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Il Califfato, o della Modernità Occidentale

di Niccolò Serri

hipsterjihadiCon la sua recente avanzata nelle pianure di Nineveh e l’assalto alle limitrofe postazioni occupate dai Peshmerga Kurdi, l’ISIL/ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), o più semplicemente IS (Stato Islamico), ha esteso il suo controllo su una porzione di territorio più o meno grande come il Belgio, fra Aleppo e Mosul. Già da inizio Giugno, il movimento si è candidato a strappare ad Al Qaeda e agli Al Shabaab somali la palma di gruppo terroristico più ricco del pianeta, potendo contare non solo sui proventi delle sue sistematiche razzie, ma anche sul ben più remunerativo controllo dei giacimenti di gas e petrolio a cavallo tra Iraq e Siria.

Di fronte a questo processo di vero e proprio state-building totalitario, forse ancor più che di fronte alla sistematicità del massacro palestinese, la narrazione occidentale resta intrappolata in una visione ‘orientalistica’ della realtà mediorientale. La brutalità dei massacri (da ultimo quello degli Yazidi) viene ricondotta, ancora una volta, ad una barbarie irrazionale, frutto della mancata modernizzazione dell’area, della ferocia inter-settaria e dell’ineliminabile refrattarietà della religione musulmana al progetto della democrazia liberale.

La striscia di Gaza è descritta come un brulicante coacervo di odio anti-israeliano, da cui, contro ogni valutazione tattico-strategica, continuano a essere lanciati missili contro le soverchianti forze israeliane; l’IS è assimilato ad una primitiva orda di mongola memoria, descritto sbrigativamente come «più estremista di Al Qaeda», animato da una furia cieca e devastatrice. La sofferenza degli uni e la violenza degli altri sono sempre tenute a debita distanza dalla nostra coscienza occidentale, ‘esoticizzate’ e marginalizzate come residuo anti-moderno.

 

Un caso emblematico è rappresentato dall’eco avuta dall’intervista rilasciata da una profuga cristiana. In fuga da Qaraqosh – la più grande città a maggioranza cristiana del Nord dell’Iraq, recentemente conquistata dall’IS – una donna, di nome Rwaa, è riuscita ad entrare in contatto con il BBC Radio Service per descrivere le prime drammatiche conseguenze dell’occupazione Jihadista.

Non abbiamo nessun posto dove andare perché nessuno ci vuole qui… Ci hanno tolto tutto, hanno preso le donne, le hanno stuprate, le stanno vendendo, per Dio, le stanno vendendo. Ma in che secolo ci troviamo?

La tragica domanda finale, non a caso ripresa da molti media, svolge una funzione normalizzatrice della violenza mediorientale, con il rimando ad un tempo storico antecedente alla linea di progresso della modernità occidentale, un retaggio medievale di facile lettura. Essa ci permette di stupirci ed indignarci (forse) di fronte all’atrocità delle persecuzioni, senza però alcuna assunzione di causa e problematizzazione del conflitto, ridotto a torbido rimasuglio di secoli passati.

Questa trappola del discorso non agisce solo a livello mediatico, più esposto al rischio di sensazionalizzazione, ma anche e soprattutto – ed è il dato più preoccupante – fra i policymakers. In un articolo di qualche tempo fa, Richard N. Haas, ex Direttore del Dipartimento di Stato Americano e punta di diamante del Council on Foreign Relations, ha identificato il complesso scontro regionale in atto in Medioriente con le lotte interreligiose che scossero l’Europa germanica fra il 1618 e il 1648. Una comparazione sicuramente pregna di contenuti, ma che serve all’autore soprattutto per scaricare le forti responsabilità dell’avventurismo militare dell’epoca Bush, sciogliendole nella generica immaturità politico-culturale del mondo arabo. Il Medioriente finisce per essere «non più un problema da risolvere, ma una situazione da gestire».

(La stessa decisione dell’amministrazione statunitense di riprendere i raid aerei in Iraq, infatti, non corrisponde ad un coerente sforzo di risoluzione della crisi, quanto piuttosto al goffo tentativo di tamponare il disastro umanitario e proteggere i propri interessi nelle zone intorno alla capitale curda di Erbil.)

