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lavoce

L’incoerenza economica delle ricette di Donald Trump

Francesco Daveri

L’impegno a proteggere i perdenti della globalizzazione con la disdetta del Nafta e aliquote fiscali più basse ha portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ma, al contrario di quanto promesso dal tycoon, l’aumento del deficit pubblico farà salire il disavanzo commerciale Usa

trump 1 2Il malessere americano che ha fatto vincere Trump

Donald Trump eredita un paese che cresce stabilmente intorno al 2 per cento annuo e con un tasso di disoccupazione sceso di poco al di sotto del 5 per cento della forza lavoro. È un paese molto diverso da quello che aveva trovato il suo predecessore, Barack Obama, alla fine del 2008. Allora, fallita Lehman Brothers, il Dow Jones era sceso sotto i 9000 punti (dai 13mila di fine 2007) e l’economia era in recessione da quattro trimestri, il che portò la disoccupazione sopra al 9 per cento nei primi mesi del 2009. I numeri che Obama lascia in eredità a Trump sono in tutto simili alle medie secolari che hanno contrassegnato da decenni il buon funzionamento dell’economia americana che, nonostante tutto, è rimasta il motore trainante dello sviluppo mondiale.

Eppure, se Trump ha vinto, è perché in America c’è malessere. Se non ci fosse, un candidato come Bernie Sanders sarebbe stato etichettato come un socialista rétro e non sarebbe certo arrivato a contendere la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti a Hillary Clinton nelle primarie del partito democratico. Se in America non ci fosse malessere, il partito repubblicano non avrebbe indicato come candidato alla Casa Bianca un estremista no-global (anche pieno di scheletri nell’armadio) lontano dalla tradizione liberista del Grand Old Party come Donald Trump.

Sanders e Trump non escono dal nulla ma rappresentano – in modi molto diversi – le esigenze degli insoddisfatti dell’America degli ultimi anni. Dei lavoratori che hanno subito le conseguenze delle delocalizzazioni manifatturiere in Messico e in Cina. Degli abitanti delle zone periferiche delle grandi città che vedono nell’afflusso degli immigrati una minaccia e non la tradizionale fonte di eterno ringiovanimento della società americana. Delle tante famiglie americane indebitate, che tra l’altro hanno visto i loro bilanci minacciati dall’aumento del costo dell’assicurazione sanitaria e delle rette universitarie dei figli.

 

Sostegno fiscale alla classe media con maggiore disavanzo con l’estero

E’ a questi elettori che Donald Trump ha saputo parlare, anche con il suo programma economico. Mentre la signora Clinton prometteva più eguaglianza di opportunità con un “sistema fiscale equo” (con una sovrattassa di 4 punti per i redditi superiori a 5 milioni di dollari) e “liberando l’iscrizione universitaria dai debiti”, va riconosciuto che Trump è stato più concreto nella sua promessa di aiuto alla classe media. Agli americani con un reddito individuale tra i 29 mila e i 37 mila dollari Trump ha promesso di ridurre le aliquote dal 15 al 12 per cento. E il 12 per cento toccherebbe anche a quelli con redditi compresi tra i 37 e i 54 mila dollari che oggi pagano una aliquota marginale del 25 per cento. Sui dati fiscali del 2013 si tratta di circa 30 milioni di persone. Ma anche ai 3 milioni di persone con redditi compresi tra i 91 e i 154 mila dollari Trump ha promesso un taglio di aliquota di tre punti: dal 28 per cento di oggi al 25 per cento. Non sono noccioline. La prospettiva di tanto estese riduzioni di imposta, associata alla promessa di rinegoziare accordi commerciali che – nella retorica di Trump – hanno cancellato i posti di lavoro manifatturieri della Rust Belt, è stato probabilmente vista come una promessa di benessere più concreta rispetto a quella implicita nei piani della signora Clinton.

C’è però un dettaglio su cui il nuovo presidente degli Usa ha sorvolato. Tra le sue promesse ha incluso quella di riequilibrare i conti con l’estero, oggi negativi per 800 miliardi di dollari (è il saldo della bilancia commerciale dello scambio di beni e servizi). Se però il nuovo presidente attuerà davvero il suo piano che prevede una politica fiscale molto espansiva finanziata con emissione di debito pubblico, il risultato più probabile sarà quello di aumentare, non di ridurre, il disavanzo commerciale degli Stati Uniti. L’aumento della domanda interna farà salire le importazioni, chissà magari anche dal Messico. Il probabile apprezzamento del dollaro che potrebbe conseguire dall’aumento dei tassi di interesse necessario a finanziare l’accresciuto debito contribuirà poi ad ampliare il deficit commerciale, rendendo meno competitivi i prodotti americani rispetto  a quelli del resto del mondo. E’ dunque tutt’altro che scontato che le politiche di Trump – anche se attuate come in campagna elettorale – riescano davvero nell’intento di riportare il manifatturiero a Detroit. Non passerà molto tempo prima che le promesse del tycoon oggi vittorioso siano sottoposte al test dei fatti.

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