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sinistra

Una doverosa replica ad una risposta

Alcune note critiche all’articolo di Guglielmo Carchedi L'imperialismo oggi: che cos'è e dove va

di Antonio Pagliarone

In calce a questo articolo un primo provvisorio commento di Pagliarone, seguito da una replica di Carchedi

schiele129Punto Primo

Carchedi definisce l’imperialismo come “appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale”. Cosa significhi lo sa solo lui. Secondo gli esempi che fa (petrolio e bilancia commerciale in deficit) sembrerebbe che teorizzi l’imperialismo come appropriazione ossia l’aggressione (militare ed economica) per rapinare materie prime o chissà che altro). Innanzitutto vorrei ricordare a Carchedi che nell’opuscolo “Imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin riprende le tesi di Bucharin e di Hilferding per diffonderle alle masse. In esso si fa riferimento all’espansione del capitale nei paesi arretrati per la realizzazione di plusvalore grazie al lavoro e a materie prime a basso costo. Non si tratta di appropriazione pura e semplice ma di classici investimenti di capitale. Naturalmente a quel tempo la guerra mondiale rappresentava lo strumento per poter realizzare l’obiettivo della conquista di aree di egemonia. Purtroppo l’epoca delle guerre mondiali preconizzata da Lenin si è rivelata erronea. Dopo il Secondo Conflitto mondiale (in realtà prosecuzione del Primo) non abbiamo mai più visto, e grazie al cielo non subiremo mai più, una devastazione del genere a meno che Carchedi non voglia paragonare le “guerre” che sono seguite al conflitto planetario terminato nel 1945 ad un conflitto imperialistico, allora saremmo veramente alla frutta. Ma Carchedi ci fornisce una sua definizione: “Allora che cos'è l'imperialismo?  Se ci limitiamo all'aspetto economico, che è poi quello determinante, l'imperialismo è la concorrenza capitalista portata a livello internazionale.

Il suo scopo è l'appropriazione da parte dei capitalisti della nazione imperialista della ricchezza e del valore dai capitalisti delle nazioni dominate”. Quindi per Carchedi Imperialismo e concorrenza capitalista sono associati, ma che genere di concorrenza si intende? E’ concorrenza tra nazioni o tra settori produttivi? Come si fa a coniugare concorrenza con imperialismo? Carchedi confonde assieme concorrenza e ladrocinio (rapina) imperialistico. Cosa sia questa rapina e come si realizzi non lo spiega in alcun modo. Sappiamo solo che un produttore americano che si appropria di una parte del valore prodotto, poniamo, in Spagna per lui è imperialista. Ma sappiamo che qualsiasi produttore più avanzato si appropria naturalmente di una parte del valore prodotto da altri. E' precisamente questa la base degli extraprofitti che derivano dall'avere una maggiore produttività, sia che ciò si manifesti nel mercato interno sia che avvenga in quello mondiale. Altrimenti non ci sarebbe alcuna ragione per introdurre nuovi mezzi di produzione superiori a quelli degli avversari/concorrenti.

Ormai le corporation non hanno più una nazione e si rivolgono sul mercato mondiale senza alcun problema. Esiste la concorrenza tra capitali, sì, ma dei settori produttivi, e non c’è nulla di imperialistico in ciò. E’ un fenomeno normale nel modo di produzione capitalistico. Ma Carchedi insiste e continua affermando “Le singole nazioni che tentano di rompere la loro dipendenza possono non avere le necessarie dimensioni. Esse quindi devono raggruppare attorno a se altre nazioni in un rapporto di dominio e cioè devono formare blocchi imperialisti articolati al loro interno che si contrappongano ad altri blocchi imperialisti”. Una vecchia cantilena cantata ormai da più di un secolo. Siamo sommersi da imperialismi ma se siamo tutti imperialisti allora nessuno è imperialista.

