

Figura 2. Andamento del tasso di disoccupazione in Italia. Anni 1990-2013
fig2 5364

Fonte: Nostre elaborazioni su dati Istat

L’interpretazione che viene qui proposta fa riferimento al fatto che, come è noto da Keynes in poi, la domanda di lavoro espressa dalle imprese dipende fondamentalmente dalla domanda aggregata attesa. In tal senso, si può ritenere che l’effetto positivo delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro pre-crisi dipende essenzialmente dal fatto che si tratta di anni di crescita relativamente più alta rispetto agli anni successivi. Ciò che appare evidente è che misure di flessibilità del lavoro poste in essere in condizioni di caduta della domanda hanno effetti significativamente negativi sull’occupazione.

Non solo. C’è anche da considerare che gli anni novanta, come rilevato supra, sono anni caratterizzati da una deregolamentazione molto meno incisiva rispetto a quella attuata nel periodo successivo, accreditando, anche per questa ragione, l’idea che le dinamiche dell’occupazione non risentono in modo significativo del grado di protezione del lavoro e che in contesti di riduzione della domanda la deregolamentazione del mercato del lavoro può semmai contribuire ad accrescere il tasso di disoccupazione. In altri termini, l’evidenza mostra che, al netto dell’andamento della domanda aggregata, il tasso di disoccupazione tende a ridursi quanto meno flessibile è il mercato del lavoro.

In più, si può considerare che il nesso fra variazioni dell’Epl e andamento del tasso di disoccupazione può anche essere letto nella direzione opposta. Ciò a ragione del fatto che, in condizioni di elevata disoccupazione, è basso il potere contrattuale dei lavoratori non solo nel mercato del lavoro, ma anche nella sfera politica, così che a un elevato tasso di disoccupazione tende ad associarsi una politica del lavoro di segno redistributivo, a svantaggio dei lavoratori.

Questa congettura costituisce un’estensione della teoria marxiana dell’esercito industriale di riserva, per la quale i salari tendono a ridursi al crescere del tasso di disoccupazione, come conseguenza della compressione del potere contrattuale dei lavoratori. Si tratta di un’estensione di questa tesi, dal momento che traspone la medesima logica sul piano del conflitto nell’arena delle decisioni politiche. In altri termini, si può presumere che laddove il tasso di disoccupazione è elevato, è minore il potere contrattuale dei lavoratori, ed è più semplice per i capitalisti attuare misure di “disciplina” del lavoro. Qui, in particolare, accrescendone il grado di precarietà.

Sul piano empirico, si è proceduto a verificare questa congettura, confermandola: i tassi di disoccupazione influenzano negativamente gli indici Epl e all’aumentare del tasso di disoccupazione l’indicatore stesso decresce costantemente di circa 0,019 punti, un valore statisticamente significativo. Emerge, in definitiva, una relazione biunivoca: la precarizzazione del lavoro accresce la disoccupazione e la crescita della disoccupazione, indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro, mentre, soprattutto nella sfera politica, rende possibili ulteriori misure di precarizzazione del lavoro.


Guglielmo Forges Davanzati, professore associato di Economia politica all’Università del Salento
Lucia Mongelli, Università di Bari

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