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mondocane

USA-Italia-Etiopia, Yemen, Eritrea

I criminali, le vittime, il target e rispettivi corifei

di Fulvio Grimaldi

E a Ventotene tre frodatori, eredi di tre frodatori, con i loro corifei

OromoMedaglia d’argento della maratona, medaglia d’oro dell’eroismo

Il  drammatico, coraggioso, nobilissimo gesto della medaglia d’argento etiopica della maratona di Rio ha squarciato non solo l’ipocrita e cinica immagine dello sport affratellante e pacificante, in effetti mercato mafioso e strumento di guerra fredda (vedi la montatura del doping russo). Ha squarciato il velo dietro al quale l’Occidente e l’Italia in prima persona nascondono, a vantaggio di rapine e profitti, l’orrenda dittatura e i sistematici genocidi compiuti dal regime di Addis Abeba nei confronti dei vari popoli del Corno d’Africa. Tra i quali i somali e, sottoposti ad aggressioni latenti o attive da oltre sessant’anni, gli eritrei.

L’eroico Feyisa Lilesa, con i polsi levati alti e stretti nel gesto delle manette all’arrivo della maratona, nello sbatterli sul muso dei mercanti e boccaloni olimpici e sulla coscienza del mondo e, a seguire, con le interviste e denunce, ha determinato anche il suo destino: schiacciato nella scelta tra ritorno in patria per raggiungere in carcere i suoi famigliari Oromo o, più probabile, essere ucciso, e l’esilio perenne, quanto meno fino alla caduta del terrorismo di Stato che gestisce l’Etiopia ininterrottamente dai tempi di Haile Selassiè, l’amerikano, Mengistu, il sovietico-cubano, Meles Zenawi e, ora, Haile Mariam Desalegn, di nuovo amerikani.

Un terrorismo di Stato che, a vantaggio delle classi dirigenti,  Amhara prima e poi Tigrina, ha sgovernato il paese reprimendo e decimando  popoli e opposizioni interne e muovendo guerra ai vicini per conto dei mandanti Usa e Israele, di cui l’Etiopia è diventato il maggiore caposaldo coloniale nel continente.

 

Martiri d’Africa e chi ne succhia il sangue

Il gesto temerario e disperato di Feyisa, emulo di quello di Tommie Smith e John Carlos, con il guanto nero alto sul podio dei Giochi del 1968, per denunciare la foia razzista del potere bianco contro la comunità afroamericana (oggi rilanciata dall’alto con la carta bianca per violenze e omicidi affidata alla polizia più militarizzata e brutale del mondo), ha anche un altro bersaglio, oltre alla dittatura del fantoccio USraeliano Desalegn. Un bersaglio italiano che si chiama Salini-Impregilo. Un bersaglio accuratamente occultato, nella solita sintonia strategica dei velinari dell’imperialismo, da “Repubblica”, che riduce l’epocale gesto a questa frase “…Il polemico etiope Lilesa che passa sotto il traguardo gesticolando”, come dal “manifesto”, che ci risparmia qualsiasi analisi del carcinoma etiopico  e del contributo tossico italiano, limitandosi alla foto e alla denuncia dell’ “ondata repressiva in corso contro gli Oromo”, punto.

Il giornale del sionista De Benedetti e del senile vaticinatore di Stati ed Europe di polizia, Scalfari, fa il suo mestiere di mestatore a favore della triade Cia, Mossad, MI6. Il giorno prima aveva nascosto in una pagina, tutta impegnata a sbertucciare il monumento a Slobodan Milosevic che i serbi vogliono erigere a Prokuplje, la notiziola che il presidente jugoslavo era stato assolto, 11 anni dopo la sua uccisione nel carcere, dal Tribunale dell’Aja, con implicita ammissione che le accuse di genocidio erano infondate e che le stesse andavano rivolte contro chi aveva ucciso la Jugoslavia e poi la Serbia. Ma il suo mestiere lo fa anche “il manifesto”,  visto che deve rispondere, oltre che al governo che lo foraggia, alle più ciniche predatrici del business domestico e internazionale che lo tengono in vita – e pour cause – con la pubblicità.

