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poliscritture

Prefazione a “Come ci siamo allontanati

di Ennio Abate

FORTINI COME CI SIAMO ALLOTANTATI0002«Ricordiamo che Croce, per esempio, la struttura teologica della Divina Commedia la considerava non poetica, pressoché inutile al suo senso poetico. Noi sappiamo assolutamente che non è così; questo non significa che noi dobbiamo necessariamente condividere fino in fondo il pensiero cattolico dell’Alighieri. Un celebre studioso americano, Singleton diceva: "il lettore non dimentichi mai che il poeta Dante Alighieri è un poeta cattolico", ed effettivamente l’aspetto in questo caso teologico, di verità teologica, come anche le affermazioni di verità materialistiche in Leopardi, non sono elementi soltanto accessori, sono elementi integranti e integrali della poesia». (Franco Fortini Che cos'è la poesia? Intervista a RAI Educational dell'8 maggio 1993)  

«Che cosa sia poi quell’uomo, quell’essere umano di cui parlate, quando a quello sia tolta la dimensione dell’azione comune per la solidarietà, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza, io non riesco davvero a immaginarmelo. Che cosa è un uomo ridotto alla mera dimensione della interiorità morale? Ho dalla mia, per non nominare i massimi cristiani, Marx, Nietzsche, Freud e Sartre. Essi mi rassicurano: deve trattarsi di una canaglia. O di una vittima». ( F. Fortini, Non è solo a voi che sto parlando, in Disobbedienze II, pag. 38, manifesto libri, Roma 1996)

Se confrontassimo le iniziative per ricordare Fortini in occasione del ventennale della sua morte con le precedenti,[1] noteremmo tre fatti significativi: il ridimensionamento della pattuglia di studiosi e amici  della vecchia guardia, essendo mancati Cesare Cases, Giovanni Raboni, Michele Ranchetti, Edoarda Masi e Tito Perlini;  il silenzio nel ventennale di diverse voci, spesso  tra le più autorevoli e qualificate, che lo commemorarono a Siena nel decennale;  e  l’affacciarsi presso studiosi giovani o meno anziani di  due immagini  di Fortini  più mosse rispetto alle precedenti e consolidate: quella di un Fortini fuori tempo (e fuori  dal Novecento) o, si potrebbe dire, di un Fortini oltre Fortini (come si parlò in passato di un Marx oltre Marx);  e  quella di un giovane Fortini,  staccato se non amputato dal Fortini maturo o ideologo.[2]

Luca Lenzini, indispensabile riferimento per il compito prezioso svolto nel Centro F. F. di Siena e curatore dell’Oscar Mondadori Franco Fortini, Tutte le poesie, ha tratteggiato questo Fortini fuori tempo in una intervista che faceva il bilancio delle presentazioni in varie città di  questa pubblicazione.[3]  Fortini vi appare come «ospite ingrato»  a tutto tondo (per il suo «rigorismo “protestante”, la «sobrietà del suo stile di vita»,  il suo «tratto utopico» e «sapienziale»), «sempre in cammino (on the road)»,  solitario, in perenne esilio e «poeta per eccellenza senza momento, per natura “fuori tempo”», soprattutto «ora che il fragore del Novecento si va spegnendo e si allontana definitivamente» e  «il suo stesso comunismo fa emergere i lineamenti biblici che lo sorreggono». Si impone, dunque, a suo parere, un ripensamento della sua opera  «dentro un altro tempo, un tempo lungo», «oltre il presente», dato che l’opera fortiniana, in particolare quella in versi, «supera anche gli stessi codici, significati e sistemi di allusioni implicite ed esplicite che lui stesso, Fortini, attribuiva alle poesie». E per Lenzini gli stessi saggi critici, pur così orientati al «versante sociale»,   varrebbero sempre più per «le indicazioni di “poetica”»,  quasi «“istruzioni per l’uso” dei versi» e per l’allusione a «qualcosa che, decisivamente, sta prima e dopo la letteratura, “una volta per sempre”, come per un patto esigente, assoluto, che informa lo stesso linguaggio».

Il giovane Fortini è proposto, invece, da Luca Daino. Il suo saggio si distingue dagli altri presentati alla Libreria di Via Tadino a Milano innanzitutto per un «prologo-bilancio» (sempre del dibattito avvenuto nel ventennale), che al verso incipitario di A Vittorio Sereni: Come ci siamo allontanati, entrato nel titolo dell’iniziativa milanese,  contrappone un provocatorio e paradossale: «da Fortini non “ci siamo allontanati” nemmeno di un passo».  Le vecchie interpretazioni  «della tradizione e del “buon senso” marxista», interessate al Fortini intellettuale militante e saggista politico (che mai dimenticavano però – va ricordato –  il poeta), sono accantonate  e sostituite da una lettura attenta soprattutto  «al poeta, al traduttore e al critico letterario, di ambito sia editoriale sia accademico». Nella seconda  parte del saggio Daino  mette in risalto «un Fortini vivo, in perfetta forma e, nei suoi libri, modello di umanità». Lo fa esplorando il «laborioso apprendistato prebellico e fiorentino di Lattes – a prima vista incongruo, per non dire anacronistico e superfluo, in rapporto al Fortini maggiore, e così a lungo sminuito perfino dal diretto interessato». E dall’accurata indagine sulla sua «forma mentis latamente “religiosa”», le influenze di Michelstaedter, di Kierkegaard e di Barth,  balza fuori quasi un Ur-Fortini, che  – in rischiosa consonanza  con lo “spirito del tempo” oggi prevalente –  a me pare eclissare fin troppo il  Fortini maturo. Tanto più che la «conversione al cristianesimo valdese, sancita con il battesimo nel 1939» viene presentata come «conseguenza di una vera e propria crisi spirituale, per certi versi durata un’intera vita»[4] e quindi – se ne potrebbe dedurre – come dato indelebile e immodificato.

