Print Friendly, PDF & Email
tradingnetwork

Il default strisciante dell'Italia in un mondo pieno di incognite

Intervista a Paolo Cardenà

550608Dopo il grandissimo successo dalla prima intervista, LA DURA VERITA' SULL'ITALIA, torna su Tradingnetwork Paolo Cardenà, blogger di straordinario spessore -  www.vincitorievinti.com - e consulente finanziario, per fare il punto della situazione attuale in questo inizio del 2015, tra aspettative sul QE in salsa europea, crollo del petrolio e del rublo, e le crescenti tensioni derivante dalle elezioni anticipate in Grecia, anche per le eventuali ripercussioni che queste potranno avere sull'euro e su tutti gli altri paesi periferici dell'eurozona, Italia in testa, di cui sotto possiamo vedere un grafico del 2014, dove si vede chiaramente come i mercati siano stati positivi di fatto nella prima parte dell’anno, sulle aspettative del “nuovo” governo made in trojka Renzi, e negativi invece nel secondo semestre, ritornando per ben due volte già sui 17500-18000 toccati a dicembre 2013 (tutto questo, nonostante lo spread sia praticamente sui minimi degli ultimi anni, gli sforzi di Draghi comunicativi e non di tenere alte le aspettative per il QE europeo, liquidità abbondante, prezzo del petrolio in decisa flessione. Basterebbe  questo per dire che i mercati hanno già scaricato Renzi?).

Buona lettura.

 

TRADINGNETWORK: Abbiamo chiuso il 2014 con forti tensioni sul mercato valutario(con in testa il tracollo del rublo), un vero e proprio crollo del petrolio e di conseguenza con l’attacco finanziario alla Russia? Secondo il tuo punto di vista, questo è stato solo un antipasto rispetto a quel che vedremo nel 2015 oppure solo un modo per costringere Putin al compromesso?

P. CARDENA': Dunque, andiamo con ordine. Dopo qualche anno di prezzi sostanzialmente stabili, dai massimi di giugno, il prezzo del petrolio è crollato di quasi il 50%. Il 27 novembre scorso, a Vienna, i paesi appartenenti l'Opec - cartello che controlla quasi il 40% della produzione mondiale- non sono riusciti a trovare un accordo su un eventuale taglio alla produzione di petrolio, che avrebbe consentito di calmierare la caduta dei prezzi. C'è di più. Qualche settimana fa, alti rappresentanti del cartello dell'Opec hanno affermato che non interverranno neanche se il prezzo dovesse scendere sotto i 40 dollari. Il prezzo del petrolio è determinato dalla domanda e in gran parte anche dalle aspettative di crescita dell'economia globale.

Diverse aree del mondo stanno attraversando una fase di crescita a ritmi meno sostenuti rispetto agli ultimi anni, quindi hanno bisogno di minori quantitativi di petrolio. Le innovazioni tecnologiche introdotte in molti settori produttivi e della vita comune hanno determinato anche una maggiore efficienza nei consumi di petrolio e suoi derivati. Non solo. Negli ultimi anni gli Stati Uniti sono diventati i tra i più grandi produttori di petrolio, grazie alle aziende operanti nell'estrazione dell'olio di scisto. Gli Stati Uniti hanno quindi una capacità produttiva che consente di alimentare le riserve di petrolio e importano molto meno rispetto al passato. I paesi Arabi, anche per via dei bassi costi di estrazione -che consentono di ottenere margini di profitto anche a prezzi più bassi- hanno deciso di non sacrificare la propria quota di mercato per ripristinare livelli di prezzo più alti.

Ecco spiegato il crollo del prezzo del petrolio che, come si diceva, ha avuto forti ripercussioni anche sul mercato valutario. Perchè? Per il semplice motivo che un offerta di greggio abbastanza sostenuta a fonte di una domanda in contrazione, consente ai paesi arabi di sbarazzarsi dei concorrenti più vulnerabili nel settore petrolifero. Questi includono i frakers americani che hanno bisogno di prezzi alti per via di costi di estrazione elevati e per il forte indebitamento che ha finanziato attività estrattive poco profittevoli (o in perdita) a regimi di prezzo di più basso. Includono le compagnie occidentali con progetti ad alto costo volti alla perforazione dei fondali del mar artico; e, soprattutto, alcuni paesi "emergenti" i cui bilanci dipendono in ampia parte dai profitti derivanti dalla vendita del petrolio. Russia in primis.

