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paroleecose2

Per una politica più che umana: pensare l'evento

di Giulio Pennacchioni

eventoL’obiettivo dell’ultimo numero dell’Almanacco di filosofia e politica, pubblicato da Quodlibet lo scorso marzo[1] e a cura di Rita Fulco e Andrea Moresco, è duplice: riflettere sullo statuto ontologico-politico della categoria di “evento” e sul rapporto «tra evento storico, conflitto politico e forma istituzionale»[2]. In continuità con i numeri precedenti dell’Almanacco, l’evento si rivela quindi essere uno spazio all’interno del quale è possibile collocare una riflessione sul pensiero istituente. L’evento è dove avviene la trasformazione delle istituzioni, lo sviluppo di alcune e il declino di altre, che non vanno quindi considerate dei “blocchi monolitici” immutabili, bensì delle “strutture” dinamiche e aperte a cambiamenti. Come spiegato[3] da Roberto Esposito, che oltre a dirigere le uscite dell’Almanacco, è tra i filosofi italiani che più si è occupato della nozione di “istituzione”, si tratta di un «concetto che supera l’ambito strettamente politico-giurisdizionale entro il quale siamo soliti collocarlo, e che designa invece sia la forza, la potenza impersonale (ontologica) incorporata alla vita, sia l’intrinseca vitalità (politica)»[4].

Trasformazione delle istituzioni che, come emerso nei tre precedenti volumi dell’Almanacco, non è mai separata da una prassi antagonista, quella dei conflitti sociali, che va anzi assunta a suo punto di inizio. Conflitti politici e sociali che non sono certo mancati durante la crisi scatenata dal Covid 19 (Black Lives Matter, movimenti femministi e per la giustizia climatica, scioperi per la sicurezza sul lavoro e in difesa del salario, scioperi nelle carceri, reti di solidarietà e mutualismo, per citarne solo alcuni) e da cui un “pensiero istituente” può svilupparsi.

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chartasporca

Lettera aperta a noi ventenni

di Sara Nocent

I. “Cito qualcuno per non stare zitto”

nero scaledCos’ha detto? Ho capito / Chi l’ha detto? Condivido / Leggo poco, guardo i video / Non mi vanto, sono un mito / E se non so cosa dire, cito qualcuno per non stare zitto
(Selton, Pasolini)

Ai ventenni di oggi. Nati dagli eterni figli della “Generazione X” ed eredi di rivoluzioni fallite, di una depressione romanzata dissoltasi ormai in una diffusa, indefinibile ansia. Siamo i post-figli, cresciuti senza conoscere la differenza tra le realtà sociali e lavorative stabili di più di quarant’anni fa e la disgregazione, l’accelerazione applicata a ogni campo, il desiderio autoimprenditoriale. Non abbiamo avuto neanche la delusione di una promessa mancata, quella di un’occupazione a tempo indeterminato, con ritmi e paghe decenti, e della possibilità di farsi una casa e una famiglia. Il verbo della flessibilità e del perfezionismo ci è stato infatti impartito fin dall’infanzia, già ai tempi delle maestre che elogiavano chi poteva permettersi di fare più attività extrascolastiche e riusciva a essere bravissimo in tutti i campi. Non che all’università le cose migliorino: dire “sono anche uno studente universitario” è quasi diventata un’abitudine per campioni di varia sorta, come se impegnarsi nello studio non fosse sufficiente di fronte al bisogno di eccellere il prima possibile. Professori e professoresse ci hanno insegnato che è necessario competere, ma manca un dettaglio: competere per cosa? Per quel fantomatico “mercato del lavoro” spesso rappresentato come un brutale stato di natura, quello stesso contesto che poi ti chiede, fra le varie soft skills, di essere empatico, causativo, creativo. Devi insomma essere quello che fai, mentre la qualità con cui lo fai e le tue risorse mentali sono oggetto di valutazione performativa e morale, capacità che possono essere addestrate.

