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Stato e mercato

Sole 24 Ore, il «momento Minsky» e il liberismo impossibile

Riccardo Bellofiore

finance-crisis-photo1Valentino Parlato ha invitato il Sole 24 Ore all'apertura di un dibattito. L'invito è stato raccolto da Fabrizio Galimberti. L'occasione è il salvataggio della Northern Rock da parte dello stato, ma la discussione investe spazio e ruolo del liberismo. Vorrei proporre un punto di vista inusuale, forse intrigante anche per i giornalisti del Sole, che sono di buone letture.

La crisi dei subprime, in incubazione da tempo, si è fatta seria a marzo, ed è esplosa a luglio. Proprio a marzo e a luglio George Magnus, senior economic advisor dell'Ubs di Londra, in due rapporti ha avvertito che si avvicinava un «momento Minsky». L'espressione è circolata nei blog finanziari, ed è diventata una valanga. Non ha risparmiato il Financial Times o il Wall Street Journal, il Guardian e Le Monde Diplomatique, da noi persino Repubblica. Di che si tratta?

Hyman P. Minsky è un economista eterodosso americano, morto nel 1996. Una Cassandra che ricordava sempre che la «stabilità è destabilizzante». La crescita capitalistica degenera ineluttabilmente in instabilità finanziaria. Quando le bolle scoppiano, la deflazione da debiti è dietro l'angolo. I suoi libri sono tradotti, in italiano da editori prestigiosi. Ma nessuno se ne ricordava più. Come mai tanta notorietà, ora?

La risposta è facile: Minsky ha avuto fastidiosamente ragione. La sua visione è semplice e potente.

Nel capitalismo, produzione e investimento devono essere finanziati, e al centro del sistema dei pagamenti ci sono le banche. Dopo una grave crisi, il ciclo riparte con una crescita «tranquilla». Gli operatori sono in posizione coperta»: le entrate di cassa coprono le uscite. Le cose vanno bene, l'ottimismo si diffonde, debitori e creditori riducono la stima del rischio.

Ci si indebita sempre di più, con posizioni prima «speculative» (in alcuni periodi i profitti eccedono il pagamento degli interessi, e ci si deve rifinanziare), poi «ultraspeculative» (l'investimento darà profitto sulla base di eventi «eccezionali», che possono anche essere rivalutazioni sui «mercati» di attività quali azioni o immobili). Il boom degenera in euforia irrazionale. La liquidità crescente è fornita da intermediari finanziari sempre più fantasiosi negli strumenti di indebitamento che si inventano, e le banche li seguono.

Se la banca centrale cerca di controllare questo processo aumentando i tassi di interesse, o se si hanno sgonfiamenti delle bolle azionarie o immobiliari, il castello crolla. La crisi di liquidità può tramutarsi in crisi di insolvenza, le banche essere coinvolte, l'economia reale si avvita al ribasso. Le cose si dissociano, il centro non può reggere»: un verso di Yeats che Minsky citava spesso.

Qualcosa del genere è successo dopo la svolta neoliberista degli inizi degli anni Ottanta. Qualche esempio: Wall Street nel 1987, le Savings & Loans nel 1989-90, il Giappone inizio anni Novanta, il 1997-98 tra Asia e Usa, le dot.com nel 2000, ora i subprime. La spiegazione di Minsky ha due problemi. Se le cose vanno bene, la singola impresa si indebita, ma i profitti del settore delle imprese crescono: il leverage può restare limitato; p.es. oggi le imprese Usa scoppiano finanziariamente di salute. Poi, Minsky centra il ragionamento sull'investimento: che spiega poco della new economy, e niente della ripresa Usa dal 2003. Il punto a favore di Minsky è un altro. Di fatto, le ondate di indebitamento si sono prodotte. E quando non strettamente nei suoi termini, si sono prodotte altrove, con la medesima struttura.

Dalla metà degli anni Novanta, l'effetto leva sostiene la spesa del consumatore «indebitato», senza il quale l'economia non solo Usa ma mondiale sarebbe scivolata nella stagnazione. La crisi fa riemergere il risparmiatore «terrorizzato». La globalizzazione e il raddoppio dell'esercito industriale producono intanto il lavoratore «spaventato». Bello per i prezzi delle merci, che crescono poco. Peccato che la compressione dei salari faccia sì che la domanda la devi ottenere per il tramite di una inflazione dei prezzi delle «attività», per sostenere i consumi privati. Queste bolle, dal 1995, le ha prodotte la politica monetaria Usa. Un interventismo bello e buono. E che ha molto a che vedere con la diffusione della precarietà e la pressione verso un capitalismo dei fondi pensione.

«Potrebbe ripetersi?» Minsky è scettico. Il laisser faire è per i poveri, non per i ricchi. La Banca Centrale fornirà liquidità a basso costo: deve salvare la casino economy. Bernanke ha imitato Greenspan, controvoglia. Una migliore «regolazione» del sistema finanziario, utile, verrà comunque aggirata. La politica monetaria ha però efficacia limitata, specie se il problema è l'insolvenza: sono necessari disavanzi del bilancio pubblico. Occorrono, dunque, prestatore di ultima istanza e «grande» stato.

Il Sole si è scordato che la crisi del 2001 si è risolta con il keynesismo «di guerra» in disavanzo. Che dal 2003 è tornato lo stimolo al consumo, politicamente governato. Che quando il debito privato collassa, la ricerca della «qualità» significa caccia ai titoli sul debito pubblico. Per Minsky, comunque, neppure i disavanzi, che sostengono i profitti, sono la vera risposta. Come ha scritto Graziani, occorre un vaglio sulla «congruità», ma dunque anche sui contenuti, della spesa pubblica, che non può essere difesa o contratta sulla base di formule contabili.
C'è di più: la «socializzazione degli investimenti», per Minsky, va fatta con un piano del lavoro che garantisca piena occupazione, stabile e di qualità, e con investimenti pubblici che migliorino la produttività del sistema, nel lungo orizzonte temporale che solo lo stato può avere.

Ha in mente il New Deal, non il keynesismo degli anni Sessanta e Settanta, che detestava. Di «esercito del lavoro» parlavano due bolscevichi, Ernesto Rossi e Sylos Labini. Basta pensare alla condizione di declino relativo della industria italiana e ai limiti della nostra specializzazione internazionale per capire dove ci ha condotto il primato dell'impresa; e che senza l'ottica di lungo termine dello stato non se ne esce.

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