Ora Carchedi mi deve spiegare dove si è verificato attualmente un fenomeno del genere. Per quanto riguarda il petrolio mi spiace ma vorrei segnalare (anche se non è corretto farlo ma le necessità di spazio e di tempo lo impongono) gli ottimi lavori sull’argomento scritti da Cyrus Bina (uno dei maggiori esperti sul petrolio che fortunatamente è marxista) di cui pubblicheremo un suo ottimo scritto (inviatomi direttamente) su Countdown studi sulla crisi n 2 nel quale egli dimostra la trasformazione subita dal settore petrolifero dopo la crisi del 73 verso una dinamica concorrenziale come qualsiasi altro settore di produzione a livello globalizzato. Mi permetto poi di segnalare il mio articolo Dalla Fame di speculazione alla speculazione sulla fame apparso nella raccolta Mad Max Economy pubblicato nel 2008 da Sedizioni nel quale cerco di dimostrare che la variazione del prezzo relativo a materie prime e prodotti agricoli sia condizionato dalla speculazione sui futures nel mercato di Chicago. Purtroppo è vero che la sinistra (che è diversa nelle sue argomentazioni) e l’ultrasinistra per le loro presunte analisi hanno sempre fatto riferimento alla modesta pubblicistica “borghese” con le sue manie geopolitiche e le minacce di guerra effettiva e commerciale atte ad esaltare il terrorismo ideologico che pervade la mente dei lavoratori. Infine se dovessimo considerare dediti all’imperialismo tutti i paesi con deficit della bilancia commerciale allora staremmo freschi, a parte qualcuno ci troveremmo in una ammucchiata di imperialisti dediti ad una lotta senza quartiere.

Purtroppo il capitalismo ha definitivamente superato i confini nazionali ed è divenuto il modo di produzione dominante sul globo terrestre e la finanza ha mostrato un internazionalismo eccezionale dalla quale non si salva nessuno, nemmeno la tanto esaltata economia cinese.

Ma poco prima Carchedi ci informa che “c'è anche una terza forma di appropriazione di ricchezza, quella che opera attraverso la competizione tecnologica. Essa è ancora più importante oggigiorno quando lo sviluppo tecnologico assume ritmi sempre più frenetici”. Purtroppo Carchedi cade anche lui nel Rifkinismo o se volete nel Rampinismo (versione italiana del noto scrittore di volumetti da lettura estiva), ossia in coloro che hanno il mito delle nuove tecnologie che fanno risparmiare lavoro. E lo sottolinea immediatamente con la frase

“Le innovazioni tecnologiche rimpiazzano lavoro con mezzi di produzione. Il capitalista innovatore aumenta il suo prodotto ma se il prodotto è generato con meno lavoro, il valore del maggiore prodotto è minore. Invece gli altri capitalisti con tecnologie meno avanzate producono un output minore ma con più lavoro e quindi con più valore incorporato”.

 Ora, mi spiace per Carchedi ma le cose stanno decisamente in maniera diversa. Le famose Nuove tecnologie che caratterizzano la nostra epoca High Tech sono i mezzi informatici e la microelettronica che non hanno assolutamente rivoluzionato il processo di produzione che rimane sostanzialmente quello della cosiddetta epoca “fordista”. A tale proposito sto cercando di produrre un lavoro empirico sulla questione dal titolo “Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività” che mi premurerò di fare avere a Carchedi nella stesura definitiva. Ma basterebbe l’articolo di Laurence Reynolds e Bronislaw Szerszynski “Neoliberismo e tecnologia: Innovazione permanente o crisi permanente?"1 che uscirà prossimamente su Countdown n 2. Per il momento voglio sottolineare che gli investimenti in capitale fisso stanno declinando in tutte le economie capitaliste (prime fra tutte quella degli USA che hanno la palma d’oro dell’imperialismo) mentre il grado di invecchiamento del capitale fisso sta procedendo inesorabilmente da molti decenni come si può notare chiaramente nel grafico sottostante.

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Età media (anni) degli elementi del capitale fisso negli USA (1936-2014)

Dal grafico si nota che l’età media delle strutture e degli equipaggiamenti dopo aver subito una diminuzione dal dopoguerra fino alla fine degli anni 70, grazie ad un continuo grado di sostituzione, a partire dagli anni 80 sino ad oggi, risulta evidente che la loro sostituzione ha subito un rallentamento per cui la loro età media è passata dal valore minimo dei primi anni 80 ad incrementi a pari al 38.3% ed al 35.6% rispettivamente.

