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marx xxi

Siria: chi sono i criminali di guerra

di Domenico Losurdo

In questi giorni una sistematica campagna di disinformazione di cui sono protagonisti in particolare USA, Gran Bretagna e Francia, bolla quali «criminali di guerra» Assad e Putin. È la preparazione multimediale dell’ulteriore scalata dell’aggressione contro la Siria a cui mirano Obama (appoggiato e stimolato da Hillary Clinton) e gli alleati e vassalli di Washington. Per chiarire chi sono i veri criminali di guerra riporto (con nuovi sottotitoli) quello che ho scritto in miei due recenti libri (La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, 2014; Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, 2016), basandomi per altro su fonti esclusivamente occidentali. La scalata a cui si prepara l’imperialismo potrebbe avere conseguenze tragiche per la pace mondiale. È per sventare questo pericolo che occorre mobilitarsi sin d’ora (DL)

gaza 6 750x4701. Guerra civile o aggressione degli USA (e di Israele)?

Prima di essere travolta dalla catastrofe che continua a infuriare mentre io scrivo, la Siria era considerata un’oasi di pace e di tolleranza religiosa in particolare dai profughi irakeni che a essa approdavano in fuga dal loro paese, investito dagli scontri e dai massacri di carattere religioso e settario nei quali era sfociata l’invasione statunitense. Cos’è avvenuto poi? È scoppiata una guerra civile per cause del tutto endogene? In realtà, prima ancora della seconda guerra del Golfo, i neoconservatori chiamavano a colpire la Siria che ai loro occhi aveva il torto di essere ostile a Israele e di appoggiare la resistenza palestinese (Lobe, Oliveri 2003, pp. 37-39).

Di questo progetto di vecchia data si sono subito ricordati gli analisti più attenti che si sono occupati dei più recenti sviluppi della situazione: già da un pezzo la Siria era stata inserita dai neoconservatori nel novero dei paesi «considerati un ostacolo alla ‘normalizzazione’» del Medio Oriente; «nell’ottica dei neoconservatori, se gli Stati Uniti fossero riusciti a provocare un cambio di regime a Baghdad, Damasco e Teheran, la regione, soggetta ormai all’egemonia congiunta degli Stati Uniti e di Israele, sarebbe stata finalmente ‘pacificata’» (Romano 2015, p. 74). Peraltro, un anno prima che la «Primavera araba» raggiungesse la Siria – ammette o si lascia sfuggire il «New York Times» – «gli USA erano riusciti a penetrare nel Web e nel sistema telefonico» del paese. Per far che? Iniziava l’armamento della cosiddetta «opposizione laica e moderata», il cui leader – a riconoscerlo era sempre l’autorevole quotidiano – non era più in Siria da «svariati decenni» (Friedman 2014). A entrare in azione non erano solo gli oppositori rientrati dall’Occidente e da esso incoraggiati, finanziati e armati. Il regime di Bashar al-Assad – mi avvalgo sempre delle informazioni della stampa statunitense – era «colpito da cyber attacchi assai sofisticati» (Sanger, Schmitt 2015). Ma tutto ciò ancora non bastava. E non bastavano neppure le minacce di ricorso alla forza militare provenienti da Washington: l’armamento dell’opposizione più o meno «moderata» diveniva esplicito e massiccio. In realtà, a essere appoggiati o assistiti non erano solo i «moderati». Come rivela «The Wall Street Journal», anche i «combattenti» dei gruppi islamisti più radicali e feroci, confluiti poi nell’ISIS, erano «regolarmente» curati «negli ospedali di Israele», che invece bombardava le installazioni militari della Siria (Trofimov 2015). Certo, le cancellerie e i media occidentali continuano a parlare di «guerra civile», ma può essere definita «civile» una guerra che è stata programmata a migliaia di chilometri di distanza quasi un decennio prima del suo scoppio, che (per riconoscimento universale) vede la partecipazione di decine di migliaia di combattenti stranieri, affluiti in Siria grazie alla complicità di paesi circostanti alleati dell’Occidente e impegnati a rifornire quei combattenti di armi e denaro? In realtà, nonostante le forme nuove da essa assunte, non è difficile individuare la guerra di aggressione, il cui carattere neocoloniale risulta confermato se non altro dal fatto che il calpestamento della sovranità nazionale del piccolo paese viene proclamato e messo in atto in modo sovrano senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, semplicemente in base alla legge del più forte.

