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Dodici piccoli indiani (d'America)

di Marcello Benfante

maxresdefault​“Pour épater les bourgeois era il motto
insolente dell’avanguardia del XIX
secolo, ma ormai la borghesia s’è scoperta
la passione d’essere sconvolta”

(Dwight Macdonald, Masscult & Midcult)

Il vaso di Pandora   

Mi è capitato di fare qualche piccola ed estemporanea considerazione sull’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan.

La sensazione che ho provato nell’apprendere questa sorprendente notizia è stata in un primo tempo una sorta di euforia, di felice stupore. Poi all’improvviso sono stato assalito da una vaga tristezza, da un’ombrosa inquietudine.

Come mai? Non si trattava certo di un’offesa alla maestà del Nobel, che è un concetto del tutto estraneo al mio temperamento e alle mie convinzioni. Tanto meno di un dubbio circa il valore estetico dei testi di Bob Dylan, che è indiscutibilmente notevole.

E allora? Ci ho pensato un po’ su, ripercorrendo le fasi della mia giovinezza di ammiratore di Dylan (insieme a molti altri tra cui Woody e Arlo Guthrie, Joan Baez, Pete Seeger, Leonard Cohen eccetera) e finalmente ho capito.

Non mi andava giù che un’Accademia, ancorché autorevole e prestigiosa, trasformasse col tocco dorato del suo riconoscimento il simbolo di una cultura antagonista in un poeta “laureato” (per dirla con Montale, che peraltro fu insignito anch’egli del Nobel nel 1975).

Questo tocco di Mida, e altrettanto mortale, mi palesava una situazione anomala e distorta in cui la cultura dominante si appropria in modo vorace di ogni cultura “altra”, cancellando la stimolante linea di demarcazione tra l’alto e il basso, il popolare e il dotto, lo sregolato e il classico, e così via. Situazione estremamente deleteria, soprattutto per quelle culture alternative che esprimono la voce di chi non ha nient’altro che la propria voce. Ma anche per gente famosa come Dylan, che infatti pare essere rimasto un po’ interdetto e forse non sa cosa fare con questo premio così ingombrante.

La confusione è grande, né si può dire, come Mao, che ciò sia un bene e che annunci una fase rivoluzionaria. Paventerei piuttosto un’epocale involuzione.

Il fatto è che il Nobel a Bob Dylan ha aperto il vaso di Pandora. Ora non c’è facilone o generoso entusiasta che non rivendichi analogo trofeo per il suo beniamino. Tutto è diventato possibile.

Perché non premiare, per esempio, Art Spiegelman? Il suo Maus non vale quanto e più di Se questo è un uomo? E come mai non aver pensato prima, quando ancora si era in tempo, a Charles M. Schulz? I Peanuts non sono pari a Balzac?

Direi proprio di no. Cerchiamo di non farci trascinare da valutazioni improponibili, sebbene (o in quanto) dettate da un sacrosanto amore.

Al di là del fatto che Dylan sia (e lo è) davvero un grande poeta, e che Spiegelmann e Schulz non siano da meno, innegabilmente sono saltati i parametri e i valori. I punti di riferimento, insomma.

E abbiamo perduto l’orientamento, il senso della misura. Il pubblico scolarizzato che ha letto l’ultimo best-seller e ha fatto la fila per vedere una mostra o visitare un museo si è lasciato (facilmente) convincere, a un certo punto, che tutto fa cultura come tutto fa brodo.

È strano che debba dirlo uno come me, che ha sempre sostenuto (con le sue poche forze, va da sé) la causa di ciò che è piccolo, marginale, eterodosso. Le ragioni e i meriti, per così dire, delle arti minori. Uno che ha sempre coltivato (senza alibi semiologici, per carità!) il meraviglioso mondo di quella che un tempo veniva definita paraletteratura.

Ma va detto che questa situazione di confusione e di assimilazione è pericolosa e potenzialmente devastante per entrambe le parti, il low e l’high, perché origina da uno smarrimento e determina a sua volta uno smarrimento ancora maggiore.