 

Punto Due

Carchedi nel suo articolo afferma

In Germania la produttività cresce mentre le ore di lavoro calano. Allora, la crescita del PIL è dovuta alla maggiore efficienza, cosa che per altro non esclude un maggior grado di sfruttamento. Ma dato che il tasso di sfruttamento è aumentato anche in altri paesi, sarebbe erroneo attribuire la crescita del PIL a questo fattore”.

Ma nella replica alle mie critiche su questo punto si corregge ed afferma “Ovviamente la produttività può crescere a un ritmo decrescente. Cresce in Germania e scende in Italia.  Il resto delle osservazioni di Pagliarone è ugualmente irrilevante ai fini della mia tesi”. E no caro Carchedi, gli incrementi di produttività (che non può diminuire ma solo crollare momentaneamente durante una crisi) della Germania declinano, come in altri paesi, anzi peggio di altri se prendiamo come esempio eclatante quello della produttività della Grecia che ha subito incrementi superiori a quelli del Quarto Reich della Merkel:

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Grecia: Salari, produttività e quota dei salari
(quota dei salari in percentuale, Produttività e salari reali base 100 del 1990)

Riporto nuovamente il grafico: Germania. Saggio netto di accumulazione e tasso di variazione della produttività del lavoro. 1971-2012 per poter fare una sorta di confronto.

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Vorrei inoltre sottolineare che non c'è nessuna correlazione fra tasso di aumento della produttività nei vari paesi dell'Eurozona e attivi nazionali della bilancia commerciale in particolare la Germania ha il maggior attivo ma è fra quelli che con i più bassi tassi di incremento della produttività. Quindi secondo la logica di Carchedi la Germania avendo un attivo della bilancia commerciale non può partecipare all’abbuffata imperialista.

Il confronto non va tanto fatto fra Germania e Italia ma fra Germania e tutti gli altri paesi. Fra le nazioni del mondo, la Germania è fra quelle che hanno conosciuto il più accentuato e lungo declino nel rapporto fra investimenti in capitale fisso e profitti. Alla faccia del mito tedesco che si è retto sul fatto che la grande Germania ha potuto nascondere tagli al salario ed al welfare da lungo tempo. Un serio paese imperialista, secondo il modello leninista, dovrebbe mantenere la propria classe operaia in condizioni ottimali così da poter sostenere la propria nazione nello scontro con altre potenze. Non è così?

La produttività poi non si misura e si stima come fa Carchedi, che ottiene il meraviglioso risultato di far sembrare una recessione anche una diminuzione dalla produttività, ma in tutt'altro modo, ossia eliminando le fluttuazioni brevi dovute alle variazioni del venduto e dell'invenduto.

Aggiungo il grafico sottostante sul saggio del profitto e la quota dei profitti non accumulati per la Germania che è illuminante sullo stato dell’economia tedesca. Ripropongo a Carchedi la lettura dell’ottimo saggio di Giussani “L’euro e la crisi dell’eurozona” apparso sul n. 1 di Countdown, studi sulla crisi che fa carta straccia di tutti i luoghi comuni sull’argomento.

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Punto 3

Carchedi ci tiene a sottolineare che

“si noti che io mi riferisco al periodo susseguente all'introduzione dell'Euro per sostenere che la causa della crisi in Italia non è tale introduzione ma lo stato arretrato (relativamente a quello della Germania) dell'apparato produttivo dell'economia Italiana, contrariamente a quanto accettato dal quasi tutta la 'sinistra' Italiana”.

Innanzitutto occorre precisare che solo certa sinistra “ufficiale” sostiene questa bestialità utile per creare il mito della Germania che ha avuto presa su tutti i milieu che si occupano di queste cose ma anche fra i lavoratori salariati così è più facile far digerire loro lo sfruttamento mastodontico in questa rincorsa al cavallo tedesco, con buona pace dei marxistoidi che fanno da megafono alla modesta pubblicistica ufficiale.