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marx xxi

Il grande scisma ortodosso e la guerra in Ucraina

di Francesco Galofaro*

scisma doriente1 1200x900E’ inevitabile che il quotidiano racconto mediatico del conflitto in Ucraina pecchi di recentismo: in primo piano si pongono i movimenti delle truppe e le sanguinose contumelie che scambiate tra Zelensky e Putin; le radici del conflitto in atto finiscono in secondo piano e finiscono per perdersi. Ad esempio, vorrei far notare che la guerra si inserisce entro il più grave scisma che abbia colpito le Chiese ortodosse dopo quello monofisita del V secolo, e che coinvolge il Patriarcato di Mosca e quello di Costantinopoli. Questo scisma precede la guerra; le sue radici risalgono agli anni immediatamente successivi alla caduta di Berlino. Non coinvolge solo il “perfido” Kirill, ma anche il suo predecessore Alessio II; non solo Kiev, ma anche la metropolìa di Tallinn. Lo scopo di questo mio articolo è spostare l’attenzione dagli eroi e i cattivi del racconto propagandistico alle dinamiche di lungo periodo e alle strutture del conflitto geopolitico, nell’interesse della comprensione e – se Dio vuole – della pace.

Fede e crociate – Di questi tempi è prassi associare il nome di Kirill a quello di Vladimir Putin negli anatemi quotidiani di politici e giornalisti. Qualche giorno fa, la Commissione europea ha proposto di includere il patriarca di Mosca nella sesta tornata di sanzioni contro la Russia, trasformando il conflitto ucraino in guerra di religione. Prescindendo dal giudizio sulle convinzioni di Kirill e dalle notizie sul suo patrimonio pubblicate da Forbes, trattiamo pur sempre del leader spirituale di una comunità che conta 110 milioni di fedeli nel mondo. Reagiranno approvando le sanzioni o difendendolo, sentendosi nel mirino di un disegno persecutorio? Franco Cardini, insigne storico delle religioni, ha commentato:

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ospite ingrato

Un libro di Bellocchio

di Luca Lenzini

Per ricordare Piergiorgio Bellocchio, scomparso il 18 aprile, «L’ospite ingrato» pubblica una serie di interventi sulla sua figura e la sua opera, così come una breve scelta di suoi testi poco noti

2022.5.12. LENZINII.

Molti anni sono passati da quando, nel 1984, «quaderni piacentini» cessò le pubblicazioni, mezzo secolo dal momento della sua maggiore diffusione, quel Sessantotto di cui fu parte attiva e di cui anticipò non pochi temi culturali e politici. E quali anni, ci separano da quel tempo: tali da cambiare lo scenario (sociale, culturale, economico) così in profondità, nel nostro paese come altrove, al punto che non solo le persone ma tutto un insieme di categorie, nozioni acquisite, schemi e elaborazioni di ordine intellettuale sembrano ormai non tanto invecchiati quanto irriconoscibili, come quei convitati alla matinée dei Guermantes di cui parla l’ultimo tornante della Recherche; eppure, ancora oggi, se qualcuno nomina Bellocchio non c’è scampo, è immediata l’associazione con i «quaderni piacentini».

Perché stupirsi, si dirà. La rivista non l’ha fondata e diretta lui, insieme a Grazia Cherchi? Non ne è indiscutibile l’importanza per la formazione della “nuova sinistra”, e più in generale per il rinnovamento della cultura italiana in quegli anni? E non lo è anche la sua indipendenza da partiti e conventicole, notabile eccezione tra le pubblicazioni italiane di cultura? Non vi hanno collaborato, infine, i migliori ingegni del periodo?… Tutto vero, certo: il “mito” dei «Quaderni» ha solide fondamenta, e solo chi è prevenuto può disconoscerlo; e nondimeno, quando l’intervistatore o il recensore di Bellocchio attaccano la solfa, ogni volta con la storia della rivista, con le rievocazioni di maniera, gli episodi e le polemiche e gli slogan del tempo che fu, è difficile ignorare che così facendo si prepara il lettore a consumare un “personaggio”, e che a sua volta questa operazione, con l’annesso e comodo (ora) elogio dell'”eretico”, dell'”irregolare” e “anticonformista”, è la premessa per falsare, o meglio ridurre e infine addomesticare il nucleo più vivo e urticante della scrittura di Bellocchio, la cui ironia non vuol essere né un gioco intellettuale, né un esercizio di disincanto per cinici a corto di battute, bensì una forma di denuncia e insieme un tratto intrinseco alla scrittura.