Vediamo ora quali altri aspetti della prismatica figura dello scrittore sono stati trattati negli altri saggi di questo nostro libro.

In una logica endoletteraria che si tiene a debita distanza dalle problematiche ideologico-storico-politiche della vecchia critica su Fortini, quello di Elisa Gambaro   è attratto dal manierismo della poesia fortiniana  (l’«abito cerimoniale, la cifra ipercolta e ipercontrollata»), dal suo  «rifiuto della religione delle lettere egemone nell’intellettualità fiorentina degli anni trenta» e dal «costitutivo e testardo dialogismo» della sua poesia.  Gambaro sfiora il tema della religiosità di questa poesia (le sue «armoniche religiose»), ma non cede al richiamo. Anzi, vede una barriera ai «rischi di misticismo e sacralizzazione della parola poetica» proprio nel marxismo, in Fortini sempre ben piantato  sulla «dialettica tra  destini generali e singola vicenda umana».

 Pure Alessandro La Monica si concentra sul giovane Fortini con una puntualissima analisi della sua prima raccolta poetica, Foglio di via (1946). Dopo averne ricordato la sorgente nel rifiuto sia della poetica ermetica che dell’ antifascismo “mentale” a cui si condannarono, invece, molti intellettuali coetanei di Fortini, La Monica esamina i richiami  lessicali non marginali al Montale degli Ossi di seppia  e  dimostra l’influenza decisiva della Commedia di Dante. Firenze, ad esempio, la «città nemica» per Fortini, è «trasfigurata da città terrena ad allegoria di una condizione infernale»; e persino l’ambientazione collinare di Foglio di via – egli nota –  non è soltanto «lo sfondo dell’azione partigiana», ma rimanda «al giardino edenico rappresentato nella seconda cantica della Commedia». La Monica – in questo in sintonia con Lenzini e Daino – insiste sulla «temporalità astorica» e sulla «fede in un Dio vicino, incarnato, presente nell’agire storico» come tratti essenziali di Foglio di via. Istanze religiose e marxismo (in questa  raccolta, però, ancora embrionale) cominciano quella contraddittoria coesistenza, che ha poi reso originale e tanto controversa la figura di Fortini nel panorama della cultura italiana.

 La zona di confine tra interiorità (o se si vuole religiosità) e storia/realtà è esplorata da Emanuele Zinato. Egli fa tesoro delle nozioni di inconscio elaborate da Althusser, Bourdieu e Jameson – sullo sfondo s’intravvedono anche Francesco Orlando e Michel David – e scova in Fortini, tenacemente restio all’autobiografismo,  «numerose schegge autobiografiche». Le quali non sono soltanto  rivelatrici  della «storia dell’io e delle scissioni private» della personalità di Fortini ma, come Zinato sottolinea, hanno notevole importanza per la sua scrittura, poiché lo stesso saggismo critico fortiniano «si nutre, per così dire, delle ceneri dell’autobiografia». Ed è ne I cani del Sinai,  opera in tal senso fondamentale, nata a ridosso della guerra arabo-israeliana del 1967, che Fortini, mescolando pamphlet e autobiografia,  riesce a parlare delle proprie radici ebraiche e a dichiarare un sentimento di vergogna verso suo padre: «per il suo tremore, per la sua mancanza di compostezza e di calma», per la sua «oscillazione piccolo borghese fra opposizione democratica al fascismo e sottomissione o collaborazione opportunista e inutile».

 Ezio Partesana, sfiorando dal versante filosofico il complesso rapporto tra Fortini e Adorno, ne stralcia il tema  dell’industria culturale; e riesplora il drastico mutamento del concetto di cultura dopo l’avvento della produzione capitalistica – in serie e in vista del profitto – di «merci culturali» (libri, cinema,video, musica) che ha azzerato ogni discorso sul mandato morale degli intellettuali, ben vivo durante il Risorgimento e ancora vivace nella Sinistra del secondo dopoguerra.  Ragionando poi sugli attuali rapporti di produzione (soprattutto nelle grandi case editrici o nel settore della  traduzione), Partesana denuncia sia il continuo rischio della disoccupazione, cui vanno incontro i lavoratori della conoscenza, che il conformismo ad essi imposto da norme padronali miranti, appunto, a produrre esclusivamente libri-merci facilmente vendibili. Infine sottolinea come Fortini, a differenza di Adorno, il quale s’era convinto della mercificazione piena e irrimediabile della cultura, l’avversò sempre, suggerendo di diventare «astuti come colombe» per resistervi  e «limitare l’effetto di demoralizzazione contenuto in queste merci».