 

2. I ribelli armati dall’Occidente e il ricorso alle armi chimiche

Nel marzo 2014, Seymour M. Hersh, un giornalista statunitense insignito del prestigioso premio Pulitzer, faceva importanti rivelazioni a proposito del ricorso alle armi chimiche verificatosi in Siria il 21 agosto dell’anno prima: no, i responsabili di tale infamia non erano stati i dirigenti di quel paese, bensì i «ribelli» appoggiati dalle monarchie reazionarie del Golfo Persico, alleate all’Occidente, e dalla Turchia, un paese membro della NATO e principale protagonista della provocazione e della messa in scena, che avrebbe dovuto sollevare contro i dirigenti siriani un’ondata d’indignazione a livello mondiale e giustificare l’azione devastatrice dei bombardieri coi motori già accesi e pronti a entrare in azione. Nell’agosto 2013, uomini di Stato, giornalisti, dive e divi della società dello spettacolo avevano gareggiato per dipingere nel modo più fosco possibile il nemico da abbattere. È appena il caso di dire che lo smascheramento della menzogna trovava sui diversi organi di informazione un’eco molto più ridotta dello strombazzamento della menzogna stessa: era meglio non pubblicizzare troppo lo scandalo; esso non doveva screditare e compromettere un’industria della menzogna che può sempre essere utile per la preparazione di guerre future. E di nuovo la sinistra brillava per la sua assenza. Non aveva avuto il coraggio di  formulare domande ed esprimere dubbi nel momento in cui la manipolazione montava e non ha ritenuto necessario richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sullo smascheramento della manipolazione e più in generale sull’industria della menzogna che nonostante tutto continua a fiorire.

 

3. I massacri perpetrati dai ribelli e il giubilo di Luttwak

Conclusa l’operazione a Tripoli, l’Occidente e le monarchie del Golfo hanno potuto avvalersi anche dell’appoggio degli islamisti libici ormai al potere per destabilizzare la Siria, invasa da migliaia e migliaia di miliziani e in preda a una guerra civile, che infuria senza esclusione di colpi da una parte e dall’altra. Anche in questo caso gli aggressori si atteggiano a custodi della morale, e tuttavia qualche spezzone di verità finisce con l’essere rivelato dai cultori di strategia e di geopolitica. Nell’estate del 2013, pur denunciando il regime siriano, l’«International Herald Tribune» descriveva a tinte crude il comportamento dei ribelli:

«Salafiti fanatici di stile talebano che picchiano e uccidono persino devoti sunniti per il fatto che non scimmiottano costumi a loro estranei; sunniti estremisti che sono impegnati ad assassinare innocenti alauiti e cristiani a causa solo della loro religione […] Se i ribelli vincono, i siriani non sunniti possono attendersi solo l’esclusione sociale e persino il massacro vero e proprio».

Un’analisi così cruda era un appello a sventare il pericolo che evocava? Nulla di tutto ciò:

«A questo punto, uno stallo prolungato è il solo esito che non sarebbe dannoso per gli interessi americani […] C’è solo uno sbocco che può essere favorito dagli Stati Uniti: un pareggio a tempo indeterminato. Inchiodando l’esercito di Assad e i suoi alleati (Iran e Hezbollah) in una guerra contro i combattenti estremisti allineati con Al Qaeda, quattro nemici di Washington saranno impegnati in una guerra gli uni contro gli altri e saranno quindi nell’impossibilità di attaccare gli Americani e gli alleati dell’America» (Luttwak 2013).

