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ilcomunista

Salario, concorrenza e mercato mondiale

Maurizio Donato

La differenza di reddito pro capite tra la più ricca delle nazioni industriali, diciamo la Svizzera, e il più povero dei Paesi non industrializzati, il Mozambico, è oggi [nel 2000] di circa 400 a 1; due secoli e mezzo fa questo divario fra [paesi] ricchi e poveri era forse di 5a1 e la differenza fra l’Europa e l’Asia orientale o meridionale (la Cina o l’India) all’incirca di 1,5 o 2a1». (Kenneth Pomeranz, La grande divergenza)

Big Mac hamburger Japan 4Salario mondiale e mercato mondiale

Per un’analisi dei livelli e delle dinamiche del salario mondiale occorre tener presente due movimenti, che vanno intesi in riferimento a diversi livelli di astrazione. Da un lato, la tendenza strutturale alla diminuzione del valore della forza-lavoro; dall’altro quella relativa all’aumento dell’industrializzazione e dunque all’inurbamento progressivo della popolazione mondiale.

Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.

Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.

Da questa prospettiva l’elemento del mercato mondiale è presente – come concetto – da subito nel modello marxiano che già nel terzo capitolo del I libro, dedicato al denaro come forma di valore delle merci, intitola un paragrafo “denaro mondiale1”. Ma in che senso era da intendersi allora e oggi l’espressione “mercato mondiale”?

Se è senz’altro corretto assumere la categoria di “mercato mondiale” a un livello di astrazione alto, non si possono ignorare o sottovalutare le profonde differenze, le vere e proprie stratificazioni di cui il mercato mondiale è stato ed è ancora composto a partire dalle condizioni generali della produzione e dunque anche – necessariamente – in riferimento al salario. Senza cercare di ripercorrere la storia dei differenziali salariali mondiali, va almeno tenuto presente che attorno alla metà degli anni ’90 i lavoratori specializzati dei paesi più ricchi del mondo guadagnavano in media sessanta volte di più dei lavoratori appartenenti al gruppo più povero, i braccianti dell’Africa subsahariana.

 

Mercato mondiale e concentrazione spaziale della crescita

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale e l’immane distruzione di risorse causata dall’imperialismo, negli anni compresi tra il 1950 e il 1973 il tasso di crescita delle economie sviluppate2 è stato – in media – del 5% l’anno. Un periodo caratterizzato da un elevato dinamismo, se si considera che il tasso di sviluppo medio del Pil corrispondeva all’incirca al doppio del saggio registrato nell’arco temporale 1870-1913. Motore della crescita gli investimenti in capitale fisso, che sono cresciuti nel dopoguerra a un ritmo quasi doppio di quello del periodo precedente. All’interno di questo “ciclo lungo” di sviluppo è possibile identificare cicli di breve periodo, della durata media di 5-7 anni, il cui andamento rifletteva – e in parte riflette tuttora – le dinamiche tipiche del ciclo industriale con le sue inevitabili oscillazioni.

Una caratteristica importante di questa fase è il carattere fortemente concentrato – in senso spaziale – della crescita, con i paesi capitalisticamente più sviluppati che hanno visto ampliarsi i propri mercati delle merci e dei capitali a spese di tutte le altre aree geo-economiche del pianeta i cui destini, economici ma non solo, erano e sono tuttora, anche se meno, strettamente dipendenti dalle logiche e dalle scelte strategiche dei paesi -centro, in una dinamica classicamente imperialista in cui gli Usa hanno giocato a lungo il ruolo del paese dominante perché uscito vittorioso dal conflitto bellico.

All’inizio degli anni’70, per una serie di motivi illustrati egregiamente da Gianfranco Pala3, le dinamiche economiche globali cominciano a modificarsi anche se, alla fine del decennio, l’economia mondiale registra ancora un saggio di sviluppo di poco inferiore al 4%4, media tra il ritmo di crescita dei paesi maggiormente sviluppati (più basso) e quella di paesi o aree che, partendo da un livello di reddito enormemente più basso, crescono a ritmi superiori: più del 5% la Cina, più del 5,5% l’America latina, quasi il 7% il Nord Africa e il Medio Oriente.

