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lostraniero

Traverso e gli intellettuali

di Piergiorgio Giacchè

mussolini hitler1“Enzo Traverso è uno storico italiano, da anni attivo in Francia”, ci dice la voce di Wikipedia, il dizionario-oracolo dei nostri tempi e mondi. Poi aggiunge che è stato in Germania e infine che da due anni insegna anche in America, a Ithaca… paradossale approdo di un forse definitivo “non ritorno”. Se Traverso fosse un chimico o un fisico o al limite un medico si parlerebbe di “fuga dei cervelli”, ma questa dizione non si applica agli studiosi di storia e di scienze politiche e sociali: certo per sventurata sottovalutazione di chi studia con profitto scienze senza profitto, ma anche per la fortunata licenza di fuggire e viaggiare che è concessa ai ricercatori di scienze umane, sempre visti come privilegiati perdigiorno, insomma come “intellettuali”. Eppure da qualche intellettuale come Enzo Traverso arrivano ancora di tanto in tanto preziose “rimesse degli emigranti”, di quelle che una volta nutrivano regioni intere e che invece oggi alimentano piccole case editrici dai nomi che tradiscono tutta la minorità delle minoranze attive. “Ombre corte” si chiama la casa editrice di un breve libro che ha per titolo Che fine hanno fatto gli intellettuali?, un saggio di Enzo Traverso intervistato da Régis Meyran che ha il doppio torto o il doppio pregio di essere il commento di un intellettuale al tema della sua stessa fine. Non sarà certo un best-seller né lo può diventare dopo questa segnalazione su una rivista come “Lo straniero”, ma non ne parliamo per solidarietà con i minori o con i migranti, ma perché colpiti dall’offerta di un ”libretto-specchietto” dove per una volta noi intellettuali – lettori o scrittori che si sia – non ci si sente narcisi. E finalmente e fatalmente ci si riflette.

Che fine hanno fatto gli intellettuali? è una domanda che “in coscienza” non si pone più nessuno di “loro”, divisi come sono fra quei tanti che non vedevano l’ora di passare in ogni senso “a miglior vita”, e quei pochi che resistono alle tentazioni e alle televisioni ma sanno di essere comunque finiti. E pace all’anima loro ma anche all’intero corpo nostro. Già perché intanto intellettuali siamo diventati tutti, dopo la scolarizzazione di massa e l’industria culturale e il supermercato dei mass media e finalmente la rete in tasca e la testa nella rete. Tutti informati e informatizzati, siamo immersi in un sapere diffuso e confuso che ci appartiene anche senza il dovere di apprendere nulla, e però con il diritto di trasmettere tutto. Viviamo in una frittata dove non c’è più una testa d’uovo che non si sia rotta, diluendosi in una cultura di massa che forse è il suo contrario: una massa tumorale di culturame a disposizione del consumatore che, liberato per sempre dai suoi pensieri, scorrazza nel liberalizzato mercato delle altrui opinioni…

Sto esagerando, ma infine “non ci si può non dire tutti intellettuali” se è vero che la democrazia culturale è l’unica che si sia realizzata, uguagliando tutti nei sapori (gusti) che hanno sostituito i saperi (giusti), nelle espressioni che si sono sostituite alle riflessioni, nelle chiacchiere che hanno surrogato le critiche… Siamo tutti in diritto di dire fare baciare lettera e testamento senza vergogna e non più per penitenza, esibendo un parere qualunque e sputando un giudizio comunque; ma quel che è peggio abbiamo tutti il dovere di educare i figli, di eleggere i politici, di interloquire con gli opinionisti che stanno al nostro servizio e soprintendono al nostro sondaggio.

L’Italia è all’avanguardia nella generalizzata estensione e liquefazione della figura dell’intellettuale, che peraltro da noi non ha mai fatto gola né modello. Da noi la saccenza di base e la prepotenza di vertice hanno dato sempre poco lustro ai ruoli della mediazione intellettuale, storicamente affidata prima al piccolo clero poi al basso ceto insegnante e infine all’alta marea del giornalismo locale. Certo il teatro dell’Università e lo spettacolo della Televisione hanno ancora le maiuscole, ma fin troppo rapidamente si sono riempiti di ominicchi e donnette e quaquaraquà nei confronti dei quali gli italiani mostrano superficiale ammirazione e sottinteso disprezzo. Prima ancora di chiedersi dove e come sono finiti, da noi ci si dovrebbe porre la questione del “chi sono gli intellettuali”; e allora un coro vasto come un popolo darebbe numeri e nomi alla rinfusa, menzionando filosofi che hanno fatto i sindaci e scrittrici diventate assessori, con in più la memoria ma non la nostalgia di qualche artista di valore e di qualche scrittore d’antologia scolastica.