Il mondo civile e il paese alla sua testa potevano anche guadagnare molto da una situazione tragica infuriante tra i barbari! Ancora un anno e mezzo dopo, Hollande insisteva per una campagna di bombardamenti contro la Siria. I Rafale francesi erano già pronti a entrare in azione: la guerra sarebbe stato «un ottimo spot, per inciso, per il cacciabombardiere che si fa molta fatica a vendere nel mondo» (Mattioli 2013). L’occasione è per ora sfumata, ma sicuramente non ne mancheranno altre.

In ogni caso, un risultato è stato già ottenuto. Nell’estate 2011 si poteva leggere sull’autorevole quotidiano statunitense più volte citato:

«In Irak, la Siria rappresenta ancora qualcosa di simile a un’oasi. Gli irakeni cominciarono a rifugiarsi di là per sfuggire la guerra diretta dagli USA e il susseguente bagno di sangue della violenza settaria. Nel corso della guerra, la Siria ha accolto circa 300 mila rifugiati irakeni, più di qualsiasi altro paese nella regione (a quello che riferisce l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati).

In questi giorni, anche se la Siria deve fronteggiare i suoi disordini, sono pochi gli irakeni che ritornano in patria. In effetti, sono molto più numerosi gli irakeni che partono per la Siria di quelli che ritornano in patria».

Gli irakeni fuggivano non solo per lasciarsi alle spalle la guerra che continuava a farsi avvertire, ma anche perché non ne potevano più di un paese devastato dalla corruzione e dall’inefficienza dei servizi pubblici. Sì, «la Siria viene vista come un paese migliore in cui vivere». Interrogati dall’«International Herald Tribune», gli irakeni si esprimevano con semplicità ed efficacia. Con riferimento alla Siria dichiaravano: «Là la vita è bella, là le donne sono belle» (e non c’era l’obbligo del velo). In ogni caso, «c’è una cosa importante: libertà e sicurezza dappertutto». E’ a partire da questa diffusa convinzione che, «a causa delle vacanze estive, è cresciuto il numero delle persone che abbandonano l’Irak per la Siria» (Arango 2011).  Ora, invece, straripante è la marea di profughi che fuggono dalla Siria…

A partire da quello che era stato strombazzato come l’anno di grazia, a partire dal 1989, sono stati investiti dalla guerra Panama, l’Irak, la Jugoslavia, la Libia, la Siria, per non parlare del popolo palestinese, da decenni sotto un regime di occupazione militare e di espropriazione coloniale, ora più che mai incalzante. L’epicentro di questi conflitti è costituito dal Medio Oriente, dove l’Occidente assicura di voler apportare civiltà, democrazia, pace. Dopo centinaia di migliaia di morti, milioni di feriti e milioni di profughi, la realtà è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta solo delle terribili devastazioni materiali. In occasione della prima e della seconda guerra del Golfo (1991 e 2003) gli sciiti irakeni furono chiamati alla rivolta contro i sunniti guidati da Saddam Hussein; ora, con lo sguardo rivolto all’Iran sciita e ai suoi possibili alleati, sono i sunniti a essere sollecitati a prendere le armi contro gli sciiti in Irak e soprattutto in Siria. In tutto il Medio Oriente, nella lotta contro i regimi laici scaturiti dalle rivoluzioni anticoloniali (che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale) e contro i movimenti di liberazione nazionale collocati su posizioni laiche, l’Occidente ha fatto appello alla religione e al fondamentalismo religioso: così in Irak, Libia, Siria, Palestina, dove Israele a suo tempo appoggiò Hamas contro l’OLP di Arafat. Impressionante è la scia di distruzione e di morte: paesi come l’Irak, la Libia, la Siria rischiano di cessare di esistere come Stati nazionali unitari e indipendenti, mentre priva ormai di qualsiasi credibilità è la fondazione di uno Stato nazionale per il popolo martire palestinese, il cui territorio diviene sempre più esiguo e sempre più frammentato. Ma c’è di peggio. In Medio Oriente divampa la guerra civile tra laici e religiosi, nell’ambito del mondo religioso tra islamici e cristiani, nell’ambito dell’Islam tra sunniti e sciiti. In conseguenza di tutto ciò, l’Irak e la Siria vedono una parte del loro territorio occupato da forze qaediste, finanziate e armate dall’Arabia saudita (da sempre alleata con l’Occidente), e il cui comportamento può essere esemplificato da un episodio, che qui riprendo ancora una volta dall’«International New York Times» (come oggi si chiama l’«International Herald Tribune» di un tempo). Invitato a fornire chiarimenti sui cadaveri dei bambini che giacevano a terra insanguinati e che chiaramente erano stati uccisi a freddo, un capo qaedista spiegava così le ragioni dell’accaduto: «essi non erano islamici» (Worth 2014)!