Alla fine degli anni ’70 prende il via una complessa ristrutturazione delle principali filiere transnazionali del valore i cui effetti sul salario globale sono ancora all’opera, nella stessa fase in cui gli Usa completano la svolta iniziata dallo sganciamento del dollaro dall’oro (agosto 1971) con un cambiamento di segno nella propria politica monetaria: la crisi di profittabilità si era manifestata e il capitale cerca di porle riparo. Il bilancio, alla fine degli anni ’80, è di una crescita media mondiale inferiore a quella del decennio precedente, ma con il quadro geo-economico che nel frattempo è sempre meno “eurocentrico” a partire dalla Cina che corre a ritmi del 10% l’anno; su ritmi più bassi della media l’America latina, che è respinta momentaneamente indietro nel suo percorso di sviluppo, così come accade ai paesi del Nord Africa mentre il Medio Oriente è quasi in stagnazione.

Durante gli anni ’90 il mercato mondiale definisce ancora meglio la sua nuova fisionomia grazie a politiche che consentono all’imperialismo occidentale di forzare in ogni modo i paesi di nuova industrializzazione ad accettare regole e condizioni per aprire le porte dei propri mercati a capitali, merci e finanza dei paesi dominanti in crisi da sovrapproduzione. Risultati: a fronte di un ritmo di sviluppo globale sempre più basso, la Cina continua a crescere a una velocità molto sostenuta, così come l’India, si riprende leggermente l’America latina, in Africa si affaccia allo sviluppo l’area sub-Sahariana, riprende quota il Medio Oriente; l’unica zona che torna indietro è stavolta quella dell’area russa.

Nei primi cinque anni del nuovo secolo la crescita mondiale continua a rallentare ma stavolta tutte le aree del pianeta di nuova industrializzazione sembrano avere ingranato la marcia: le economie cosiddette in transizione dell’Europa dell’est (Russia in primo luogo ma non solo) crescono abbastanza, la Cina rallenta un po’ ma continua a crescere, l’India resta su un buon ritmo, Nord Africa, Africa sub-Sahariana e Medio Oriente crescono tutti più dei paesi ricchi, mentre l’unica area che di nuovo arranca è l’America latina.

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Per quanto riguarda l’Italia, nei quindici anni del cosiddetto “boom economico”, ossia tra il 1953 e il 1967-68, il reddito reale pro-capite degli italiani è quasi raddoppiato; tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 il ritmo di crescita inizia a calare e negli anni ’80 la crescita è la metà di quella del boom. Dal ’53 a oggi il reddito è cresciuto in Italia di circa 4 volte, anche se dall’inizio dell’ultimo ciclo della crisi siamo tornati indietro al livello del 1997.

Se prendiamo a riferimento la dinamica di lungo periodo del reddito pro-capite dell’Italia e lo scomponiamo, riusciamo ad osservare in che modo tale livello dipende, da un lato, dall’efficienza del processo produttivo, ossia dalla produttività e dall’intensità con cui sono impiegati i “fattori di produzione”, dall’altro dalla disponibilità di tali “fattori” e dalla capacità di assorbirli da parte del processo produttivo. A conti fatti5 l’evidenza empirica disponibile non autorizza a concludere che “il problema” della diminuzione della crescita sia – con particolare riferimento all’Italia – legato alla dinamica della produttività del lavoro. In Italia la produttività del lavoro è pari a quella di un paese come la Gran Bretagna e superiore a quella del Giappone, il numero di ore lavorate è superiore a quello di entrambi i paesi, eppure il Pil pro-capite è inferiore. I problemi sono – in questo tipo di scomposizione – da imputare necessariamente alla bassa partecipazione al mercato della forza-lavoro, che i bassi salari certamente non incoraggiano, e all’alta disoccupazione che a sua volta spinge i salari verso il basso.

