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alfabeta

Classico e anticlassico

Michele Emmer

scuola-manifestazione-scontri-20141009180149“La nostra tradizione scolastica ci lascia il modello prestigioso del liceo classico, un modello pedagogico che non teme confronti internazionali, tuttora insuperato (pur se bisognoso di alcuni adeguamenti)… Il vecchio liceo classico rappresenta tuttora il modello esemplare di tutti i possibili tipi di liceo proprio perché, come nessun altro corso di istruzione secondaria, è coerentemente incentrato su una particolare dimensione del sapere. Per aiutare gli allievi a diventare autonomi, a pensare, giudicare e operare con la testa propria, non c’è che una possibilità: farli arrivare a possedere quantomeno una chiave di lettura della realtà, ma a possederla sul serio (in quanto chiave culturale, non puramente didattica), in modo tale cioè da dominarla in tutte le sue possibilità e di essere in grado di usarla personalmente e non per delega. Un corso di istruzione liceale è tale nella misura in cui persegue una formazione piena, sufficientemente approfondita e criticamente fondata, attiva e non puramente recettiva, in un ambito omogeneo di sapere. Molti classicisti ritengono che solo il sapere fondato sugli studi classici sia in grado di assicurare una formazione critica, non specialistica ma universale e umanistica, in forza della quale i giovani attingono quell’indipendenza intellettuale e morale che li rende soggetti autonomi e non ingranaggi standardizzati di una società alienante. Questa opinione è errata nella premessa da cui muove, e cioè che solo gli studi classici possono assicurare una formazione autonoma e critica.”

Parole, parole, parole… soltanto parole. Famosa canzone di Mina del 1972. Le parole citate invece sono del 1990. In quell’anno l’allora ministro della Pubblica Istruzione decise di formare un comitato scientifico di cui facevano parte tra gli altri Carlo Bertelli, Gerardo Bianco, Tullio Gregory, Bruno Gentili e Aldo Lo Schiavo, autore delle parole citate all’inizio. La premessa era che la vita delle persone si stava allungando, aumentavano la possibilità di apprendere, stavano esplodendo le nuove tecnologie. Insomma si riteneva ragionevole che la formazione e lo studio potessero espandersi, garantire al maggior numero di studenti una preparazione adeguata e soprattutto che venissero fornite maggiori possibilità a tutti. Una società in cui in tanti hanno accesso alla formazione, allo studio, alla cultura, sarebbe stata una società più giusta. Viene fondata una rivista che si chiama Licei, il modello utopico di cui si dibatteva nelle riunioni in cui si preparavano i numeri della rivista, spesso monografici, era di estendere le esperienze liceali, in particolare del liceo classico al maggior numero possibile di cittadini Italiani.

Una idozia di vecchi imbecilli da rottamare. Ogni tanto la discussione ritorna, e anche in questi giorni si parla della cancellazione o meno del liceo classico. Dello studio delle lingue morte, il greco ed il latino, la storia dell’arte, della musica, della storia e così via, diminuendo come è logico anche gli anni di studio. Perché a che cosa serve lo studio, a che serve saper comprendere delle frasi e delle idee dei filosofi greci e latini? A formarsi una coscienza critica e morale? E a che serve tutto questo nel mondo di oggi? Una grande diversità di questi nostri tempi così veloci ed effimeri è che è oramai nell’uso che tutti parlino di tutto, che bisogna diffidare di chiunque sappia qualcosa degli argomenti di cui si dibatte. E non poteva mancare un bel processo, articoli su riviste e quotidiani. Dobbiamo cancellare il liceo classico?

Qual è l’equazione che si vuol far passare? Un paese progredisce in base alle conoscenze scientifiche diffuse nella popolazione. Ci sono studi negli USA molto precisi che mostrano che una maggiore conoscenza della matematica comporta un maggiore stipendio. Quindi vi è bisogno di conoscere di più la matematica, la scienza in generale. Bisogna quindi tagliare le altre discipline, insistere su matematica e informatica e nuove tecnologie (in molti fanno una gran pasticcio di queste discipline come se si trattasse della stessa cosa) e avremo un esercito di giovani che sarà preparato per il mondo del lavoro. Per fare un lavoro part time in un call center. Ovviamente chi si rende conto che queste sono le prospettive (esagerando ovviamente) non avrà molta voglia di studiare il greco e il latino e la storia. Ma nemmeno la matematica e nemmeno l’Italiano. È impressionante sentire come le voci, le parole e le frasi di coloro che telefonano ai possibili clienti proponendo una qualsiasi offerta di acquisto, siano tutte eguali, persino nel tono oltre che nelle parole. Si capisce subito che stanno telefonando per una offerta di vendita di qualcosa.