E' verosimile pensare che il crollo del rublo sia stato determinato, almeno in gran parte, proprio dal crollo del prezzo del petrolio, stante anche la stretta correlazione verificatasi tra i movimenti ribassisti del petrolio e della valuta russa. Questo processo, inserendosi in un momento particolarmente delicato per la Russia, ha trovato terreno fertile proprio negli effetti prodotti dalle sanzioni che l'occidente ha imposto alla Russia che, come noto, benché abbia un debito del settore pubblico (intorno al 20% del Pil) imparagonabile ai volumi espressi dai paesi occidentali, è assai vulnerabile per via del debito di molte imprese che è espresso in dollari. La banca centrale russa è dovuta scendere in campo per finanziare imprese che, con un rublo fortemente svalutato, dovevano ripagare i propri debiti in dollari poiché inibite dalla possibilità di accedere ai mercati di capitali occidentali per via delle sanzioni. Ecco quindi che la Russia è dovuta intervenire a difesa del cambio, sia attingendo dalle proprie riserve in dollari (diminuite di oltre 100 miliardi) , sia aumentando i tassi di interessi fino al 17%, che, nel 2015, dovrebbero produrre una forte contrazione dell'economia che si stima intorno al -4%.

Non credo che si possa parlare di un complotto degli USA ai danni della Russia, per il semplice fatto che il prezzo del petrolio a questi livelli rischia di fare molti danni anche agli Stati Uniti, per via dei frakers che hanno costi di estrazione molto superiori rispetto alle quotazioni attuali del petrolio e che hanno finanziato i propri investimenti contraendo debiti che rischiano di non essere ripagati. Proprio nei giorni scorsi, sulla stampa si è letto che i prezzi del petrolio così bassi hanno prodotto già la prima vittima tra i frakers americani. Se i prezzi rimarranno a questi livelli (o addirittura più bassi) per un lungo periodo di tempo, la società fallita rischia di essere solo la prima di una lunga serie, con effetti che inevitabilmente si ripercuoteranno anche su quelle banche che hanno concesso credito e quindi anche in tutto il segmento delle obbligazioni high yeld. In tal senso, giova ricordare che le emissioni obbligazionarie delle aziende operanti nell'estrazione del petrolio dagli scisti bituminosi valgono circa il 20% del mercato high yeld: dimensioni non tutto trascurabili, direi. L'opinione che mi sono fatto è che il crollo del petrolio sia per lo più veicolato proprio dai paesi arabi che, avendo dei costi di estrazione molto più bassi e ingenti riserve in dollari, possono sostenere quotazioni a questi livelli ( o più bassi ancora) per un lungo periodo di tempo, facendo piazza pulita di un bel numero di concorrenti e obbligando gli altri paesi produttori (che hanno necessità di prezzi del petrolio più alti) a tagliare per primi i livelli produttivi per sostenere le quotazioni dei petrolio. In questo senso, i paesi arabi avrebbero la possibilità di non sacrificare le rispettive quote di mercato, o di farlo marginalmente. In altre parole, credo che i paesi arabi stiano cercando di spingere i paesi non OPEC a tagliare la produzione. Quanto sopra affermato mi induce a pensare che la Russia non sia stata vittima di un vero e proprio attacco finanziario finalizzato a costringere Putin a perseguire una soluzione di compromesso sulla questione ucraina che, ribadisco, è un tentativo mal riuscito di imporre l'arroganza occidentale in un luogo strategicamente fondamentale per la Russia poiché essenziale crocevia tra la Russia stessa e l'Europa.

 

TRADINGNETWORK: E per quanto riguarda le tensioni sulle altre valute emergenti, cosa ci dici?

P. CARDENA': Per quanto riguarda le tensioni sui mercati valutari, c'è un'altra questione da dover considerare. Ossia che da quando la Fed ha dato inizio all'exit strategy dalla politica monetaria fortemente accomodante, complice anche una robusta crescita degli Stati Uniti e le attese per una nuova fase (seppur cauta) di rialzo dei tassi americani, si è determinato un forte deflusso di capitali dai paesi emergenti ed il conseguente deprezzamento delle rispettive valute, con l'ovvia conseguenza che molti debiti in valuta estera sono divenuti più onerosi e in alcuni casi meno sostenibili proprio per via di valute locali svalutate.