 

Volantinare a Bucarest

Le fasi del processo di crescita (o di decrescita) globale qui sommariamente richiamate sono state attraversate da una dinamica industriale che ha prodotto, dopo anni di diminuzione del saggio di profitto, una ripresa – non decisiva -della profittabilità che si è giovata delle possibilità tecnologiche che hanno consentito una “esplosione spaziale” delle filiere transnazionali del valore, frammentando la produzione e dislocandone quote rilevanti nei paesi di nuova o non ammodernata industrializzazione.

Tra il 1970 e il 1998 il flusso netto di capitali esportati dai paesi dominanti verso quelli dominati dall’imperialismo aumenta di un fattore pari a 20. E’ in questa fase – e particolarmente durante gli anni ’90 – che il processo di industrializzazione di paesi una volta a prevalenza contadina compie un vero e proprio “balzo in avanti” e assume dimensioni e rilevanza di portata storica. Si tratta di dinamiche avviatesi anche molto tempo prima degli anni ’90, che nel giro di un trentennio hanno sconvolto il panorama produttivo non solo dei paesi di nuova industrializzazione ma anche di quelli vecchi con riflessi importanti sulle dinamiche globali dell’occupazione e del salario.

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Nel primo decennio del nuovo secolo questo processo di spostamento del baricentro produttivo della “fabbrica globale” a est ha conosciuto una ulteriore accelerazione e contemporaneamente i primi segni di una possibile inversione di tendenza: in Cina gli investimenti di capitale6 hanno sorpassato per la prima volta nel 2012 gli Investimenti diretti all’estero occidentali in entrata.

L’altra faccia della medaglia del gigantesco processo di delocalizzazione della produzione internazionale è stato – come era inevitabile – la creazione di una nuova, rilevante, sezione del proletariato internazionale, principalmente in Asia e segnatamente in Cina. In questo paese circa 200 milioni di nuovi lavoratori salariati ex contadini hanno contribuito a far passare l’occupazione industriale da poco più della metà del totale del 1980 ai tre quarti di adesso7. La nuova forza industriale ed economica della Cina e degli altri paesi di nuova industrializzazione si è riflessa in un aumento dell’occupazione e dei salari ed oggi la – residua e in diminuzione -dinamica di crescita del salario mondiale, così come del reddito più in generale, è trainata esclusivamente da questi paesi e -nel caso del salario -dai lavoratori più sindacalizzati e politicizzati che lavorano in questi paesi.

Nel 1978 il reddito pro-capite in Cina era pari a 200 dollari l’anno; nel 2010 siamo a 5.000.

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Per quanto riguarda i differenziali salariali europei, prendendo in considerazione solo l’Italia, poco meno di trentamila aziende hanno delocalizzato a partire dalla metà degli anni ’90 parte della propria produzione all’estero, creando in paesi di nuova o non ammodernata industrializzazione più di un milione di posti di lavoro8. Solo una piccola percentuale di queste imprese ha lasciato l’Europa, e la stragrande maggioranza del processo si è concentrata – per quanto riguarda il capitale di origine italiana -nell’area balcanica, un’area dal Pil complessivo di meno di 200 miliardi di dollari, che equivale a circa un decimo del Pil italiano, abitata da circa quaranta milioni di persone.

Secondo uno studio condotto da Confindustria Balcani nel 2012, il salario medio in Romania è di 350 euro, un po’ più alto di quello albanese, 250 euro. Il salario medio corrisposto ai lavoratori dell’Europa dell’est è di poco superiore ai 400 euro, circa tre volte meno del salario medio italiano.

Queste ultime cifre servono a mettere in evidenza quanto rischi di essere fuorviante focalizzare l’attenzione sui differenziali di reddito e salariali Nord -Sud Europa, senza prendere in considerazione differenze maggiori come appaiono quelle tra Europa occidentale e Europa dell’est.