Comunque quello che ha virtualmente fatto saltare l'eurozona e messo in difficoltà i Piigs non è lo squilibrio commerciale bensì gli immani movimenti a breve di capitali. Pensare che l'euro, che non è una divisa costruita come le altre (Dollaro, Pound, Yen, etc) non c'entri niente coi casini dell'eurozona fa piuttosto ridere. Uscire dall'euro "non risolve i problemi" (qualsiasi cosa questa espressione possa voler dire) ma ancor meno restarci dentro. Supponiamo che in un paese avvenga che si metta in moto un processo rivoluzionario che metta a capo a qualche governo provvisorio e a qualche forma di potere dei lavoratori. Si pensa forse che tale paese possa restare nell'euro? Per cui il problema oggi non è uscire o meno dall’euro. Ormai la situazione economica globale è degenerata a tal punto che le famose “scelte” politiche servono solo a fare propaganda di bassa leva per catturare qualche voto da gente che ormai si rifiuta sempre più di compilare una scheda elettorale. Lo stato comatoso dell’economia mondiale derivato dalla finanza speculativa e dalla stagnazione della produzione (se non una nuova Great Recession sempre più simile ad una Grande Depressione di lunga durata) ormai non consente ad alcun partito o organizzazione sindacale di poter intervenire con scelte adeguate. Persino la BCE ha dimostrato una impotenza disarmante dopo i suoi interventi eccezionali che non hanno prodotto praticamente niente. Ormai i sistemi politici sono tutti asserviti alla dinamica economica in atto (Grecia docet) e non possono più tornare ad avere il ruolo che noi poveri vecchietti abbiamo sperimentato quando eravamo giovani nell’ era geologica postbellica. Ottimo a tale proposito l’articolo di Wolfang Streeck “La Politica del debito pubblico: neoliberismo, sviluppo capitalistico e la ristrutturazione dello stato”2 che verrà pubblicato in uno dei prossimi numeri di Countdown, di cui voglio riportare la frase finale:

“Perché le nuove oligarchie dovrebbero essere interessate alle future capacità produttive dei loro paesi ed alla loro stabilità democratica se, a quanto pare, possono essere ricchi senza di questa, spostando qua e là il denaro sintetico prodotto per loro a costo zero da una banca centrale per la quale il limite è il cielo, distraendone in ogni suo passaggio il peso delle tasse e di stipendi senza precedenti, i bonus ed i profitti purché siano imminenti - per poi lasciare il loro paese ai rimasugli dei suoi progetti e ritirarsi in qualche isola di loro proprietà?”

3 Febbraio 2016.

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Note

1 La versione finale di questo paper è stata pubblicata come Capitolo 1 del volume Neoliberalism and Technoscience: Critical Assessments, ed. Luigi Pellizzoni & Marja Ylönen, Farnham: Ashgate, 2012.

2 Paper di discussione del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung, Köln e Max Planck Institute for the Study of Societies, Cologne Luglio 2013.

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Commento critico a: Guglielmo Carchedi, L'imperialismo oggi: che cos'è e dove va

di Antonio Pagliarone

http://www.sinistrainrete.info/estero/6501-guglielmo-carchedi-l-imperialismo-oggi-che-cos-e-e-dove-va.html

Non si capisce cosa c'entrino i riferimenti all'imperialismo di Lenin con il resto dell'articolo. Viviamo nel nuovo millennio e si insiste nel blaterare di imperialismo quando ciò che sta accadendo mostra il totale stravolgimento delle banalità del passato. Ma oltre a ciò viene presentato il seguente grafico che illustrerebbe l'andamento della produttività in Germania e Italia.

Si tratta di una clamorosa cantonata.

La produttività in Germania ha avuto negli ultimi anni una fra le crescite più basse del mondo (vedi ad es. Lapavitsas e vedi il grafico sottostante a quello che Carchedi ha tratto dall'articolo di Giussani sull'Eurozona apparso sul n 1 di Countdown, dove ci sono assieme il saggio di accumulazione netto tedesco e il tasso di variazione della produttività della Germania - i quali, guarda caso, vanno insieme-, che sono anche più basse della Grecia. Esattamente come l'accumulazione in capitale fisso che è pressochè zero. Cose che sono state notate da tutti al mondo.

