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confronti

E l’apprendista stregone Occidente «creò» l’Isis

C. Russo intervista Domenico Losurdo

isis flagDiversi paesi arabi sono oggi disastrati e distrutti. Quali sono le cause della gravissima crisi in cui vivono paesi come la Libia, la Siria e l’Iraq?

A partire da quello che era stato strombazzato come l’anno di grazia, il 1989, sono stati investiti dalla guerra Panama, l’Iraq, la Jugoslavia, la Libia, la Siria… L’epicentro di questi conflitti è costituito dal Medio Oriente, dove l’Occidente assicura di voler apportare civiltà, democrazia, pace. Dopo centinaia di migliaia di morti, milioni di feriti e milioni di profughi, la realtà è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta solo delle terribili devastazioni materiali. In occasione della prima e della seconda guerra del Golfo (1991 e 2003) gli sciiti iracheni furono chiamati alla rivolta contro i sunniti guidati da Saddam Hussein; successivamente, con lo sguardo rivolto all’Iran sciita e ai suoi possibili alleati, sono stati i sunniti a essere sollecitati a prendere le armi contro gli sciiti in Iraq e soprattutto in Siria. Ai giorni nostri, dopo essere stati incoraggiati in Siria, gli spietati guerrieri sunniti del Califfato sono combattuti in Iraq e soprattutto nel Kurdistan secessionista.

In tutto il Medio Oriente, nella lotta contro i regimi laici scaturiti dalle rivoluzioni anticoloniali (che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mondiale) e contro i movimenti di liberazione nazionale collocati su posizioni laiche, l’Occidente ha fatto appello alla religione e al fondamentalismo religioso: così in Iraq, Libia, Siria, Palestina, dove Israele a suo tempo appoggiò Hamas contro l’Olp di Arafat.

Impressionante è la scia di distruzione e di morte: paesi come l’Iraq, la Libia, la Siria rischiano di cessare di esistere come Stati nazionali unitari e indipendenti, mentre priva ormai di qualsiasi credibilità è la fondazione di uno Stato nazionale palestinese, il cui territorio diviene sempre più esiguo e sempre più frammentato. C’è di peggio. In Medio Oriente divampa la guerra civile tra laici e religiosi, nell’ambito del mondo religioso tra islamici e cristiani, nell’ambito dell’islam tra sunniti e sciiti. In conseguenza di tutto ciò, l’Iraq e la Siria vedono una parte del loro territorio occupato da forze qaediste, almeno inizialmente finanziate e armate dall’Arabia Saudita (da sempre alleata con l’Occidente), e il cui comportamento può suscitare solo orrore.

 

È vero che i jihadisti si sono moltiplicati a dismisura in questi ultimi anni, soprattutto a partire dalla cosiddetta Primavera araba?

«Primavera araba» è un’espressione chiaramente ideologica. Se si vuol fare riferimento all’irruzione della democrazia nel Medio Oriente, occorrerebbe prendere le mosse in realtà dal 1979, e cioè dalla rivoluzione che in Iran (un paese islamico ma non arabo) ha posto fine alla spietata dittatura di una dinastia appoggiata dall’Occidente, col rovesciamento a opera degli Usa e della Gran Bretagna, nel 1953, del governo democratico di Mossadeq. Nonostante viva sotto la minaccia costante di un attacco statunitense (assieme ai suoi alleati, ndr), l’Iran, con la sua vivace dialettica politica, è indubbiamente ben più democratico di paesi quali la Libia o l’Egitto, dove avrebbe avuto luogo la «Primavera araba». Se invece ci si vuole concentrare esclusivamente sul mondo arabo, bisognerebbe prendere le mosse dal 1991. A partire dalla prima guerra del Golfo, l’Occidente si è impegnato ad aggredire o a destabilizzare i paesi (l’Iraq, la Libia, la Siria) che bene o male avevano alle spalle una rivoluzione anticoloniale e antifeudale (più complesso è il caso dell’Egitto). Nello scatenare l’attacco, gli Usa e i loro alleati europei si sono avvalsi dell’appoggio di paesi come l’Arabia Saudita, che non hanno mai conosciuto una rivoluzione anticoloniale e antifeudale, e di bande armate fondamentaliste che da ultimo hanno assunto la configurazione dell’Isis.

 

Chi sono veramente e come sono riusciti ad avere tutta questa forza militare che oggi preoccupa l’Occidente?

Gli Stati Uniti hanno condotto la guerra per procura prima contro la Libia di Gheddafi e poi contro la Siria di Assad, finanziando e armando quella che oggi è l’Isis. Abbiamo così un mostro che l’apprendista stregone occidentale ha creato ma non riesce più a controllare. È da aggiungere che la distruzione materiale e spirituale e la balcanizzazione inflitte al Medio Oriente realizzano le condizioni favorevoli per l’emergere e il diffondersi della nostalgia per un Califfato al tempo stesso miticamente trasfigurato e distorto in senso selvaggiamente fondamentalista.

 

Esiste un nesso geopolitico tra le guerre che devastano il Medio Oriente e gli attentati di Parigi?

Non si può comprendere il barbaro attentato di Parigi ignorando la carica di frustrazione e di risentimento che colpisce il mondo arabo e islamico. Nella stessa Francia gli arabi e gli islamici si sentono discriminati: sul piano sociale sono reclusi nei segmenti inferiori del mercato del lavoro e segregati in banlieues spesso fatiscenti. Mentre la loro religione e la loro identità religiosa (e indirettamente nazionale) può incessantemente essere derisa e vilipesa, allorché essi reagiscono, sia pure maldestramente alla maniera del comico Dieudonné, ecco che dilegua la conclamata libertà di parola. Vale la pena di ricordare quello che già alcuni anni prima dell’11 settembre 2001 scriveva un illustre politologo statunitense di orientamento conservatore (Samuel Huntington): ai giorni nostri, «in Europa occidentale, l’antisemitismo verso gli ebrei è stato in larga parte soppiantato dall’antisemitismo verso gli arabi». Certo, gli assassini dell’Isis colpiscono gli ebrei, assieme ai cristiani e agli sciiti, ma in Europa occidentale sono solo l’islam e i suoi seguaci a essere oggetto di un pregiudizio di massa, che talvolta investe anche l’alta cultura.