Però come ha detto un noto intellettuale “Bisogna essere cool, dobbiamo fare i matematici”. Ora da oramai più di venti anni i matematici sono di moda al cinema, al teatro, sui libri. Qualcuno ha forse capito che in fondo fare il matematico è un mestiere divertente, si gira il mondo, ci si occupa di cose di grande importanza, non si sa bene quali, ma importanti. I modelli matematici sono ovunque. Nessuno sa o si ricorda che un matematico ha guadagnato miliardi vendendo i modelli matematici non sufficientemente testati che sono stati alla base dei primi crack finanziari qualche anno fa. Insomma è fico fare il matematico? Ma che fa un matematico? Come si forma un matematico? O allargando la domanda, come si fa a formare gente creativa, pensante, che pensi in grande, che abbia idee e le sappia utilizzare? Una delle caratteristiche che si dice abbiano i matematici è di riuscire ad affrontare problemi che nessuno ha mai affrontato prima. Non di utilizzare modelli, idee già pronte e da applicare. Ma di immaginare nuovi problemi, nuove tecniche, nuove strategie a cui nessuno ha mai pensato prima. Come si insegna a fare cose del genere? Ma si potrebbe rispondere: a noi di gente più o meno geniale ne servono poche, le altre basta che facciano delle cose che vengono decise per loro e meno problemi si pongono e meglio è, e se magari non sanno nemmeno esprimersi bene è ancora meglio. Critica, morale, parole sorpassate.

Come si forma un matematico creativo? E i matematici sanno che oggi non esiste più la divisione tra matematica applicata e pura, è tutta matematica. Risponde Jean Pierre Bourguignon, per anni direttore del prestigioso IHES di Parigi, da un anno presidente del European Research Council, l’organismo che presiede alla Ricerca scientifica in Europa. È un matematico, che ha organizzato nel 2012 una grande mostra su Matematica e arte contemporanea alla Espace Cartier a Parigi. Forse perchè era cool. “In Cina e negli altri paesi emergenti si è investito molto e si continua a investire sulla formazione di base. L’idea non è quella di preparare persone che devono sapere fare un mestiere o un lavoro, ma persone che penseranno e progetteranno il futuro, i nuovi lavori, le nuove tecnologie.” Studiando il passato, leggendo i classici, formandosi come persone. Certo chi non ha unèidea precisa non di che cosa fanno i matematici ma di come si forma una persona in grado di fare, comprendere, capire, pensare, progettare, risolvere, non può capire un comportamento del genere. Non può capire perché capire delle idee di Platone, leggendole nella lingua in cui sono state scritte, non è solo un modo di entrare un poco nel solco culturale della nostra Europa, cogliere una vaga idea delle basi della nostra civiltà (parola vecchia ed ammuffita), appassionarsi al teatro, alla filosofia, e alla matematica. Come si diventa matematici? Se andate a chiedere in giro tra i matematici scoprirete che molti hanno fatto studi classici e ne sono entusiasti, anche se magari non tutto funzionava nel loro Liceo. Che la costruzione delle frasi e del senso in greco e latino aiuta in modo essenziale a capire che cosa sia la logica, a che cosa voglia dire esprimere un’idea, a che cosa voglia dire una dimostrazione e darne le prove. Una grande esperienza anche etica e morale (altre parole ammuffite)

E si scoprirebbe che i matematici, alcuni ovviamente, hanno vinto il premio letterario Viareggio (il premio più prestigioso non solo per la saggistica) e tutti hanno studiato al liceo classico. Che aver imparato qualche derivata e integrale al liceo non serve per fare il matematico. Avere idee, non solo in matematica, è la ricetta utopica della conoscenza. E certo non è automatico che insegnare la lingua, insegnare le lingue e le civiltà che ci hanno preceduto, la storia, la filosofia daranno dei risultati a breve termine, magari non ne daranno affatto. Perché anche la società ha le sue colpe, anche la politica. Se i ragazzi perdono la convinzione del nesso tra cultura, politica, società perché non riescono a trovare lavoro, o trovano un lavoro assurdo e umiliante, non avranno stimoli. La politica non deve creare sogni e utopie (non sempre), ma non deve soprattutto togliere dai pensieri utopie e sogni. È un’eresia dire che la scuola deve essere (solo) funzionale al mondo del lavoro. Per progettare il futuro, per far uscire i paesi dalla crisi economica, per progredire, servono la cultura, la conoscenza, la fatica intellettuale. Così (forse, ma è sempre successo in Italia nei secoli passati) si investe sul futuro, si danno prospettive, e si avrà come effetto, per nulla secondario, un paese più colto, più attento, più morale, più creativo, più contento. È un’utopia, destinata a restare tale ma che nasce anche leggendo Platone in greco. E magari si finisce a fare il matematico che è così cool.

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