Benché quelle dei paesi emergenti, nella maggior parte dei casi, siano realtà con bassi livelli di indebitamento sovrano, negli ultimi anni hanno vissuto una forte espansione determinata dall'incremento dell'indebitamento privato. Ne consegue che le imprese, nella migliore delle ipotesi, dovranno tagliare i costi per rendere le loro attività più profittevoli, in modo che possano avere maggiori margini idonei a smaltire l'indebitamento in valuta forte. Nei casi più estremi, invece, gli stati dovranno intervenire per soccorre attività altrimenti condannate al dissesto, con ovvie ripercussioni sul debito pubblico e sui rispettivi bilanci che, nel caso di paesi produttori di petrolio, come dicevamo, sono già gravati dall'onere derivante dalla caduta dei prezzi del petrolio, che impatterà significativamente sulla crescita e quindi sulle politiche fiscali che tenderanno ad irrigidirsi.

 

TRADINGNETWORK: In queste settimane anche la Grecia è tornata a far parlare di sé con decisione, con fortissime pressioni sul parlamento e sul popolo greco (arrivando anche a valigie di denaro per convincere i parlamentari a votare per un presidente filo-trojka come Samaras). Come sappiamo, l’incapacità di trovare i numeri necessari ad eleggere il presidente della Repubblica porterà il prossimo 25 gennaio alle urne i greci. La Germania, che tira le fila di ogni decisione della trojka, in queste ore ha fatto sapere, un po’ a sorpresa, che non sarebbe un problema l’uscita dall’euro della Grecia. Quale è la tua opinione a riguardo?

P. CARDENA': Quello che sta accadendo in Grecia non è un fatto che deve sorprendere più di tanto, per il semplice motivo che è l'ennesimo capitolo di una storia mai risolta. Mentre molti commentatori si sforzano a far credere che la Grecia sta uscendo dalla crisi, la realtà è assai diversa. Dopo il taglio del debito del 2011, oggi la Grecia ha un rapporto debito Pil addirittura superiore rispetto ai livelli massimi del 2010 e 2011 ed è verosimile pensare che in qualche modo, nel prossimo futuro, la Grecia dovrà nuovamente ristrutturare il debito. Quando la Germania afferma che l'eventuale uscita dall'euro della Grecia non fa paura, afferma una mezza verità o, se vogliamo, una mezza bugia. Perché? Perché le banche tedesche e francesi, dopo la ristrutturazione della Grecia del 2011, hanno scaricato gran parte del debito ellenico, spalmandolo sui vari fondi di salvataggio (che sono serviti per salvare le banche tedesche da eventuali dissesti delle banche greche e è spagnole) e sui vari stati, Italia compresa. Come ho scritto sul blog, non è vero che la Grecia non fa paura, anche se, rispetto al 2011, si è ridotto notevolmente l'impatto sistemico che potrebbe avere.

Se dovesse uscire dall'euro, costituirebbe comunque un precedente assai scomodo per la tenuta della moneta unica. Per il semplice motivo che si sancirebbe un fatto che già noto, ossia che non è affatto vero che l'euro è irreversibile, nonostante ciò che dice Draghi che, buon uomo, sta facendo di tutto per salvare l'euro da se stesso.

Come sappiamo, i mercati si attendono anche che Draghi, il prossimo 22 gennaio, lanci il QE sui debiti sovrani. Quindi, ammesso che non prevalgano le posizioni tedesche contrarie ad un intervento di questo genere, in assenza di un alleggerimento dei vincoli di bilancio, l'acquisto di debito sovrano da parte della BCE sarà strumentale solamente ad alimentare la bolla sul mercato obbligazionario che già quota prezzi del tutto asimmetrici rispetto alle reali condizioni di molte economie.

In molti paesi sta crescendo il consenso elettorale a sostegno di molti partiti anti euro. Tsipras, il leader del partito greco Syriza, non perde occasione per affermare che se dovesse vincere le elezioni cancellerà l'austerità imposta dalla Troika e rinegozierà il debito pubblico; non mi sembra che sia un atteggiamento tanto favorevole e costruttivo ad incentivare i tedeschi ad assumere una posizione più morbida tale da favorire l'acquisto di debito dei paesi mediterranei da parte della BCE.