Riassumendo: è necessario tenere conto nell’analisi di entrambi i movimenti – non necessariamente convergenti -che influenzano la dinamica dell’ occupazione e del salario sul mercato mondiale. A questo punto, volendo approfondire un po’ di più l’analisi delle due tendenze, la domanda è: la nuova occupazione nei paesi di recente industrializzazione è in grado o no di controbilanciare la tendenza strutturale alla riduzione del lavoro necessario? E che cosa accade contemporaneamente al salario?

 

La disoccupazione nelle diverse aree del mercato globale

In sette anni di recessione sono andati persi oltre 60 milioni di posti di lavoro, e secondo le stime dell’International Labour Organization9, dagli attuali 200 milioni, il numero globale dei disoccupati è ancora “destinato” ad aumentare. Solo in Europa, dal 2007 a oggi si contano oltre 7 milioni di disoccupati in più con situazioni particolarmente gravi nei Paesi periferici: più di 25 milioni di persone in Europa sono senza lavoro, in Spagna e in Grecia il numero dei disoccupati è triplicato, in Italia è più che raddoppiato. La tendenza appare delineata: i posti di lavoro che si creano sono meno di quelli che si perdono e di quelli di cui ci sarebbe bisogno in considerazione dei tassi di crescita della popolazione. Delle due tendenze, quella strutturale che causa la diminuzione del lavoro necessario a livello globale, e quella “interna – redistributiva a livello spaziale”, si può dire che gli effetti della prima sembrano prevalere su quelli parzialmente antagonisti della seconda.

Tra il 1991 e il 2007 l’occupazione globale è cresciuta a un tasso annuale medio dell’1.7%; negli ultimi otto anni questo ritmo è calato ed è oggi di poco superiore all’1% l’anno, insufficiente rispetto ai ritmi previsti di crescita della forza-lavoro mondiale anche in presenza di una diminuzione nei tassi di partecipazione al mercato della forza-lavoro. I principali esperti internazionali prevedono che la disoccupazione continui a crescere.

Una verifica della permanenza o delle relative novità del carattere stratificato del capitalismo può essere tentata utilizzando le statistiche ufficiali relative all’occupazione/disoccupazione. L’ILO calcola il tasso di disoccupazione mondiale, nel 2014 pari a poco meno del 6% del totale delle forze di lavoro, distinguendo otto aree o regioni; quella in cui il tasso di disoccupazione è il più alto (il doppio della media) è la regione definita MENA (Middle East and North Africa); il gruppo delle economie sviluppate ha un tasso di disoccupazione superiore alla media, la stessa percentuale dei paesi dell’Africa Sub-Sahariana e di quelli dell’Europa centrale e sud-orientale; il tasso di disoccupazione più basso è quello dei paesi del sud Asia, di poco inferiore a quello dei paesi del sud-est Asia e del Pacifico e dell’est Asia, mentre il livello di disoccupazione in America latina e nei Caraibi è poco al di sopra della media.

Che il tasso di disoccupazione più alto del pianeta si registri in alcuni paesi europei e nella regione che comprende medio Oriente e nord Africa forse è solo una coincidenza statistica, date le caratteristiche strutturali di due sezioni del proletariato mondiale di cui una appare in – ostacolatissima – ascesa e l’altra in relativo declino. D’altro canto potrebbero emergere possibili connessioni tra l’attitudine complessivamente mostrata dal giovane proletariato di una parte del mondo che appare la più spossessata e i nuovi vecchi compagni di sorte che, facendo parte di un’area del pianeta fin qui privilegiata, ne condividono – sopportandone il peso maggiore fortune e declini. Non sembra nemmeno fuori luogo considerare che le maggiori tensioni internazionali siano concentrate nell’area del mercato mondiale a salari più bassi, e una visione materialistica della storia fa ipotizzare che quando ci si vede deprivati della forza materiale ci si rivolga a istanze di altra natura.

Anche nel caso dell’occupazione, come avviene per la dinamica del reddito-prodotto, è il gruppo delle economie di nuova industrializzazione a trainare – seppur con importanti differenze al suo interno – la sempre più bassa crescita dell’occupazione globale. Ciononostante, la fase di crisi apertasi nel 2007-08, pur non essendo imputabile in alcun modo – ed è la prima volta che questo accade – a problemi delle economie periferiche, ma al centro del sistema, ha avuto e sta avendo ripercussioni negative anche sulle economie più dinamiche, abbassando il trend di sviluppo occupazionale di questi paesi.