Non si tratta, beninteso, di difendere la natura alta dell’Arte maiuscola. Nemmeno nei termini (comunque imprescindibili) di Dwight Macdonald, nel suo celeberrimo pamphlet, ossia di un radicalismo aristocratico ferocemente avverso alla mercificazione della cultura. Semmai, in un certo senso, si tratta del contrario (1).

Sui concetti profetici di masscult e midcult bisognerà comunque tornare a riflettere. Tuttavia non è questo, esattamente, ciò che qui mi preme annotare e precisare.

Per chiarire (e chiarirmi) meglio il mio pensiero, prenderò le mosse dall’ultimo libro di Harold Bloom, “Il canone americano”(2).

 

Il sublime è il demonico 

Critico e storico della letteratura di severissimo giudizio, Bloom ha operato una rigorosa selezione che lo ha portato a individuare dodici autori a cui egli attribuisce la creazione del “sublime americano”.

Si tratta di Walt Whitman, Herman Melville, Ralph Waldo Emerson, Emily Dickinson, Nathaniel Hawthorne, Henry James, Mark Twain, Robert Frost, Wallace Stevens, Thomas Stearns Eliot, William Faulkner e Hart Crane.

Bloom avverte subito che si sarebbero potuti aggiungere a tale cernita molti altri scrittori, tutti meritevoli di appartenere al canone americano. Tuttavia il suo criterio si è basato sull’individuazione di quegli scrittori che hanno prodotto “lo sforzo incessante di trascendere l’uomo senza rinunciare all’umanesimo”.

Mi chiedo quanta parte della sterminata produzione culturale che inonda senza sosta i nostri giorni si ponga anche minimamente intenti simili.

Ma è necessario a questo punto uscire dalle definizioni e dalle indicazioni generiche. Stiamo parlando, spiega Bloom, di quella che Kierkegaard chiamava (con riferimento a Shakespeare) “la risonanza del contrario”. È proprio questa “vena antitetica” ciò che accomuna, secondo Bloom, i dodici autori del suo canone americano.

Ossia una forza oppositiva e demonica, caratterizzata da una intrinseca ambivalenza, che è poi, in ultima analisi, l’elemento fondamentale del sublime americano.

Sicché, “intorno a questi dodici autori ruota, secondo me, la proliferazione della coscienza grazie alla quale continuiamo a vivere e a scoprire il senso dell’essere”.

L’arte quindi come vita e senso. Niente a che vedere, mi pare di poter aggiungere, né col masscult né col midcult, che sono consumo e apparenza.

Ma bisogna procedere con circospezione, sia nel seguire l’appassionato ragionamento di Harold Bloom, in cui aleggia una visionarietà testamentaria, sia nel tornare alle invettive sprezzanti di Dwight Macdonald, così pregnanti riguardo al midcult, di cui ha preconizzato il becero trionfo che oggi constatiamo, ma talora ingenerose e un po’ miopi nei riguardi del masscult.

La cautela è d’obbligo perché che cosa sia il demonico non è proprio chiarissimo nel saggio di Bloom.

“Il demone sa come fare”, ci dice il decano della critica americana. Ma noi non siamo altrettanto consapevoli nei suoi confronti. Sappiamo tuttavia che il demone agisce, più che essere agito:

“Il demone sa come si scrive una poesia, e conosce anche la propria ambivalenza, poiché segue un percorso dalla divinità alla colpa”.

Sappiamo pure che il demone consiste nell’eresia del capolavoro e che coincide con “l’America stessa” (come già pareva a D. H. Lawrence). Da questo demone sciamanico fuggivano Henry James e T. S. Eliot allorché “si autoesiliarono a Londra”.

Veniamo ora al nocciolo della questione che a me (e spero non solo a me) più preme.

 

Lo strano caso del signor Samuel Langhorne Clemens 

Nell’austero canone di Bloom trova posto Mark Twain, il che ovviamente non è affatto una sorpresa. Soprattutto come autore diHuckleberry Finn, romanzo che Bloom non esita ad accostare a capolavori come La lettera scarlattaMoby DickFoglie d’erba.

L’analisi di Bloom è perfetta: libro cervantino e segnatamente chisciottesco, Huckleberry Finn, apice della produzione di Mark Twain, “è pervaso da una brutalità incessante”, che è l’elemento che più lo differenzia dalle Avventure di Tom Sawyer, romanzo più lieve che non a caso è stato ghettizzato nella letteratura per ragazzi.