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ospite ingrato

Il gesto dell’intellettuale, da Zola a oggi

di Pierluigi Pellini

2022.5.9. PELLINIEsce in questi giorni per il Saggiatore E. Zola, J’Accuse…!, a cura di Pierluigi Pellini, con un saggio di Daniele Giglioli. Il volume offre una traduzione finalmente attendibile della celebre lettera di Zola (e della Dichiarazione alla Corte pronunciata dallo scrittore alla fine del processo che lo ha visto imputato per diffamazione); e comprende due saggi: uno di Pellini, che precisa la specificità storica del gesto di Zola nella longue durée (da Voltaire a oggi) dei rapporti fra uomini di cultura e potere; e uno di Daniele Giglioli, che prende spunto da un romanzo di Philip Roth, La macchia umana, per impostare una genealogia e una critica dell’accusa nella nostra contemporaneità. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo qui un estratto dei paragrafi centrali dello scritto di Pierluigi Pellini.

* * * *

L’intellettuale moderno denuncia e accusa in nome di un gruppo (gli altri intellettuali, i repubblicani) e soprattutto in nome di valori universali condivisi: giustizia, verità, diritti dell’uomo. In questo senso, l’intellettuale moderno non parla mai in nome dell’io: come invece fanno, oggi, quasi tutti i fabbricanti seriali di j’accuse più o meno interessati o pretestuosi.

La realtà storica sfugge quasi sempre alle semplificazioni: anche a quelle di segno opposto, tentate da intellettuali importanti come Alain Badiou. S’è visto, ed è innegabile, che l’affaire Dreyfus è anche “guerra civile”: lo è in figura e a tratti rischia di diventarlo anche realmente. Altrettanto innegabile è che la polarizzazione fra progresso e reazione, fra democrazia repubblicana e nazionalismo del sangue e della terra, rimarrà attiva, sottotraccia, nella società francese, e tornerà a manifestarsi con furibonde recrudescenze.

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jacobin

La via fantastica al comunismo

di Luca Cangianti

Valerio Evangelisti, scomparso a settant'anni, era convinto della necessità di un immaginario alternativo per contrastare le forze della reazione

evangelisti jacobin italia 1320x481In un piccolo cimitero nascosto nelle vallate dell’Appennino emiliano affluiscono un centinaio di persone di tutte le età. La pioggia incessante inzuppa quattro bandiere rosse prive di simboli. Un uomo visibilmente commosso dispone amorevolmente una quinta bandiera sul feretro: è quella rossa e nera della Cnt, il sindacato anarchico che tra il 1936 e il 1939 animò la resistenza repubblicana al franchismo. Da sotto gli ombrelli si alza il canto dell’Internazionale, poi qualcuno seleziona un brano da Spotify e mette il volume dello smarthphone al massimo. Mi sembra di riconoscere i Sepultura, un gruppo death-metal brasiliano.

Lo scorso 18 aprile si è spento all’età di settant’anni Valerio Evangelisti, autore di oltre trenta romanzi tradotti in più di venti paesi, oltre che di un’infinità di racconti, saggi, articoli e prefazioni. Nella stessa giornata del funerale i sindacati di base avevano indetto a Roma una manifestazione con la parola d’ordine: «Abbassate le armi, alzate i salari». Su uno striscione portato da decine di lavoratori e lavoratrici si legge: «Dalle fabbriche ai porti, noi saremo tutto! Ciao Valerio!». Lo slogan «Noi saremo tutto» appartiene agli Industrial Worker of the World e dà il titolo a uno dei romanzi che lo scrittore bolognese ha dedicato all’eroica lotta di questo sindacato rivoluzionario negli Stati uniti.

Non è la prima volta che i movimenti sociali si appropriano dei libri di Evangelisti: una decina d’anni fa gli studenti del Book Bloc scesero in piazza con dei grandi scudi a forma di libro per difendersi dalle cariche della polizia.

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carmilla

Black Flag, speranza e distopia. Ricordando la meraviglia del primo incontro con Valerio Evangelisti

di Fabio Ciabatti

Evangelisti 4Quando il mio ricordo va a Valerio Evangelisti la prima immagine che mi viene in mente è quella di un grande narratore, di una persona capace di raccontare storie meravigliose. Storie che non avevano una conclusione definitiva, ma che potevano ricominciare sempre, continuare all’infinito perché avevano un carattere aperto e multilineare. Storie pensate per costituire una sorta di memoria collettiva degli oppressi e degli sfruttati e per consentire loro di riappropriarsi delle proprie passate gesta, cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Insomma, nel mio ricordo Valerio più che apparire come uno scrittore in senso stretto assomiglia un po’ al narratore di cui ci parla Walter Benjamin.