In Francia non è la stessa cosa, anche se – sia pure con ritardo – si scende la stessa china. E però il “ritardo” francese non è solo un vizio di supponenza ma anche una prova di resistenza: “la Francia è un’eccezione!” e se lo dice ancora, sia pure fuori tempo massimo. In Francia, degli intellettuali si possono non solo ricomporre i resti ma perfino raccontarne la nascita, nell’epoca e nell’occasione del caso Dreyfus. In Francia, gli intellectuels da più di un secolo si battezzano come categoria e si cresimano come una classe sacerdotale; possono vantare una lunga genealogia, con rami nobili divisi per diverse ideologie e diverse fisionomie che alla fine (come fin dall’inizio) appartengono allo stesso “mondo”. Ma quel che più conta è che dalla Francia ci si può sporgere verso e dentro l’intero Mondo, poiché la sua grandeur non è solo presunzione ma anche una posizione dalla quale è da sempre possibile e necessario allargare lo sguardo e allenare il confronto: con la Germania e l’Europa e poi l’America e oggi il nuovo Oriente medio e l’infimo Sud postcoloniale...

C’è dunque un motivo e un guadagno per un Enzo Traverso che voglia raccontare la storia e la scienza della “questione intellettuale”: il vero motivo e guadagno di molti cervelli italiani in fuga, che prima di un posto di lavoro cercano un punto di osservazione migliore, un punto di fuga che sia effetto e causa di una più ampia prospettiva.  Non credo che restando in Italia ci sarebbe riuscito, o soltanto ci avrebbe pensato. Ecco perché il suo libro è il concreto regalo di un emigrante: un utensile adatto per riaprire le porte e le pagine di una riflessione sulla figura e il senso dell’intellettuale, in tempi in cui – qui da noi, ma anche in Francia e nel Mondo intero – si è perso lo stampo ed è giusto chiedersi “dove è andato a finire”.

Così, Enzo Traverso sollecitato e messo in ordine dalle domande di Meyran ci offre un riepilogo storico e un dibattito politico e un quadro filosofico su una figura poliforme e una funzione polivalente, inseguendo e commentando intellettuali di primo piano e di grande spessore, ma producendo analisi e suggerimenti validi per tutta l’ampia base degli operatori di un lavoro culturale diffuso e disperso. Consapevole delle trasformazioni e accelerazioni di tutto un secolo, nonché delle attuali macerie culturali dell’ultima mutazione, il merito di questo rigoroso attraversamento sta nell’individuazione di un filo e di un segno “critico”, che è la vera qualità che si può distillare rileggendo il passato ma anche l’unica che vale la pena riproporre nel futuro. In sintesi, la figura di un “intellettuale critico” che, pur nelle limitazioni obbligatorie dello specialismo, non perda di vista l’ormai impossibile – ma non impensabile – universalismo dei sapienti del passato. Una scelta morale, anzi quella coincidenza fra Etica e Critica che è insieme l’anima e l’habitus di un intellettuale “che interroga il potere, contesta il discorso dominante, provoca la discordia, introduce un punto di vista critico… non solo nelle sue opere ma anche nello spazio pubblico” – dice Traverso nelle prime pagine del suo libro. E ricorda come questo “spazio” sia stato creato per gli intellettuali dei secoli scorsi come un opportuno interregno, poi progressivamente ridotto e definitivamente sottratto alla loro sfera d’azione… e d’abitazione.

All’opposto dell’intellettuale critico, l’emersione e la fortuna della categoria dell’esperto al servizio del potere e dei suoi utenti-sudditi è stata ed è ancora la tentazione ma anche la dissoluzione di una militanza intellettuale “organica” che ai partiti non serve più: “non hanno bisogno né di militanti né di intellettuali ma di manager della comunicazione”, dice Traverso, ed è appunto la comunicazione la dittatura che ha archiviato ogni altro ruolo e modo di interlocuzione e di mediazione intellettuale, e perfino il compito dell’educazione.