Tuttavia il legame tra le due opere non può essere soppresso, sebbene il seguito si elevi a un rango superiore rispetto alla prima parte.

E ne è consapevole lo stesso Bloom quando scrive: “Se mai la nostra letteratura ha prodotto un’opera di richiamo universale, popolare ed elitaria insieme, è la storia di Huck Finn”.

Popolare ed elitaria insieme: come è avvenuta questa fusione? Tutto quello che possiamo dire è che l’unico a saperlo è il demone.

In altri termini, misteriosa è l’alchimia che trasforma talora un’opera popolare (che Macdonald collocherebbe nel masscult) in un capolavoro. E tale mistero permane anche dopo analisi accuratissime e multidisciplinari.

Tuttavia, sappiamo che in qualche modo e in qualche caso accade, e che quindi non possiamo fare di tutte le erbe un fascio e sbarazzarci della zavorra della cultura popolare, di massa, commerciale, per elevarci nel limpido cielo dell’arte sublimata. Forse potrebbe risultare più utile usare questa zavorra per sprofondarci negli abissi del demonico. Ma si tratta evidentemente di un discorso simmetrico.

Di un discorso – ecco il punto – ambivalente. Non può esistere una pratica bassa della cultura senza modelli alti. Ma questi ultimi non avrebbero senso né sostanza senza la base delle pratiche basse. I due piani, non solo sono complementari, ma interagiscono dialetticamente e hanno, non di rado, interscambi fecondissimi e rivelatori.

Tutto ciò che sta in mezzo (il midcult) è il kitsch, la mercificazione mistificata, la parodia involontaria, la mediocrità nella sua accezione più squallida.

Mark Twain è allora interprete del demone americano tanto col suo Huck che col suo Tom, che sono dioscuri inseparabili, sebbene solo dal viaggio fluviale di Huck, su quel Mississippi che è il suo Dio, come dice Eliot (che in fondo è lo stesso che è il suo demone), scaturisca quella straordinaria metafora plurima che è il filone on the road della letteratura (e non solo) americana.

Se spingiamo in avanti di appena un passo questo ragionamento, perveniamo a una conclusione più generale. Il legame tra Tom e Huck è la cifra del legame indissolubile tra cultura popolare e cultura alta, del loro inscindibile patto di sangue.

 

Io sto con gli indiani 

Se dovessi percorrere la storia e l’anima della letteratura americana, non potrei prescindere da una realtà minore che costituisce l’humus e il sottobosco delle grandi querce autorali canoniche.

Li chiamerò gli “indiani”, con riferimento all’epopea western hollywoodiana e ad Agatha Christie (seguendo la quale avrei potuto anche chiamarli niggers), inarrivabile escogitatrice di enigmi polizieschi.

Si tratta di autori minori o di generi minori o di opere minori di autori maggiori. Oppure di libri relegati nella riserva indiana della letteratura per ragazzi (dove peraltro sono in eccellente compagnia).

I miei dodici piccoli indiani contrapposti (ma in realtà connessi) alla grande tradizione colta e ufficiale sono questi:

 Rip van Winkle di Washington Irving, L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper, Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe (di cui si danno per scontati i racconti), La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, Piccole donne di Louisa May Alcott, Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain, Memorie di un cane giallo di O. Henry, Il meraviglioso mago di Oz di Lyman Frank Baum, Il richiamo della foresta (col suo doppio Zanna bianca) di Jack London, Tarzan delle scimmie di Edgar Rice Burroughs, Il Falcone Maltese di Dashiell Hammett,  Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.

Si tratta di un lacunoso percorso cronologico (dal 1819 al 1953) che segna la nascita di buona parte dei grandi temi della cultura americana: il viaggio nel tempo, il mito ambiguo del pioniere, l’antischiavismo, il femminismo, il picarismo, la dimensione utopica del sogno, la libertà selvaggia, la giungla metropolitana, le distopie del potere.

Ho scelto di parlare di libri, anziché di scrittori, perché il mistero dell’esemplarità è sempre racchiuso più nell’opera che nel suo autore.