Tasso di crescita della produttività del lavoro (PIL/L) in Italia e Germania
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Germania. Saggio netto di accumulazione e tasso di variazione della produttività del lavoro. 1971-2012.

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Suggerirei anche di visionare il grafico 12 relativo agli investimenti netti in Capitale fisso in Germania. 1951-2012 presente sempre nell'articolo di Giussani “L’Euro e la crisi dell’Eurozona”.

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Giussani così commenta: “La diminuzione del saggio del profitto può spiegare il declino del saggio di accumulazione solo fino all’inizio degli anni ’80 (grafico 9). Dopo, il movimento del saggio di accumulazione assume una sua propria fisionomia discendente che lo porta a formare nel tempo una notevole massa di capitale monetario eccedente (grafico 11).L’interessante sarebbe capire come questo capitale è stato impiegato. Ma la Germania è altra cosa dagli Stati Uniti, e, in omaggio alle sue grandi tradizioni di libertà, tolleranza, circolazione delle idee, spirito critico e efficienza, non possiede statistiche pubbliche degne di tal nome, ergo dei flussi di capitale e reddito dell’economia tedesca sappiamo poco o nulla”

Suggerisco una lettura di tutto il poderoso articolo di Giussani che smentisce tutti i luoghi comuni sulla zona Euro che circolano regolarmente. Leggiamo meno i quotidiani pseudo economici e cerchiamo di andare a fondo alle questioni.

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Risposta di Guglielmo Carchedi

Sorvolo sul linguaggio usato da Pagliarone che invita alla rottura più che al dialogo. Comunque reagisco alla sua critica nell'interesse di uno scambio di idee tra compagni purché purificato da un certo linguaggio e tono.

Primo, continuo a "blaterare" di imperialismo perché l'imperialismo, ahimè, esiste. L'imperialismo è appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale. Paglione vorrebbe negare che questo sia il caso dell'appropriazione del petrolio del medio-oriente o della bilancia commerciale USA costantemente in rosso da quasi mezzo secolo? Perché non entra nel merito di queste questioni invece di decretare "che ciò che sta accadendo mostra il totale stravolgimento delle banalità del passato"?

Secondo, a proposito di cantonate, Pagliarone nega che vi sia stato un incremento della produttività in Germania (PIL/ore di lavoro) sostenendo che il tasso di variazione di tale incremento è discendente (si veda il secondo grafico nel suo commento critico: produttività, tasso di variazione), il che c'entra come i cavoli a merenda. Ovviamente la produttività può crescere a un ritmo decrescente. Cresce in Germania e scende in Italia. Se continuasse a crescere a un ritmo decrescente, a un certo punto scenderebbe. Ma questo non è il caso nel periodo preso da me in considerazione. Solo questo punto sarebbe sufficiente per smontare la critica di Pagliarone.

Terzo, io mi riferisco al periodo susseguente all'introduzione dell'Euro per sostenere che la causa della crisi in Italia non è tale introduzione ma lo stato arretrato (relativamente a quello della Germania) dell'apparato produttivo dell'economia Italiana, contrariamente a quanto accettato da quasi tutta la 'sinistra' Italiana. L'Euro si è innestato su tale debolezza, aggravandola ulteriormente.

Quarto, io critico la tesi per cui l'uscita dell'Italia dall'Euro sarebbe positiva perché, come si dice, si potrebbe ricorrere di nuovo alla svalutazione competitiva. Sostengo che essa avvantaggia i capitalisti esportatoti ma contribuisce all' aggravarsi della crisi nel paese esportatore. Data la discussione attuale sulla relazione tra la crisi e l'euro e dato l'abbraccio mortale tra 'sinistra' e Keynesismo, è su questi punti che Pagilarone avrebbe dovuto esprimersi.

Saluti. Carchedi.

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