Dal punto di vista della composizione per “competenze”, i lavori di tipo manuale con competenze “basse” rappresentano poco meno della metà dell’occupazione globale con una tendenza alla diminuzione; il lavoro intellettuale è in aumento, ma con forti divaricazioni regionali – punte dal 10 al 40% -mentre i lavori che hanno bisogno di competenze intermedie appaiono in declino, soppiantate dai lavori a basse competenze.

Le previsioni degli esperti delle Nazioni unite non sembrerebbero lasciar adito a dubbi: nonostante la nuova industrializzazione nei paesi cosiddetti emergenti, il divario tra i posti di lavoro esistenti o previsti e quelli necessari ad assicurare il “pieno impiego” delle forze di lavoro è destinato a crescere. L’esercito industriale di riserva aumenta. Ma, per esaminare le conseguenze di tale dinamica sul salario mondiale, occorre distinguere all’interno della categoria “disoccupati”.

 

Disoccupazione ciclica e strutturale

Per la teoria economica ortodossa un tasso di disoccupazione elevato è un indicatore negativo solo se è persistente, dal momento che in condizioni normali si considera fisiologico che una quota di lavoratori cerchi una occupazione migliore o la sua prima occupazione, anche in fasi ciclicamente non negative. Gli economisti ortodossi considerano tale livello di disoccupazione di “equilibrio”, “naturale”, mentre altri preferiscono distinguere tra disoccupazione ciclica e strutturale.

Nelle fasi negative del ciclo anche il livello della produzione e del reddito scende al di sotto del suo livello normale, definito prodotto potenziale; il divario tra le due misure è conosciuto e stimato come output gap. Se però dopo un ciclo negativo la disoccupazione non si riassorbe, allora la disoccupazione prolungata finisce per ridurre anche il reddito potenziale di un paese.

La spiegazione generalmente accettata per questo fenomeno chiama in causa il deterioramento delle capacità lavorative causato dall’inattività. Le competenze, prodotto tipico della formazione della forza-lavoro, se non utilizzate in tempi relativamente brevi, rischiano di arrugginirsi a causa dell’incessante progresso tecnico che rende rapidamente obsolete le conoscenze acquisite durante il processo di formazione della forza-lavoro. Il calo del prodotto potenziale è dunque fondamentalmente riconducibile a un incremento della quota di disoccupazione definita strutturale, che il modello utilizzato dall’Unione europea stima sia praticamente raddoppiato in Italia tra il 2007 e il 2014.

In termini più generali, più della metà dell’incremento della disoccupazione dovuto all’ultimo ciclo della crisi sarebbe di natura strutturale, come ha sottolineato in un suo discorso recente il governatore della BCE Draghi con riferimento alla disoccupazione europea, la cui quota di natura strutturale si stima sia anch’essa aumentata nel corso di questi anni10 .

Per definizione, il tasso di disoccupazione strutturale non può essere osservato empiricamente; piuttosto, esso può venire stimato utilizzando metodi che si riferiscono alle sue proprietà statistiche o teoriche. In particolare, gli Usa calcolano il “Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment” (NAIRU), mentre l’Unione europea adopera il “Non Accelerating Wage Rate of Inflation” (NAWRU).

 

La dinamica dei salari e la sua relazione con i diversi “tipi “ di disoccupazione

Per quanto riguarda la relazione tra un certo “tipo” di disoccupazione e i salari, i risultati ottenuti da Llaudes (ECB, 2005) mostrano che la durata della disoccupazione conta, e dunque i disoccupati da lungo tempo influenzano poco l’andamento dei salari. L’OECD sostiene che quando la disoccupazione strutturale è elevata "...il tasso di disoccupazione smette di essere un buon indicatore dell’offerta di lavoro e i meccanismi tipici di pressione al ribasso su salari e inflazione non operano efficacemente..." (OECD, 2002, p.189). Secondo questo studio già nel 2000 più della metà dei disoccupati in Italia, Grecia, Belgio, Irlanda e Germania erano senza lavoro da un lungo periodo.