Nei giorni scorsi è trapelata la notizia (tutta da confermare) che la Bce starebbe approntando un QE che escluderebbe l'acquisto di debito non investment grade. Se così fosse, la Grecia sarebbe esclusa e rischierebbe di esserne esclusa anche l'Italia, qualora dovesse subire un ulteriore downgrade da parte delle agenzie di rating.

Samaras qualche settimana fa ha affermato che la Grecia, in mancanza di nuovi aiuti dalla Ue, riuscirebbe ad avere risorse finanziarie sufficienti solo fino alla fine di febbraio.

I mercati stanno cominciando a prezzare il default della Grecia e anche l'eventuale uscita dalla moneta unica, per via della prospettiva che Syriza vinca le elezioni. Le possibilità che la Grecia possa abbandonare l'euro stanno crescendo sensibilmente, proprio perché senza molte alternative.

C'è di più. In Italia l'euroscetticismo sta conoscendo vette non immaginabili fino a qualche tempo fa. La stessa cosa accade in Francia con il partito della Le Pen e in Spagna con Podemos. Insomma, personalmente non scommetterei granché sul fatto che l'euro tra qualche anno possa ancora esistere.

Quella appena descritta è una semplice rappresentazione del perimetro entro il quale dovrebbe nascere il quatitative easing di Draghi per salvare l'euro da se stesso.

E' chiaro, quindi, che gli stati cerchino delle soluzioni di compromesso finalizzate ad arginare quanto più possibile l'eventualità di doversi accollare delle perdite prodotte da un eventuale abbandono della moneta unica da parte di alcuni paesi, ammesso che l'euro possa sopravvivere ad un'ipotesi del genere.

Draghi dice di voler acquistare debito sovrano per appena 500 miliardi di euro. Ammesso che sia così e che alla fine fiera lo possa anche fare, la Bce, stando alle indiscrezioni riportate dalla stampa, potrebbe comprare appena una novantina di miliardi di euro di titoli di stato italiani, se il QE dovesse essere distribuito in base alla partecipazione delle singole banche centrali nazionali alla Bce. Se così fosse, quindi, gli acuisti che potrebbe fare la Bce sul debito italiano sarebbero di appena 90 miliardi di euro, ossia poco più della spesa per interessi che l'Italia sostiene ogni anno.

Giova ricordare che nel 2011, la Bce, sotto la guida di Trichet, avviò il programma Smp con il quale vennero comprati circa 100 miliardi di debito pubblico italiano. Nonostante ciò, lo spread continuò a salire fino a quasi i 600 punti sui bund tedeschi. Oggi la questione è diversa: non abbiamo un problema di spread (per il momento), ma di un inflazione troppo bassa che rende più accidentato il percorso di sostenimento dei debiti di quei paesi fortemente indebitati.

Appare assai remota la possibilità che il QE in salsa europea possa essere in grado di produrre gli effetti sperati.

Inoltre, con ogni probabilità, i mercati hanno in larga parte già scontentato gli effetti di una manovra espansiva, e questa servirà a far monetizzare alle banche le laute plusvalenze che hanno ottenuto investendo in titoli di stato. Con il rischio che i mercati stessi possano rimanere delusi dalla manovra della Bce, qualora dovesse esser fatta cercando soluzioni di compromesso con i tedeschi. Ipotesi peraltro assai probabile.

 

TRADINGNETWORK: Siamo nell’epoca di quello che noi chiamiamo IL GRANDE ESPERIMENTO portato avanti dal 2008-2009 in maniera via via sempre più aggressiva da tutte le più importanti Banche Centrali a livello planetario, che ha in comune tassi a zero praticamente in tutte le economie occidentali, immissione di liquidità con tutte le formule possibili e immaginabili - QE in testa -, declino generale dei salari e dei prezzi ( a parte quelli di alcune specifiche asset class, manco a dirlo quelle su cui affluisce la liquidità suddetta), forte aumento delle diseguaglianze sociali. E’ nostra opinione che tutto ciò porti più a ulteriori distorsioni, sconquassi e squilibri che a benefici strutturali per l’economia reale, con gli effetti che presto o tardi si faranno sentire anche sugli unici veri beneficiari di questo Grande Esperimento, ossia i mercati finanziari, Wall Street in testa. Quale è il tuo pensiero?