 

I crimini della Salini

Dal 2006 la Salini Costruttori, gigante italiano del ramo che da decenni  imperversa in Etiopia devastando ambienti e provocando danni sociali ed economici apocalittici (centrale idroelettrica di Beles che ha distrutto l’area del Lago Tana, a suo tempo cantato dagli invasori del maresciallo Graziani), va erigendo la più grande diga dell’Africa, la GIBEIII, nella vale del fiume Omo (750 km di vita per 500mila abitanti, agricoltori di sussistenza, cacciatori e pescatori, che campano delle sue periodiche alluvioni), in terra Oromo. La valutazione ambientale è stata fatta da fiduciari italiani collegati alla stessa Salini.

Tutto il territorio etiope è preda di occupanti, speculatori, predatori, dal land grabbing di cinesi e sauditi, alle decine di basi e presidi militari statunitensi e israeliani, agli interventi di sviluppo delle multinazionali occidentali, italiane da sempre in prima linea.

 

Diga Salini GIBE III

La diga GIBEIII è un mostro in calcestruzzo con un bacino che sommergerà decine di km quadrati di terra agricola su cui vive una popolazione che ora verrà ristretta in campi di “re-insediamento”, per produrre 6.500Wh l’anno, da esportare in massima parte al Kenya, altro pilastro Nato e Usa in Africa. Significa la fine di quell’arteria vitale della regione che è il fiume Omo, come anche del lago Turkana, a cavallo del confine con il Kenya, che dall’OMO riceve il 90% delle sue acque. L’impatto sui delicati ecosistemi rivieraschi con un patrimonio di biodiversità unico nella regione e, di conseguenza, sulle comunità indigene che vivono lungo la sponda del fiume, sarà letale. Il ciclo naturale delle esondazioni, fondamentali per le coltivazioni, per la pastorizia e per le foreste, ne verrà interrotto e le economie di sussistenza collasseranno e provocheranno la deportazione forzata di intere tribù, i Mursi, i Bodi, i Kwengu.

 

Genocidio di regime

Perché la Salini possa portare a termine l’impresa, il regime esercita sulle popolazioni indicibili violenze. Chi protesta, chi resiste alle deportazioni viene legato agli alberi e fucilato, adulti e bambini gettati nei fiumi, vittime lasciate in pasto alle bestie selvagge, villaggi bruciati. Un regime dell’orrore, una società italiana complice, onorati da Mattarella, Renzi e dal capogrupo PD a Strasburgo Pittella con visite e salamelecchi ad Addis Abeba e sui luoghi dello scempio.

L’impegno del regime a reprimere e devastare, praticato anche nelle elezioni dai ricorrenti brogli scandalosi che vedono chi protesta gettato nelle carceri o fucilato per strada, non gli impedisce di gettarsi nelle avventure militari subimperialiste commissionategli dai mandanti Usa e UE. Ripetute invasioni della Somalia, cui l’Etiopia aveva già sottratto l’Ogaden, a cui sono seguiti i fallimentari interventi Nato, oggi affidati a una forza mercenaria dell’Unione Africana e ai raid dei droni Usa che, tuttavia, non riescono ad aver ragione di una resistenza islamica, gli Shabaab, dal forte sostegno popolare. La si vorrebbe far passare per una filiazione dell’Isis, dalla quale però si stacca nettamente per non essere una creatura USraeliana e per colpire esclusivamente i colonialisti e i loro proconsoli.

L’altro bersaglio affidato alle cure dello Stato canaglia mercenario dell’Occidente è l’Eritrea, unico Stato del continente a non aver mai accettato una presenza militare straniera, o qualsiasi altra forma di collaborazionismo o dipendenza dai grandi organismi economici, finanziari e militari del mondialismo. La guerra di autentico sterminio che da 18 mesi l’Arabia Saudita sta conducendo contro lo Yemen, grazie alla supervisione Usa (ora attenuata formalmente di fronte alla dimensione terrificante del genocidio, favorito oltrechè dalle bombe prodotte in Italia, dal blocco di cibo, acqua, farmaci), senza riuscire a piegare la resistenza degli sciti Houthi, ancora in controllo della maggior parte del paese, ha per obiettivo strategico anche l’Eritrea.

