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Sartre, tutta una vita dalla parte del torto

di Angelo d'Orsi

Quando mancò - era il 15 aprile del 1980: tre anni prima, sempre a Parigi, nella notte sempre tra il 15 e il 16 aprile se n'era andato un altro grande della cultura francese, Jacques Prévert - chi scrive era borsista della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, dove aveva dato vita a un gruppetto di giovani "ribelli" alle regole piuttosto ferree di quella nobile istituzione. Ci si vedeva oltre che nei locali della biblioteca e dell'archivio, e nelle stanze a noi riservate, al di fuori: a pranzo, a cena, in qualche circolo Arci, sul Lungo Po, e si facevano grandi discussioni politico-culturali. Eravamo insieme quando giunse la notizia. Proposi allora, in una di quelle iniziative un po' sconsiderate che caratterizzano la giovane età, di organizzare un viaggio-lampo nella Ville Lumière e partecipare ai funerali di Sartre, l'indomani. Del resto, ricordo il pezzo forte della mia argomentazione, non aveva teorizzato, Sartre, il "gruppo in fusione" ? E non era ciò che cercavamo di essere?

Il no che ricevetti fu corale. E non era tanto e solo per il peso - innanzi tutto economico, essendo tutti più o meno squattrinati - della spedizione, ma specialmente perché, come sentenziò uno dei miei compagni (oggi importante studioso e commentatore delle relazioni industriali), "Sartre era superato". Forse lo era, ma nel mio deluso entusiasmo vibrava tutta l'ammirazione per la capacità di quel vecchio filosofo (vecchio per noi: in realtà morì a 75 anni non compiuti, essendo nato, ovviamente a Parigi, il 21 giugno del 1905) di mettersi in gioco, sfidando le corporazioni intellettuali, gli ambienti accademici (accademico non fu mai, ma le sue opere erano oggetto di studio nei corsi universitari, non soltanto in Francia, e decine di studiosi togati si erano cimentati in interpretazioni sartriane), le forze politiche, e lo stesso senso comune.

Quando, nel pieno dell'ondata rivoluzionaria, tra la fine degli anni Sessanta e gli ultimi anni Settanta, arrivò a "farsi marxista-leninista", quando andò ad arringare gli operai della Renault in sciopero, issato da braccia robuste su un bidone, quando stese manifesti accalorati di solidarietà con tutti coloro che tentavano, negli atenei e nelle officine, il loro "assalto al cielo", quando pronunciò parole dure contro i "revisionisti" dei partiti comunisti ufficiali, ricevé contumelie o, nel migliore dei casi, pesanti sarcasmi. Luciano Gruppi, intellettuale organico (che più organico non si poteva) del Pci, ebbe a pubblicare un fondo su l'Unità , intitolato Il crepuscolo di un filosofo.

Ebbene, erano proprio quelle "esagerazioni" sartriane che lo rendevano caro ai giovani "contestatori" degli anni Settanta. Che un filosofo, letterato, critico di quella importanza, pensasse come noi, parlasse come noi, scrivesse parole che sembravano uscite dalle nostre rivistine, ci entusiasmava; o almeno entusiasmava chi, come me, ancora coltivava la speranza del grande cambiamento, e riteneva che gli intellettuali, vecchi e giovani, dentro o fuori le istituzioni, dovessero "impegnarsi", senza remore, senza paure, senza esitazioni. Già allora, in epoca di diffusa partecipazione di letterati e artisti alle passioni della politica, passioni prevalentemente schierate a sinistra, la pavidità, la tendenza al compromesso, l'ipocrisia erano assai presenti nella fisionomia collettiva dell'intellettualità italiana. Alla Francia si guardava invece come a un mondo in cui gli intellettuali engagés erano stelle fisse di uno straordinario firmamento: e Jean-Paul Sartre era la più luminosa di quelle stelle. I suoi dibattiti, spesso trascesi in aspri conflitti seguiti da irrimediabili rotture, avevano fatto epoca: Albert Camus, Maurice Merleau-Ponty, Raymond Aron, erano stati fra i sodali con cui aveva interrotto i rapporti, e al di qua delle Alpi, da noi, ci si schierava con costoro, o, al contrario, con lui, un Don Chisciotte della seconda metà del XX secolo.

Pochi lo avevano letto davvero, specie quelle opere filosofiche che incutevano un certo timore: la Critica della ragione dialettica (1960) faceva bella mostra di sé, tra le opere classiche del pensiero contemporaneo, accanto alla Distruzione della ragione e Storia e coscienza di classe di Lukács, ai gramsciani Quaderni del carcere : testi perlopiù marxisti, sia pure variamente eterodossi. Ma Sartre era marxista? Era questa una delle grandi domande che ci si era posto in sede critica: ricordo innanzi tutto gli studi di un maestro dimenticato, Pietro Chiodi, filosofo e partigiano, splendida figura di intellettuale sartrianamente militante. Un marxismo "particolare", era la risposta che perlopiù ci si era dati, quasi imbarazzati da un tragitto erratico del pensatore, del letterato, del drammaturgo, e, last but not least, appunto, dell'intellettuale militante. Per noi, era un marxismo critico, eretico, umanistico: perciò ci seduceva.