Sono ben consapevole che questo paragone ha dei limiti. A cominciare dal fatto che raramente i suoi romanzi hanno per protagonista l’uomo giusto e semplice di cui ci parla il filosofo berlinese. È più frequente che il motore della narrazione proceda dal “lato cattivo della storia”. Basti pensare al suo personaggio più famoso, l’inquisitore Nicolas Eymerich. I suoi racconti, in questo modo, sono in grado di dissezionare i fondamenti antropologici, ideologici, psicologici del potere, mettendosi dalla parte del potere stesso. È poi ovvio che il suo mezzo espressivo principale era il racconto scritto e non quello orale, per quanto sia anche vero che, sentendolo parlare con il suo tono di voce basso e leggermente cantilenante, non si poteva non rimanere affascinati dalla sua capacità affabulatoria e dalla sua sottile ironia.

Rimane il fatto che Valerio non si accontentava di cristallizzare in forma letteraria l’insanabile scissione tra significato e vita, come accade al romanziere tipo benjaminiano.

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jacobin

Noi non siamo niente, siamo tutto!

di Serge Quadruppani

Serge Quadruppani ricorda Valerio Evangelisti e i suoi personaggi abietti a cominciare dal più popolare: Eymerich. La descrizione delle forme più atroci di dominazione come incitamento alla ribellione

valerio evangelisti jacobin italia 1536x560Valerio Evangelisti è morto lunedì 18 aprile. Non potremmo parlare della sua opera senza cominciare da quella che è sia la parte maledetta che la più visibile, la più conosciuta: Eymerich, quel personaggio storico, Inquisitore Generale del Regno d’Aragona nel 1357, «predicatore di verità», «dottore di prim’ordine», divenuto un personaggio di finzione, antenato di due delle figure archetipiche della nostra modernità, il poliziotto e lo scienziato. Eymerich, dice San Malvagio, imperversa nella sua epoca ma viaggia nel tempo. Le sue avventure sono state raccolte in una saga di dodici volumi di successo internazionale, pubblicate e ripubblicate anche in Francia prima da Rivages/Fantasy, poi da La Volte, in una traduzione a opera del sottoscritto per quanto riguarda i primi volumi, e dell’eccellente Daniel Barberi per i successivi.

Mischiando diversi generi letterari, horror, fantascienza, giallo, avventura, ogni episodio della saga è costruito sull’intrecciarsi di tre temporalità: il medioevo dell’Eymerich storico, un presente o passato recente, e un futuro distopico. Le quarte di copertina, che cercano di restituire la ricchezza di questi intrecci, compongono una sorta di poema barocco che dà le vertigini: «Qual è il legame tra l’indagine di Eymerich sulla rinascita dell’eresia catara in Savoia, la manipolazione genetica dei ricercatori dementi a metà degli anni Trenta e le fosse comuni di Timisoara, in Romania?»; «1358, Castres. Nicolas Eymerich conduce una terribile vendetta contro la setta dei Masc, bevitori di sangue. Ventesimo secolo, Usa. Il Ku Klux Klan, la Cia e l’Oas sono coinvolti da un biologo fanatico di esperimenti su persone di colore.

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Responsabilità di Piergiorgio Bellocchio

di Eugenio Gazzola

bellocchioUn principio di responsabilità ha orientato il lavoro di Piergiorgio Bellocchio lungo tutta la sua esistenza. Un passo ulteriore, credo, rispetto al profilo del moderno intellettuale moralista richiamato dopo la sua improvvisa scomparsa, il 18 aprile scorso a Piacenza. Si intende la responsabilità dell’intellettuale disposto a testimoniare con la militanza diretta i principi etici e morali nei quali si riconosce e quindi a “pagare di persona” questa sua testimonianza, cioè a rischiare l’isolamento, l’incomprensione, così come in passato si rischiava il bando, il carcere o la vita. E tanto maggiore è il peso di una militanza vissuta, quanto più è attuata al di fuori dei partiti politici e delle schermaglie giornalistiche, cioè «al di sotto della mischia» (il titolo della sua raccolta Scheiwiller del 2007). Conservare la chiarezza dello sguardo.