Filippo Grendene, invece, inquadra  l’opera saggistica di Fortini nella storia di un genere secolare che ha visto la fioritura di  autori – Montaigne,  gli illuministi, Auerbach, Lukács, Adorno  –  tutti in vari modi ereditati dallo scrittore fiorentino; e  ne segue la parabola, che va dai saggi politico-ideologici (Dieci inverni,  Verifica dei poteri, Questioni di frontiera) a quelli sempre più  figurali e allusivi degli anni ’80- ’90 del Novecento, quando con la repressione dei movimenti di rivolta e l’azzeramento di una certa dimensione pubblica, Fortini vira  –  dice Grendene – «al letterario proprio per conservare una chance d’incisività e presa sul reale». E, per questa seconda fase, porta l’esempio di Extrema ratio, l’ultima raccolta, più varia e volatile nei temi e, a suo parere, con un notevole tasso di cripticità sia nei modi della scrittura che nella logica del ragionamento.

 Carosso  parla del legame  tra Fortini e le avanguardie del Novecento, e in particolare con il Surrealismo.  Del quale, nonostante la  sua formazione classica, condivise in un primo tempo, sia pur in modo ambivalente, [5] il desiderio di trasformare non solo l’arte ma la condizione umana e politica.  Quando però in Italia il Gruppo 63 tentò di collegarsi al movimento studentesco del ’68, esaltando delle avanguardie del primo Novecento soprattutto gli aspetti di negazione anarchica e di rifiuto di ogni mediazione, Fortini  giudicò  quel tentativo  «un mero e semplice assestamento dell’arte all’epoca della tecnica».  Finì perciò per  contrastarlo, consapevole più di altri che l’industria culturale  neutralizzava ogni carica anticapitalista del surrealismo e lo faceva diventare «di massa»  solo attraverso innovazioni nei costumi politicamente innocue (musica pop e rock, look, moda, ecc.).

Il mio saggio, infine, rilegge gli  articoli di Fortini apparsi su il manifesto e segue il suo pensiero (di critico, di poeta e di militante) nel mentre, in anni difficili e persino tragici, si piega sulla contraddittoria mondanità  e materialità degli eventi e delle lotte sociali di fine Novecento per decifrarli e reagirvi politicamente.  Qui mi limito a dire che ho ripreso  il Fortini forse oggi dato per “morto”: quello storico, politico e – tratto mai trascurabile e separabile dagli altri e che nulla a che fare con le nostalgie o i dogmatismi degli anni Settanta –  comunista critico.

In chiusura.  Non resta che esprimere gratitudine nei confronti di quanti hanno voluto ricordare Franco Fortini a vent’anni dalla morte e riflettere sulla sua opera, ma mi pare onesto accennare anche al dilemma che è serpeggiato ai margini degli incontri ufficiali: la sua figura sta per essere collocata – ed è giusto che ciò avvenga – ««dentro un altro tempo, un tempo lungo», e, dunque, «oltre il presente, che è quello che è» (Lenzini)? Oppure  a Fortini sta per toccare  la sorte del partigiano Lisiàt e dobbiamo prendere atto pure noi che «la stanchezza e le distrazioni, le urgenze e le negligenze  ci fanno avvertiti che non possiamo più portare da soli, e nemmeno in gruppo, un nome e una memoria», come  leggiamo a pag. 50 in Questioni di frontiera? Evitiamo ottimismi e pessimismi di maniera. Lasciamo aperta la questione. E ogni lettore, sfogliando queste pagine, trovi la sua risposta.


Note
[1] Si vedano almeno: AA.VV., “Uomini usciti di pianto in ragione”, LUMHI e manifesto libri, Roma 1996; dieci inverni senza Fortini. 1994-2004, Quodlibet, Macerata 2006; AA.VV., “Se tu vorrai sapere…”. Cinque lezioni su Franco Fortini, Edizioni Punto Rosso, Milano 2004.
[2] Si veda, ad es.,  Romano Luperini, La lotta mentale, Editori Riuniti, Roma 1986.
[3] Cfr.  http://www.poliscritture.it/2015/06/15/fortini-on-the-road/.
[4]  A conferma di tale (indubbia) religiosità Daino analizza un racconto del 1937, Spiaggia di settembre,  dove il narratore protagonista, turbato dall’ incontro con l’amata, rifiuta asceticamente ogni rapporto con lei.
[5] Questo rapporto di attrazione e repulsione  nei confronti del surrealismo è documentato da  La poesia delle rose, raccolta in Una volta per sempre nel 1963.

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