 

Yemen oggi, Eritrea domani

Nei 18 mesi che vissi in Yemen tra il 1967 e il 1968,  come corrispondente per il Medioriente di The Middle East e di New African, prima di esserne espulso dopo che un colpo di Stato aveva fatto fuori l’illuminato e progressista presidente Ibrahim el Hamdi,  della cui amicizia mi onoravo, le provocazioni saudite contro quella che consideravano una propria provincia erano costanti. Si ridussero solo quando salì al potere un fantoccio degli Usa, Ali Saleh, poi spazzato via dall’insurrezione di massa del 2011. Contro il consolidamento della rivoluzione, guidata dagli Houthi, col pretesto che si trattava di un’estensione dell’influenza iraniana nella penisola arabica, gli Usa prima innestarono i soliti fattori eversivi, Al Qaida e Isis, anche qui accompagnati dai loro droni stragisti. Vistone l’insuccesso, si attivarono i sauditi, complice il silenzio mediatico internazionale. Ali Saleh e l’ex-esercito nazionale sono ora alleati degli Houthi, il che conferisce alla coalizione maggiore legittimità di quella vantata dal mai eletto presidente-fantoccio dei sauditi, Abdel Rabbo Mansur Hadi. Intanto continuano i raid dell’aeronautica saudita, quasi esclusivamente sui civili nelle case, nei villaggi, nelle scuole e negli ospedali. Le 6.700 vittime di un stima riduttiva possono dire grazie anche alle bombe fabbricate in Italia ed esportate da Cagliari. E’ dei giorni scorsi l’offerta di Saleh e degli Houthi  ai russi dell’uso di aeroporti e porti yemeniti. E' dell'altro venerdì la manifestazione a Sanaa di 1 milione di yemeniti a dimostrazione che il popolo non si piega ai satrapi cavernicoli sauditi e ai loro mandanti.

Dallo Yemen, con barche, ero passato ripetutamente in Dancalia, la provincia eritrea che costeggia il Mar Rosso. Lo Yemen allora costituiva un utile retroterra strategico e logistico alla guerra di liberazione eritrea contro l’occupante etiopico. Non so per quanto lo sia rimasto, anche dopo la vittoria della trentennale lotta nel 1991. Vittoria che non indusse l’Etiopia a rassegnarsi. Tra il 1998 e il 2000 condusse altre aggressioni contro il vicino insofferente all’inserimento nell’ordine neocoloniale occidentale. Un ultimo attacco è di pochi mesi fa, a giugno, nella zona di Tzorona, dove ero passato solo pochi giorni prima. Attacco respinto, come tutti gli altri, da una nazione di 5 milioni di abitanti aggredita da una di 90 e con il più potente esercito d’Africa.

 

L’ombelico del mondo

Yemen, Somalia ed Eritrea sono i punti geopoliticamente e geoeconomicamente più nevralgici sulla linea divisoria tra gli emisferi Nord-Sud, Est-Ovest. Costeggiano lo sbocco del Mar Rosso verso il Canale di Suez a Nord e verso lo Stretto di Bab el Mandeb a Sud, da dove si va nel  Mare Arabico, nel Golfo Arabo-Persico e nell’Oceano Indiano. Per quella arteria coronarica passa gran parte del sangue che alimenta il cuore del capitalismo, petrolio e merci. Inconcepibile che Yemen, Somalia ed Eritrea vadano per la propria strada senza ottemperare ai diktat di chi quelle vie le considera il proprio cordone ombelicale (e lo sono).

Ci sono molti motivi per temere che la programmata obliterazione dello Yemen, cancellazione dalla Terra di un popolo poverissimo, ma di enorme dignità e ricchezza culturale, preluda a un trattamenti simile all’Eritrea. Il frastuono mediatico e le sedicenti commissioni d’inchiesta ONU sui diritti umani, colmi di invenzioni, menzogne sesquipedali, testimonianze fasulle, calunnie, attribuzioni delle solite atrocità, sono ciò che di solito lastrica la strada ai cingoli dell’Impero. A noi qui il compito di smascherare e combattere governanti felloni che, dimentichi del debito che l’antica potenza coloniale ha nei confronti di un popolo che per mezzo secolo ha occupato e depredato, si schierano al fianco del regime-canaglia cui è affidata la rivincita su quel popolo, o almeno la sua destabilizzazione in vista del metodo risolutivo imperialista R2P, Responsibility To Protect. Senza contare i lutti e le distruzioni che questo schierarsi comporta, per merito di predatori come Salini,  per le popolazioni dello stesso regime canaglia.