In un saggio pubblicato ormai più di venti anni fa, poche righe che non riesco più a individuare nei vecchi libri, Bellocchio indicava alcune figure eccellenti del Novecento sul piano della responsabilità, e alcune le ricordo: George Orwell, Simone Weil, Céline, persino Bernanòs, forse Karl Kraus. Mentre conosciamo, del pari, la sua dedizione a scrittori come Fenoglio, Ginzburg, Bianciardi; a una figura come Danilo Montaldi, l’intellettuale marxista cremonese maestro dell’inchiesta sociale, di cui Bellocchio elogia la naturalezza con cui sapeva essere a un tempo intellettuale e politico senza separazione (quella separazione criticata negli intellettuali italiani dal suo maestro Franco Fortini), come due lati del medesimo lavoro.

Ha scritto Bellocchio che Montaldi, «nato proletario, aveva scelto di restarlo», che il prestigio pubblico non lo allettava, né gli agi o il potere che avrebbero potuto derivarne: «non valeva certo la pena, per quei risibili vantaggi, di perdere il lusso dell’indipendenza, la libertà di fare il lavoro che preferisci, nel modo e per lo scopo che ritieni più giusti.

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eticaeconomia

Federico Caffè. Sono passati 35 anni

di Maurizio Franzini

Federico Caffè“La mia indipendenza, che è la mia forza,
implica la solitudine, che è la mia debolezza”

Pier Paolo Pasolini

La mattina del 15 aprile di 35 anni fa il telefono fisso di casa mia squillò molto presto, mentre ancora dormivo. Alzai la cornetta e a parlarmi era il mio amico e un po’ più anziano collega Giorgio Gagliani, che purtroppo ci ha lasciato da molti anni. Con voce calma mi chiese se fossi sveglio e prima ancora che potessi dirgli ‘fino a un minuto fa, no’ mi resi conto che nella calma della sua voce c’era qualcosa di strano. ‘Senti, Caffè è scomparso’ ‘Scomparso? Mi stai dicendo che è morto’ ‘No, non è morto è scomparso, sparito non sappiamo dove sia andato’. Giorgio credo sia stato l’ultimo di noi a vederlo, il giorno prima della scomparsa, ma questo di certo non gli fu d’aiuto per fare ipotesi su dove potesse essere. Poco dopo, tutti noi, suoi ‘allievi’, eravamo lì, a casa di Caffè in via Cadlolo, alla ricerca di idee sul da farsi. Quella che prevalse fu di cercarlo sulla collina di Monte Mario nella angosciosa speranza che fosse finito lì sospinto da un momento di cedimento alla sensazione che la vita gli stesse sfuggendo di mano. Non fu una buona idea, come tutte quelle che le fecero seguito. La sequenza presto si esaurì e abbandonare la speranza di recuperarlo al nostro affetto e alla nostra gratitudine non fu facile. Certo fu impossibile – io credo, per ognuno di noi – smettere di interrogarsi sulle ragioni ultime e sul significato di quel suo gesto smisurato.

Sapevamo della sua sofferenza per il venir meno di essenziali affetti, sospettavamo che fosse stato se non raggiunto almeno lambito dal social despair per il percorso che il mondo aveva imboccato e sapevamo – dovrei dire meglio: credevamo di sapere – quanti intralci alla sua vitalità creava quella stagione della vita in cui gioie e soddisfazioni quasi dimenticano di germogliare.

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quadernidaltritempi

Fare storia della rivoluzione in tempi di cancel culture

di Roberto Paura

Antonino De Francesco rilegge le rivoluzioni atlantiche ponendo al centro l’emancipazione dei neri

in rilievo letture repubbliche atlantiche APrima di iniziare un articolo che ha nel titolo cancel culture conviene sgomberare il campo da possibili equivoci attraverso due assunti di base. Primo: se per cancel culture intendiamo la definizione corrente di un movimento culturale prima che politico teso a cancellare le tracce di un passato scomodo non più in linea con il comune sentire contemporaneo, allora non si tratta di un fenomeno moderno; come spesso accade, la Rivoluzione francese ne fu antesignana. Basti ricordare l’abbattimento delle statue dei sovrani (quella di Luigi XIV a place Vendôme, ribattezzata piazza delle Picche; quella di Luigi XV nell’omonima piazza ribattezzata piazza della Rivoluzione, l’odierna place de la Concorde), la distruzione dell’ampolla dell’olio sacro di Reims, la sostituzione dei nomi delle città ribelli (Lione che diventa Ville-affranchie, Tolone Port-la-Montagne).