Inutile dire che il gioco del dodici (come ogni gioco della torre) è un limite troppo angusto e vincolante. Lo stesso Bloom avverte nella premessa (“Perché questi dodici?”) di aver dovuto lasciare fuori autori del calibro di Edgar Allan Poe, Henry David Thoreau, Edith Wharton, Theodore Dreiser, Edwin Arlington Robinson, Willa Cather, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, William Carlos Williams, Marianne Moore, Ralph Ellison, Flannery O’Connor, “senza voler includere autori successivi”.

Ogni elenco, per quanto dettagliato, è sempre incompleto.

Al mio aggiungerei almeno Il segno rosso del coraggio (1895) di Stephen Crane, prototipo del cimento dell’anima, e Piccolo Cesare (1929) di William Riley Burnett da cui sono scaturiti la maschera di Scarface e un intero filone cinematografico (il gangster film).

So bene di avere tralasciato, con un gran senso di colpa, autori magnifici come Frederic Brown o Cornell Woolrich (e con loro tanti altri, da Rex Stout a Isaac Asimov, per citarne appena due). Oppure romanzi bellissimi come Il buio oltre la siepe (1960) di Nelle Harper Lee e Mattatoio n. 5 (1969) di Kurt Vonnegut.

Con gli ultimi due titoli entriamo in una zona intermedia che è costituita, a mio avviso, da libri straordinari, a volte autentici capolavori, tuttavia solitamente esclusi dal canone.

Qui collocherei: Henry James, Il giro di vite (1898), Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River (1914-15), Francis Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby (1925), John Fante, Chiedi alla polvere (1939), John Steinbeck, La luna è tramontata (1942), Jerome David Salinger, Il giovane Holden (1951), Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare (1952). Tutti irrinunciabili, nonostante talora Macdonald arricci il naso (come per il linguaggio pseudo-biblico dell’Hemingway marinaro) o Bloom se ne dimentichi con elitaria noncuranza.

E ovviamente chissà quanto io stesso ho omesso (a cominciare da ciò che non ho letto). Ma ormai penso sia chiaro quello che volevo dire e davvero non c’è bisogno di aggiungere altra legna al fuoco.

Abbiamo bisogno di modelli alti e altissimi, altrimenti rischiamo il rachitismo culturale, ma non dobbiamo dimenticare che le vette poggiano su un substrato che spesso ha svolto un ruolo determinante nel sospingerle creando le premesse di una sensibilità che infine le recepisse. E dobbiamo anche capire che un appiattimento generalizzato non giova a nessuno, creando soltanto un grande Blob amorfo che ingloba ogni cosa e la metabolizza.

Anche se viviamo ormai in un tempo di omologazione totale, sia sociale che culturale, in cui il concetto stesso di arte popolare è venuto meno insieme al popolo, e dove tutto è divenuto di massa, dobbiamo tentare di tutelare le prerogative di quelle forme di espressione che un tempo erano alternative alla culture ufficiali e dominanti. E al tempo stesso, in modo speculare e sinergico, rivendicare il carattere incomparabile dell’epifania artistica (senza ricorrere a baggianate turistiche come la Sindrome di Stendhal).

Come si è già detto, tale duplice difesa costituisce un’unica mossa, come una sorta di arrocco scacchistico.

Infine, un esempio esplicativo. Se diciamo, con Lacassin, che Burne Hogarth – il raffinatissimo cartoonist cui si deve una preziosa interpretazione grafica di Tarzan – può essere definito il “Michelangelo dei fumetti” per la sua sapienza anatomica e per il suo sopraffino senso del movimento e della composizione della tavola, è proprio perché siamo consapevoli che Michelangelo è un’altra cosa, inarrivabile, imparagonabile, a cui ci riferiamo solo per iperbole. Pur essendo, beninteso, consapevoli che Burne Hogarth ha un formidabile talento ed è un disegnatore davanti al quale fior di pittori accademici avrebbero dovuto togliersi rispettosamente il cappello.


Note
1 Dwight Macdonald, Masscult e Midcult, Roma, E/O, 1997, traduzione di Adriana Dell’Orto e Annalisa Gersoni Kelley
2 Harold Bloom, Il canone americano, Milano, Rizzoli, 2016, traduzione di Roberta Zuppet

 

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