Non serve però dar conto di un contenuto che è molto più articolato e problematico, e che il libro sa affrontare e organizzare in “sintesi” così perfetta da non potersi ulteriormente ridurre senza commettere reato. Il breve saggio di Traverso peraltro, va apprezzato e goduto più nel metodo che nel merito: prima ancora del contenuto è la sua stessa forma che rende questo libro uno specchio, ossia un perfetto manuale di riflessione. è un saggio in forma di intervista, ma il gioco delle domande non è fatto per accumulare risposte ma per aprire a grappolo altre domande e ragionamenti che invogliano il lettore a sentirsi in diritto di “riflettersi dentro” e riscoprire il dovere di “pensarci su”. Enzo Traverso non si vende come esperto, ma spende tutta la sua competenza per aprire una discussione che non si ferma mai al giudizio ma che conferma sempre la sua scelta, in ogni senso e in ogni accezione “critica”. Passando in rassegna il ventaglio delle tipologie e il travaglio delle storie in cui la figura dell’intellettuale si immette e si compromette – esperto o sapiente, servo del principe o filosofo padrone, tradizionale od organico, impegnato o disilluso… – il tema sommerso della cultura e dell’operatività critica forse non trionfa mai, ma è quello che galleggia come ultimo fine, anche oltre la fine.

“Che fine hanno fatto gli intellettuali” diventa così, per scherzo di pensiero più che per gioco di parole, un “dove” e un “come” si può ancora trovare senso, dopo la perdita di ogni funzione: “il mondo non può vivere senza utopie e ne inventerà di nuove”, dice Traverso in un ultimo capitolo dedicato alle “alternative di domani”. Allargando e acuendo lo sguardo, si scopre che non sono pochi, anche se piccoli e invisibili, gli intellettuali critici efficaci che sfuggono alla rapida istituzionalizzazione o alla facile digestione del sistema del potere. La fine dell’intellettuale non cancella dunque il fine della critica, anche quando l’assedio del mercato e il soffocamento dei media e l’edulcorato umanitarismo e il radicale neoliberismo diventano condizioni globali, tanto immorali quanto inevitabili. Ma non si tratta di fare o di pensare la rivoluzione a tutti i costi: costi che non ci si augura di far pagare più a nessuno. Al fondo o meglio al fondamento della cultura occidentale (in senso pieno e in senso buono, se c’è rimasto ancora del buono) c’è stata e c’è ancora la cultura critica, che è quanto di meglio abbiamo fin qui prodotto e quanto di meglio potremmo ancora esportare nel “resto del mondo”.

Mi ricordo di aver letto su “Libération”, nella folla e nella foga del dibattito quasi tutto francese dopo la strage di “Charlie Hebdo”, l’articolo di un “intellettuale” dal cognome arabo che spiegava a se stesso e ai lettori il perché della diffusione dell’Islam fra i giovani non solo di origine araba e non solo di tendenza estrema. Questa “fortuna” la si deve, a suo avviso, alla complessa griglia di disposizioni coraniche che regolano la vita quotidiana e sociale e danno sicurezza alla persona prima ancora che nuova identità: molti dettagliati e ritmati comandamenti che mettono ordine nelle idee e nei comportamenti, in una fase in cui le norme occidentali sono complesse e contraddittorie e davvero non possono vincere la concorrenza. Se si vuole riaprire una sfida conveniente – concludeva l’articolo – occorre riscoprire l’essenziale differenza dell’Occidente, ovvero la cultura critica verso e dentro la quale tornare a educare i nuovi giovani del nostro vecchio mondo.

E' l’incessante atto riflessivo quello che nel bene e perfino nel male ci distingue: una speculazione avida e una discussione aperta che ha funzionato come straordinaria aspirazione e talvolta ordinaria respirazione nel corso della storia culturale occidentale. è una proposta difficile da resuscitare e che non si può certo imporre a nessuno, ma che in coscienza e in cultura non ha vere e valide alternative.
Di questi tempi e ancora di più per i tempi futuri – se mai ci saranno – meglio sperare nell’atto di riflessione che arrendersi all’atto di dolore.

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