 

Ventotene, si rinnova il complotto

L’auspicio che l’attuale governo italiano possa redimersi dalle responsabilità che ha nei confronti dell’Eritrea, considerato contro lo scenario di Ventotene e del rito consumato lì, sulla portaelicotteri Garibaldi, dai tre fraudolenti eredi dei tre fraudolenti autori della celebrata Dichiarazione che avrebbe dato il via all’aborto dell’Europa unita, non pare guadagni credibilità. L’intera kermesse di tre manigoldi al servizio degli Usa, ancora groggy per la splendida mazzata datagli in capo dal popolo britannico, non ha avuto che un tema: abbattere ogni intralcio tipo Brexit, o altra forma di contestazione popolare. Cose  rese prevedibili dalla scelta, irrinunciabile perché strategica, del trasferimento di ricchezza dal basso al vertice e, dunque, da annientare con gli strumenti sempre più coordinati dell’intelligence, della repressione (chiamata sicurezza antiterrorismo), della potenza militare da proiettare, facendo dell’industria militare europea la ciambella di salvataggio del neoliberismo, come succede negli Usa. Di questo s’è parlato sulla nave che insulta colui a cui ne hanno rubato il nome. Non per caso una nave da guerra.

Come dettato dalla BCE e da JPMorgan, meno democrazia, costituzioni evirate, polizia e forze armate in ordine pubblico, sorveglianza totale, guerre a gogò. Mi viene l’uzzolo di tornare anche qui al quotidiano salafita che, per la penna di tale Luciana Castellina, non soddisfatta di aver offuscato la sua serena vecchiaia con una disordinata passione per tale Tsipras. Non dovrebbe più essere un segreto per nessuno che il progetto unitario europeo fu concepito dagli Usa, promosso, diffuso e finanziato dalla Cia fin dal 1948 e che i suoi “padri nobili” non erano che sicari di un piano che avrebbe portato a un’Europa antidemocratica, sotto controllo economico, politico e militare Usa, privata dei suoi Stati nazione e, dunque, delle costituzioni democratiche nate dalla lotta antifascista. Da cui i disastri presenti, la subalternità totale a Washington, le politiche antidemocratiche e anti-operaie, la guerra alla Jugoslavia, le imprese neocoloniali, il terrorismo.

 

Garibaldi contro Spinelli

Castellina cita con devozione e commozione la magna charta di Spinelli e soci a Ventotene. A sua attenuante rilevo che forse non l’ha letta. Come purtroppo non l’ha letta quasi nessuno di noi. Sennò, altro che Brexit! Ecco qua:

Noi vogliamo lo Stato Federale Europeo… Il popolo non sa mai con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie. Coi suoi milioni di teste non sa orientarsi. E allora ci vuole una dittatura che dà le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle informi masse. Attraverso questa dittatura si forma il nuovo Stato e intorno a esso la nuova vera democrazia” (grazie a Marco Palombi su Il Fatto di avercelo ricordato).

E, cari amici, non era certo quella del proletariato, l’unica giustificabile, la dittatura che avevano in mente gli infiltrati di Ventotene. Dato che “le masse sono informi e non sanno mai cosa volere e cosa fare”. Mussolini non la pensava diversamente. E neppure il boss della criminalità organizzata europea, Juncker.

E invece sentite qua come la pensava Garibaldi:

I governanti sono generalmente cattivi, perchè d’origine pessima e perlopiù ladra. Essi, con poche eccezioni, hanno le radici del loro albero genealogico nel letamaio della violenza e del delitto”.

E questi cialtroni si sono permessi di chiamare con il suo nome una nave da guerre coloniali, “un letamaio della  violenza e del delitto”, una piazza d’armi di tre briganti, tre somari, un, due, tre…..

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