Secondo: dal punto di vista della ricerca storica – quel che qui ci interessa – la cancel culture può e deve assumere una forma costruttiva anziché distruttiva, vale a dire che, piuttosto di cancellare la memoria (ciò che per uno storico equivarrebbe a violare il giuramento d’Ippocrate per un medico), si occupa di recuperare una memoria cancellata. È la differenza che passa tra il rancore dei neoborbonici che vogliono abbattere le statue di Garibaldi nel Sud Italia e la moderna riflessione storiografica sul meridionalismo. Nel caso francese è la differenza che passa tra la polemica dello scorso anno sull’opportunità o meno di celebrare il bicentenario della morte di Napoleone – considerata da molti inopportuna in quanto Napoleone restaurò lo schiavismo nelle colonie (cfr. Daut, 2021) – e la rinnovata attenzione delle storiche e degli storici sul tema dello schiavismo e del razzismo nell’età rivoluzionaria e napoleonica, passato sottotraccia per quasi due secoli (di cui un esempio recente è la nuova storia della Rivoluzione francese proposta in Un nuovo mondo inizia dall’americano Jeremy D. Popkin, già autore di Haiti. Storia di una rivoluzione).

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doppiozero

Fedeli al sogno

di Fabrizio Bondi

9788833937182 92 1000 0 75Che c’entra il sogno con la filosofia, verrebbe da chiedersi, imbattendosi in libreria nel volumetto di Umberto Curi intitolato Fedeli al sogno. La sostanza onirica da Omero a Derrida (Bollati Boringhieri, 2021)?

La filosofia moderna non si apre forse con l’età dei Lumi, con l’Aufklarung kantiana, che hanno spazzato via la prigionia delle menti e dei corpi, le superstizioni e l’oppressione, insomma tutti quei mostri del passato che, per il Goya dei Caprichos, sarebbero generati dal sueño della Razòn? (in spagnolo, come nel latino somnium, la parola significa sia ‘sonno’ che ‘sogno’). Gufi occhiuti, pipistrelli, demoni grotteschi verrebbero viceversa fatti fuori da un solo raggio di quella formidabile luce che tutti fa risvegliare...

Del resto anche nel più celebre dei miti di Platone lo ‘scopo del gioco’ è uscire dalla Caverna, emanciparsi da quella sorta di eterna avvolgente proiezione cinematografico-onirica nella quale i cavernicoli sono immersi. Tale risveglio è, per Platone, l’inizio del pensiero. Eppure, potrebbero già obiettare i lettori più o meno freschi di ricordi liceali (e magari i liceali stessi) non è proprio Platone quello che non riuscì a fare a meno dei mithoi, a dispetto della sua potentissima dialettica socratica, della sua ‘arma letale’ rivolta contro le credenze dei più?

I miti, dal canto loro, sembrano spesso seguire la logica del sogno, cioè ambientarsi in una realtà in cui tale logica è legge, in cui possiamo vedere un corpo umano diventare albero o animale, parlare cogli dèi ma anche essere da loro perseguitati, per ragioni al contempo cogenti e indecifrabili: un mondo insomma in cui i livelli della realtà, l’umano il divino il naturale, sono stranamente rimescolati.

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jacobin

Ritorno a Reims

di Alberto Prunetti*

Recensendo «Retour à Reims (Fragments)» Alberto Prunetti avverte il rischio che le storie working class vengano neutralizzate. Eppure queste biografie operaie aiutano a liberarsi dalle zavorre che ci portiamo dietro

working class jacobin italia 1536x560Da un po’ di giorni ricevevo inviti a guardare il documentario francese Retour à Reims (Fragments) di Jean-Gabriel Périot. E sempre mi sottraevo. Ho un rapporto complesso, di attrazione e distanziamento, con l’opera di Didier Eribon a cui il documentario si ispira esplicitamente. Quando la lessi la prima volta mi ritrovai risucchiato in quelle pagine, assediato da flashback della mia infanzia. Quello che mi allontanava però dal memoir di Eribon era la mia traiettoria personale: per me gli studi non erano stati un elemento di mobilità sociale. Dopo la laurea non avevo fatto alcun dottorato, non ero entrato nel mondo della classe media intellettuale ma ero andato a lavorare in pizzerie e ristoranti per dieci anni. Avevo anche pulito merda di cavalli in resort di lusso in Italia. Non ero insomma un transfuga di classe e la classe media si guardava bene dall’accogliermi tra le sue braccia. Anzi, mi sfruttava alacremente.