Ma Sartre, per la "generazione del ‘68", era l'incrocio tra marxismo ed esistenzialismo, era la Francia che faceva i conti con il proprio colonialismo, era il generoso abbraccio che i vecchi davano ai giovani: i pochi vecchi che erano pronti a mettersi in gioco, sacrificando qualcosa del proprio status, per solidarizzare concretamente con i tanti giovani che, sulla scorta soprattutto delle analisi critiche dei "francofortesi" (Marcuse, innanzi tutto, anche per la relativa facilità della sua scrittura; e poi Adorno, Horkheimer, Fromm, Mannheim e gli altri), si opponevano all'Impero americano e all'american way of life, come unico modello culturale ed esistenziale. Sartre era la congiunzione di estetica e impegno, di pensiero e azione, di antimperialismo e contestazione della società opulenta. Le opere letterarie, in particolare La nausea e Il muro, ci avevano fatto scoprire come un filosofo potesse essere uno scrittore avvincente, e che uno scrittore potesse veicolare contenuti filosofici, e non di rado, politici: del resto allora nelle opere artistiche - letterarie, teatrali, cinematografiche, musicali, figurative… - si era sempre a caccia del "messaggio". "Qual è il messaggio?", si chiedeva il critico militante, e i nostri giudizi estetici non potevano prescindere dai giudizi politici. E Sartre sembrava mirabilmente mettere insieme i due ambiti. Così come ci piaceva di lui lo schierarsi sempre netto, e sempre accanto ai subalterni, agli schiacciati, ai derelitti, anche con quell'intolleranza, quella mancanza di mezze misure, quell'insofferenza al compromesso, che incontrava la nostra smania di aspiranti rivoluzionari della cultura. E quel filosofo acciaccato che teneva il comizio a Billancourt, alle porte della Renault, fu per noi un'icona indimenticabile (in quante stanze vidi quella foto fermata da puntine da disegno su uno scaffale ingombro di libri e giornali).

Se il Sartre che ci piaceva di più era quello del teatro (da I sequestrati di Altona a Le mani sporche), che coniugava Brecht e Kierkegaard, leninismo e umanesimo, il Sartre più rivoluzionario fu per noi, forse, quello della Prefazione a I dannati della terra , il fascinoso, travolgente saggio-manifesto di Frantz Fanon, che uscì nel 1961, l'anno stesso della morte precoce di quello straordinario personaggio, lo psichiatra delle Antille che aveva trascorso anni in Algeria, a studiare la psicosi dei colonizzati, esperienza da cui aveva ricavato i materiali per un libro destinato a diventare il più convincente breviario dei rivoluzionari del Terzo Mondo, e, in Europa o in Nordamerica, delle migliaia di "terzomondisti". In quelle pagine incendiarie Sartre firmò il più incredibile elogio della ribellione contro il bianco ("in Africa l'unico bianco buono è il bianco morto"), che divenne un capo d'accusa da parte di tanti, anche nelle fila della Gauche, contro gli "eccessi" di quel pensatore-militante. Come ne attirò anche il suo L' antisemitismo : riflessioni sulla questione ebraica, che rimescolava le carte, suscitando perplessità, riprovazioni, incomprensioni di cui non si curò più di tanto.

Del resto, alla fine gli si perdonava tutto, ammesso si trattasse di "peccati". Era, pur sempre, malgrado le provocazioni e gli estremismi, il personaggio eminente della cultura francese: e, accanto al suo alter ego, Aron (che non raggiunse mai nemmeno un decimo della popolarità di Sartre), fu il guru dell'intellettualità militante transalpina, per almeno tre decenni. E come scrisse Jean Daniel, «far visita a Sartre costituiva una sorta di pellegrinaggio obbligato, e insieme la ricerca di un avallo gratificante»: la generosità dell'uomo era proverbiale, anche sul piano intellettuale, pur nelle attitudini squisitamente, e insopportabilmente, parigine.

Finita la stagione dell' esistenzialismo (nel 1943 era uscito L'essere e il nulla, il testo canonico della filosofia dell'esistenza sartriana), la mitica stagione di Saint Germain de Près (quando Jean Paul costruisce sodalizi con Eluard e Picasso, Camus e Boris Vian, Juliette Gréco e Merlau-Ponty…), era giunta con i primi anni Cinquanta la celebrità, a cui, dalla metà dei Sessanta era seguita la militanza comunista-maoista, della fondazione del quotidiano Libération. Nondimeno, aveva trovato il tempo e la voglia di scrivere un'opera monumentale su Flaubert (L' idiota di famiglia).

Nel cuore del dopoguerra, si situò il Nobel per la Letteratura, specie a seguito della pubblicazione dell'autobiografico Le parole: ed ecco lo scandalo, un premio rifiutato. Un riconoscimento che non poteva esser da lui accettato perché sanciva la «specializzazione del lavoro di scrittore» rifiutata da chi, come lui, si riconosceva in un' idea di scrittura legata alla condizione umana, nella sua totalità, aliena dagli angusti specialismi: il premio era poi il riconoscimento del talento, che, come egli stesso avrebbe confidato, «è un crimine contro se stessi e contro gli altri», in quanto evidenzia «ciò che ci separa dagli altri».

Era insomma una concezione olistica della cultura, che si combinava con una vivente apologia della praxis: due vie per combattere conservatorismo e moderatismo, in politica, strutturalismo in filosofia. Due vie, coincidenti, nella fusione tentata, non sempre riuscita, di marxismo ed esistenzialismo (col terzo litigante: la fenomenologia), per tenere alta la barra dell'intellettualità militante.

Una vita, insomma, quella di Sartre, tutta "dalla parte del torto".

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