P. CARDENA': Ci troviamo nel campo dell'ignoto. Come dicevamo, l'esperimento che stanno compiendo le banche centrali non ha alcun precedente nelle storia. Ma, se si pensa che anche i livelli di debito non hanno precedenti nella storia, allora si comprende ciò che stanno facendo le banche centrali. In buona sostanza, stanno cercano di mantenere la solvibilità di soggetti (stati e privati) oggettivamente falliti, che sono alle prese con livelli di indebitamento che si scontrano con una crescita economica assai più fragile e ridotta rispetto a quella verificatasi nelle precedenti espansioni economiche. Le speranze delle banche centrali vanno individuate su tre fronti:

1) la speranza che possa sopraggiungere una ripresa più vigorosa idonea a favorire una riduzione dell'indebitamente in rapporto al Pil;

2) la speranza che l'inflazione possa avvicinarsi al target delle banche centrali, in modo da far aumentare il Pil nominale e, quindi, contribuire a diluire i debiti,

3) la speranza che gli investitori a caccia di rendimento dirottino gli investimenti a favore di altre attività più idonee a finanziare l'economia reale. Questo è tanto più vero nel contesto europeo dove la principale fonte di finanziamento delle è costituita dal tradizionale canale bancario.

Non c'è nulla di nuovo se affermiamo che molte asset class scontano quotazioni del tutto asimmetriche rispetto ai fondamentali economici e, in molti casi, anche alla capacità da parte di molte imprese di produrre utili. Le distorsioni prodotte da questo fenomeno sono estremamente significative e pericolose. La percezione del rischio da parte degli investitori è del tutto saltata in aria per via dell'interventismo delle banche centrali, che hanno voluto restituire apparente solvibilità a soggetti oggettivamente falliti, creando un'immensa bolla su quasi tutte le classi di investimento, il cui scoppio potrebbe avere effetti assai più devastanti di quelli che abbiamo visto nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers. Ecco perché la Fed è estremamente cauta e paziente nell'aumentare i tassi di interesse: perché ha paura che i mercati possano reagire troppo negativamente ad un'ipotesi del genere, provocando un crollo sistemico delle quotazioni. In buona sostanza, le banche centrali sono in qualche modo "ostaggio" della liquidità che hanno creato e quindi sono "ostaggio" dei mercati. Allo stato attuale, penso che la Fed, se interverrà sui tassi, lo farà in modo molto tenue e assai dilatato nel tempo, raggiungendo la neutralità dei tassi ad un livello ben più basso rispetto alla precedente neutralità (nel caso della Fed, posta intorno al 4%). Se non altro, proprio perché il mondo sta navigando in un mare di debito, e tassi di interesse più alti si tradurrebbero in maggiori oneri da parte di privati e stati. I primi, dovrebbero contrarre i consumi per sostenere l'indebitamento; i secondi, per via fiscale, dovrebbero mitigare gli effetti che si produrrebbero sui bilanci, già assai delicati. Tutto ciò, impatterebbe su una crescita economica debole che, come dicevamo, si scontra con livelli di indebitamento senza alcun precedente nella storia.

 

TRADINGNETWORK: Per chiudere, a nostro avviso l’Italia non è oramai più nelle condizioni di uscire con le buone dalla situazione cronica in sui si trova, tenendo conto che da tempo ha perso oramai buona parte delle proprie sovranità, ed è di fatto asfissiata dall’enorme debito e dalle politiche di austerity massacra risparmi e patrimoni imposte dalla Trojka. Basterà un piccolo soffio di vento sui mercati internazionali per dare il colpo di grazia. Hai motivo di essere più ottimista di noi?

P. CARDENA': Dell'Italia abbiamo detto molto anche nella precedente intervista. Lo scenario non è affatto cambiato. Anzi, a voler essere precisi, i dati macroeconomici si sono ulteriormente deteriorati. Quello che sta avvenendo nel paese altro non è che un default strisciante destinato a durare fino a quando si sarà distrutta buona parte della ricchezza dell'Italia, prima che sopraggiunga il default vero. Per l'Italia è assai difficili immaginare un lieto fieno, per il semplice motivo che deve invertire una tendenza di declino strutturale al quale si è avviata almeno una trentina di anni fa. E deve poterlo fare rapidamente, in condizioni assai difficili, e con fattori demografici che giocano fortemente a sfavore.

Il grafico che segue ne costituisce evidenza tangibile ed è la migliore risposta per coloro che dovessero chiedersi: "cosa ne sarà dell'Italia?"

GRAFICO CARDENA

Add comment

Submit