 

È possibile individuare delle «colpe» occidentali e/o musulmane in questi attentati?

È bene tener ferma una distinzione: i musulmani o islamici sono i seguaci di una religione, l’Occidente è una realtà geopolitica. Se si vuole analizzare il ruolo della religione, bisognerebbe procedere a una comparatistica delle «colpe» o responsabilità delle tre grandi religioni monoteistiche presenti in Medio Oriente: islam, ebraismo, cristianesimo. Non credo che la prima se la cavi peggio delle altre due. Come ho spiegato in un mio libro (Il linguaggio dell’Impero, Laterza), criticando duramente Oriana Fallaci, se gli antisemiti e i giudeofobi amavano mettere sul banco degli imputati Jahvé, oggi invece su quel banco gli islamofobi trascinano Allah. Pressoché immutato è rimasto il capo d’imputazione: ieri il Dio dell’ebraismo, oggi quello dell’islam è considerato l’ispiratore del fanatismo, dell’intolleranza, dell’odio teologico.

È preferibile concentrarsi sulla geopolitica. Alcuni anni fa, Huntington, in un celebre libro (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine internazionale) tracciava un eloquente bilancio dello scontro tra Occidente e mondo arabo-islamico: «Il Dipartimento della Difesa statunitense riferisce che nel quindicennio 1980-1995 gli Stati Uniti sono stati impegnati in diciassette operazioni militari in Medio Oriente, tutte dirette contro Stati musulmani. Non esiste un ruolino lontanamente paragonabile di operazioni militari statunitensi contro la popolazione di qualunque altra civiltà». In ogni caso, sempre secondo Huntington, il quadro strategico della regione ha subito radicali mutamenti: «La posta in gioco [della prima guerra del Golfo] era stabilire se il grosso delle maggiori riserve petrolifere del mondo sarebbe stato controllato dai governi sauditi e dagli emirati – la cui sicurezza era affidata alla potenza militare occidentale – oppure da regimi indipendenti antioccidentali in grado e forse decisi a utilizzare l’arma del petrolio contro l’Occidente»; fortunatamente, ora il Golfo Persico è «diventato un lago americano». Senonché, questo progetto incontra una resistenza inaspettata e crescente ed è chiaramente destinato al fallimento.

 

Esiste un nesso tra la crisi in Siria e quella in Ucraina?

Intanto, conviene notare una contraddizione così clamorosa da essere persino divertente. In Ucraina, sorvolando sul colpo di Stato da essi organizzato e riconosciuto come tale da autorevoli analisti (ad esempio Sergio Romano), gli Usa denunciano le interferenze della Russia; al tempo stesso, in modo aperto e dichiarato, Obama dà disposizioni perché sia armato e addestrato un esercito di ribelli chiamato a rovesciare in Siria il governo di al-Assad. Il primo nesso che balza agli occhi è questo: nonostante che non si stanchino di agitare la bandiera dell’universalismo, l’Occidente e il suo paese-guida si rivelano incapaci di enunciare norme e regole che siano vincolanti per tutti. Anche il secondo nesso è sufficientemente chiaro: il colpo di Stato in Ucraina si proponeva in definitiva di inglobarla nella Nato, in modo da far avanzare l’accerchiamento della Russia; la guerra per procura contro la Siria è parte integrante del tentativo (cui ho già accennato) di imporre in Medio Oriente il protettorato americano, al fine anche di rendere possibile il «pivot» in direzione dell’Asia e contro la Cina. Si tratta di due aspetti di un unico piano: prima che si accentui il loro declino, gli Usa tentano di perpetuare la loro egemonia mondiale, avvalendosi della loro permanente superiorità militare al fine di estendere e rafforzare il controllo sulle aree geopoliticamente decisive del pianeta.

 

Quali sono le conseguenze di queste crisi sull’Europa?

In conseguenza del formidabile sviluppo economico e tecnologico della Cina e dell’ascesa dei paesi emergenti, volge ormai al termine l’«era colombiana», il mezzo millennio di storia che, a partire dalla scoperta-conquista dell’America, ha visto l’Occidente assoggettare, schiavizzare e decimare la restante umanità. Nel mondo che si sta affermando non c’è più posto per il monopolio della tecnologia detenuto dall’Occidente e per la sua incontrastata egemonia mondiale; rapporti di eguaglianza tendono ad affermarsi tra le varie nazioni e tra le varie civiltà. È il risultato della rivoluzione anticoloniale mondiale che si è sviluppata a partire dall’ottobre 1917. Saprà accettare l’Occidente la fine dell’«era colombiana»? Avendo alle loro spalle una tradizione in cui è fortemente presente il mito della «nazione eletta da Dio» ovvero (in termini appena più laici) dell’unica «nazione indispensabile», gli Usa incontrano particolari difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione. Disgraziatamente, fiancheggiando Washington nelle sue sciagurate avventure imperiali, l’Europa ha dato prova di sconfortante subalternità e in tal modo ha visto accentuarsi il suo declino. Essa potrà contenere e risolvere la sua crisi, al tempo stesso economica e politica, solo se saprà stabilire un nuovo rapporto con i paesi emergenti e rompere in modo radicale con il suo passato coloniale e neocoloniale.

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