 

4. La schiavitù sessuale imposta dagli alleati dell’Occidente

Proprio a tale proposito la barbarie del sussulto neocolonialista attualmente in corso si rivela con particolare evidenza. In Medio Oriente le rivoluzioni anticoloniali hanno comportato un netto avanzamento dell’emancipazione femminile, imposta però a una società civile ancora largamente egemonizzata da costumi patriarcali e maschilisti tanto più pervicaci in quanto santificati da una secolare tradizione religiosa. È su questa cultura e questi ambienti che l’Occidente ha fatto leva per riaffacciarsi prepotentemente su un’area da esso a lungo dominata. I risultati sono devastanti: in Libia «la sezione costituzionale della Corte suprema di Tripoli reintroduce la poligamia in nome della legge musulmana». Non si tratta di una svolta inaspettata. Nel «discorso della vittoria» da lui pronunciato il 28 ottobre 2011, il leader imposto dagli aerei NATO e dai miliziani e dal denaro delle monarchie del Golfo si era affrettato «ad annunciare che nella “nuova Libia” ogni uomo avrebbe avuto il diritto di sposare sino a quattro mogli nel pieno rispetto del Corano». Sì:

«A suo dire, era questo uno dei tanti provvedimenti mirati a cancellare per sempre il retaggio della dittatura di Gheddafi. Quest’ultimo, specie nella prima fase più socialista e “nasseriana” del suo quarantennio al potere, aveva cercato di concedere alcune migliorie allo status delle donne, introducendole massicciamente nel mondo del lavoro e appunto limitando, per quanto era possibile in una società tribale come quella libica, la poligamia» (Cremonesi 2013a).

Socialismo, nasserismo? È quello che di più odioso vi può essere agli occhi dell’Occidente neoliberista e neocolonialista; sennonché, la controrivoluzione neocoloniale è al tempo stesso la controrivoluzione antifemminista.

Tra la massa di profughi, a soffrire in modo tutto particolare sono le donne, spesso destinate a essere vendute quali «spose». Vediamo quello che avviene in Giordania: «Tanti tassisti di Amman ormai si sono industriati. Attendono i ricchi sauditi e dei paesi del Golfo all’aeroporto o di fronte agli hotel a cinque stelle. Basta poco per capire cosa vogliono». Le ragazze e le donne siriane sono ricercate per la loro bellezza. E per di più:

«Costano poco, bambine di 15 o 16 anni cedute dalle famiglie per cifre che possono restare nei limiti dei 1. 000 o 2. 000 euro. Una quisquilia, noccioline per gli uomini d’affari del Golfo. Sono abituati a spendere ben di più. Una notte in compagnia di prostitute ucraine in un albergo a Dubai può costare anche il doppio» (Cremonesi 2012b).

E così, i membri dell’aristocrazia corrotta e parassitaria al potere nei paesi del Golfo, da sempre appoggiata dall’Occidente, possono trarre un duplice vantaggio dalla politica di destabilizzazione da loro perseguita in Siria: indeboliscono un regime laico e anzi blasfemo per il fatto di promuovere l’emancipazione delle donne; possono procurarsi a prezzi di svendita donne, ragazze e bambine di bellezza fuori del comune. Va da sé che, nelle aree della Siria conquistate dai «ribelli», le donne sono costrette a subire il ritorno all’Antico regime: esse devono coprire interamente il loro corpo e sono condannate alla segregazione e alla schiavitù domestica.

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