Il problema di fondo, invece, è che non esiste niente di propriamente medievale nell’IS, che rappresenta, in realtà, una complessa struttura di potere costruita sulla ferocia imprenditoriale, sull’insistita pubblicizzazione della violenza e lo sfruttamento di network criminali transnazionali. I miliziani dello Stato Islamico non solo sono equipaggiati con i più moderni sistemi d’arma americani, ma sfruttano efficacemente i social media per veicolare le immagini della propria brutalità, con il doppio fine di inspirare paura nei propri nemici e ammonire/educare le comunità sotto il proprio controllo. La decisione di accettare un giornalista di Vice News e la presenza di un addetto stampa incaricato del movimento, Abu Mosa, sottendono ad una strategia comunicativa articolata, che nella sfida all’Occidente, veicola l’appeal dello Stato Islamico e mira al proselitismo nel resto del mondo arabo (vedi: link) .

L’appartenenza dell’IS alla contemporaneità occidentale non pertiene solo ai metodi, ma anche e soprattutto alla visione complessiva che il movimento ha della società islamica. Il richiamo al Califfato e a una struttura sociale modellata sulla Shari’a non rappresentano un semplice ritorno al passato, quanto piuttosto un superamento dialettico della modernità, più simile all’utopismo occidentale che al semplice anti-razionalismo di altro Islam estremista, come quello Talebano o Wahabita. Similmente all’anarchismo e ad altre ideologie giacobine, l’IS crede nella violenza come forza purificatrice e palingenetica, assegnando all’avanguardia rivoluzionaria il compito di forzare la realtà e riplasmare la società.

L’IS non nasce come resistenza autoctona all’occidentalizzazione del Medioriente (fallita, aggiungiamo, con l’involuzione autoritaria delle Primavere Arabe) quanto piuttosto come un abominio frutto della contaminazione fra fondamentalismo religioso e pratiche neo-coloniali.
Durante le lotte di liberazione degli anni Cinquanta e Sessanta, l’importazione della forma dello Stato-nazione occidentale è stato assunto, soprattutto dai partiti Baath, quale strumento essenziale di emancipazione e sviluppo. In assenza di una società civile di modello occidentale, gli apparati dello Stato si sono innervati sulle strutture settarie/etniche lasciate degli imperi europei. Le identità culturali sono state trasformate in forme di organizzazione della politica: in Siria la famiglia Assad ha basato il proprio potere sulla minoranza Alawita, in Iraq Saddam ha costruito la propria dittatura appoggiandosi a gruppi Sunniti.

L’intervento americano del 2003 ha fatto implodere la situazione: la completa estromissione dei Sunniti dalla co-gestione del potere e la scelta di una dittatura della maggioranza Sciita nella figura di Nouri Al-Maliki hanno accentuato il settarismo della politica irachena. Ciò ha portato alla crescita di una massa di scontenti (armati) che si è prima riversata nella guerra civile siriana, forgiando nel sangue la propria intransigenza, ed ha quindi fatto ritorno in patria.

Di fronte al crollo del vecchio impianto nazionalista, dopo il deserto politico-istituzionale lasciato dalla ritirata americana, l’IS si è affermato come nuovo espressione di senso comunitario per gli arabi sunniti: ha rifondando il diritto intorno all’autorità della religione e alla stirpe di sangue del proprio leader – Abu Bakr Al-Baghdadi, supposto erede diretto di Maometto – restando però ancorato all’ultimo e peggiore feticcio dell’epoca coloniale, quello del settarismo etnico-religioso.

Il Califfato è il prezzo che oggi l’Occidente paga per non aver compreso le radici profonde di quel mondo che ha pensato, con arroganza, di poter ‘ordinare'; ed è proprio la fallace auto-rappresentazione della modernità occidentale come geograficamente e temporalmente separata dal resto del mondo e come icona appannaggio unico dei civilizzati ad aver contribuito non poco alla nascita di questo modernissimo incubo travestito da Medioevo.


1.Sulle relazioni fra fondamentalismo e ideologia giacobina, S.N. Eisenstadt, Fundamentalism, Sectarianism and Revolution: the Jacobin Dimension of Modernity, Cambridge University Press, Cambridge, 1999.

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