Certo, me n’ero andato dalla mia città natale, con il suo altoforno che languiva e gli alti tassi di disoccupazione. Ma ero rimasto nella classe lavoratrice, saltando dalla padella alla brace, finendo a pulire cessi a Bristol, senza prendere nessun ascensore sociale. E quando ho provato a raccontare le mie disavventure working class in Gran Bretagna, un giornale conservatore, il Daily Mail, mi ha descritto come un «very sweary, grizzled old Italian Lefty», ossia un «volgare sinistrorso attempato», con il sottinteso che gente come me non dovrebbe scrivere libri ma stare al suo posto, a condire pizze con l’ananas e il prosciutto cotto.

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comuneinfo

Guarda in alto, non solo la cometa

di Massimo De Angelis

d88ed56Don’t look up è un film interessante per diversi motivi. Il principale, secondo Massimo De Angelis, ha a che fare con il possibile destino dei nostri sforzi di cambiare il mondo e di comunicare l’urgenza di questo cambiamento, ma anche di fare di questa comunicazione uno strumento di azione comune e collettiva. Non basta cominciare a guardare in alto per vedere la cometa in picchiata sulla Terra (il cambiamento climatico più della pandemia), c’è da riconoscere e sovvertire in basso l’ordine gerarchico della società nella quale il profitto viene prima di tutto.

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Il film Don’t look up è come uno specchio che riflette la coscienza del mondo, uno specchio che ci mostra attraverso quali meccanismi perversi sia possibile che la potenza collettiva accumulata in trecento anni di sviluppo economico si trasformi in impotenza collettiva nella salvaguardia della riproduzione sociale a fronte di una grave minaccia. E questo non per mancanza di conoscenza o tecnologia, ma semplicemente per il modo in cui il nostro mondo è organizzato.

Nel film, la questione della riproduzione sociale è posta dalla minaccia di una cometa gigantesca destinata a colpire la terra, con conseguenze catastrofiche per tutta la vita sul pianeta. Non credo siano concepibili emergenze più gravi della minaccia imminente dell’estinzione di massa (lontana poco più di sei mesi), e sebbene nelle intenzioni del regista il film voglia evocare altre reali minacce alla riproduzione sociale, a cominciare dal cambio climatico, quest’ultima non si presenta ai nostri occhi con lo stesso grado e intensità di catastrofismo di una gigantesca cometa che colpisce il nostro pianeta.

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carmilla

La lunga notte del capitale

Leopardi, la natura e il senso ultimo della lotta di classe

di Sandro Moiso

L’intervento seguente è dedicato a Emilio Scalzo, militante No Tav, e al coraggio e alla dignità con cui affronta una persecuzione poliziesca e giudiziaria che da sola basterebbe a dimostrare l’illusorietà di ogni promessa di giustizia e rispetto dei diritti in una società il cui ordinamento è rivolto soltanto all’accumulazione del capitale

capitalism is not workingPer chiudere l’anno con una serie di considerazioni che possano servire ad inquadrare fatti recenti e pensieri lontani nel tormentato cammino della lotta contro l’attuale modo di produzione, occorre tornare ad uno scrittore ancora troppo poco compreso, sia dal dal punto di vista filosofico che politico, nonostante il suo nome sia pur sempre considerato di grande rilevanza culturale: Giacomo Leopardi.

Un autore “classico” che, nonostante lo sforzo di aggiornamento fatto con il bel film del 2014 di Mario Martone e interpretato da Elio Germano, Il giovane meraviglioso, viene ancora troppo spesso definito semplicemente pessimista piuttosto che, come sarebbe più corretto, materialista.

Ma se qualcuno chiede cosa può ancora insegnarci, oggi, lo scrittore-filosofo di Recanati, la prima cosa che occorre sottolineare è l’atteggiamento che lo scrittore assunse nei confronti della Natura “matrigna”.

Stiamo attenti: matrigna e non nemica, una differenza non di poco conto, poiché nel primo caso si tratta di una madre acquisita che deve distrattamente occuparsi di creature non volute né, tanto meno, volutamente cercate; mentre nel secondo caso opererebbe per colpire volontariamente l’uomo, danneggiarlo, farlo soffrire di proposito e, soprattutto, con un cosciente e ben definito proposito.

Secondo Leopardi, se la Natura risulta nemica all’uomo questo è dovuto soltanto al carico di illusioni con cui l’Uomo interpreta la propria condizione esistenziale.

Ciò potrebbe sembrare un tema distante da quelli riguardanti la lotta di classe, eppure, eppure…