Se questa prospettiva è corretta, allora dobbiamo aspettarci una dinamica salariale poco influenzata dall’aumento della disoccupazione che sembrerebbe – secondo gli studi segnalati prima – in gran parte strutturale. In linea di principio, coerentemente con un modello di derivazione marxiana o di “curva di Phillips” da conflitti, ci si aspetta che un tasso di disoccupazione alto influenzi negativamente la dinamica salariale a causa della pressione di almeno una parte -dell’esercito industriale di riserva sui lavoratori occupati, che avrebbero meno forza contrattuale nelle lotte per miglioramenti salariali. Se però i disoccupati da lungo tempo vengono “esclusi” da questo ragionamento perché considerati “disinteressati” alle vicende del mercato della forza-lavoro in quanto scoraggiati dalla lunga attesa di un lavoro, allora il tasso di disoccupazione effettivo risulterebbe – e in alcune regioni notevolmente -più basso di quello ufficiale, e dunque la relativamente bassa pressione dei disoccupati sul mercato della forza-lavoro potrebbe consentire ai lavoratori occupati maggiore spazio per la richiesta di aumenti salariali.

I dati del mercato mondiale sembrano confermare che, sebbene a un tasso rallentato, i salari hanno continuato a crescere nonostante la disoccupazione in aumento, non confutando l’ipotesi “strutturale” sopra presentata. Se fosse corretta la rappresentazione di una inflazione molto bassa se non addirittura nulla, ne risulterebbe una dinamica salariale (in senso assoluto, ovviamente, non relativamente ai profitti11) che, sebbene al limite, sembrerebbe ancora tenere. Sui prezzi faremo delle annotazioni più avanti.

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Salari e inflazione

Riassumendo su questo secondo punto: nonostante una crescita economica modesta e una disoccupazione elevata e prevista in crescita, il salario reale è cresciuto in media di poco più dell’1% l’anno in questa fase di recessione, ossia quanto è cresciuta l’occupazione e all’incirca la metà di quanto è cresciuto il reddito medio in generale.

Se teniamo conto anche relativamente al salario della stratificazione del mercato mondiale, possiamo osservare come le tendenze generali della dinamica del salario mondiale siano le seguenti:

  • I salari mondiali continuano a crescere mediamente in termini assoluti, ma sempre meno;
  • quelli di chi lavora nei paesi del Sud crescono più di quelli del Nord;
  • in livelli, il salario di chi lavora nei paesi del Nord è adesso – in media -il triplo di quello di chi lavora in un paese emergente.

Il primo elemento da sottolineare è la tendenza alla stagnazione12. Nonostante una crescita ancora positiva, si nota come – almeno in questo ultimo ciclo – il ritmo di crescita del salario mondiale sia basso, anche se sostanzialmente in linea con il tasso di crescita del Pil mondiale. A trascinare questa bassa crescita sono i salari dei lavoratori impiegati nelle fabbriche dei paesi di nuova industrializzazione, mentre i salari dei lavoratori del “centro” ristagnano o diminuiscono.

Per quanto riguarda la tendenza alla convergenza, “un confronto tra i salari del settore manifatturiero di un insieme di paesi effettuato dall’US Bureau of Labor Statistics trova che i salari medi sono ancora sensibilmente più bassi nei paesi “emergenti e in via di sviluppo” rispetto a quelli prevalenti nelle economie sviluppate, ma questo gap si va lentamente riducendo”13

La persistente differenza nei livelli di salario reale tra le economie sviluppate e quelle dei paesi cosiddetti emergenti e in via di sviluppo si percepisce se i dati vengono espressi in valuta locale e poi convertiti in potere di acquisto a parità di dollari (PPP$), misura in grado di catturare – sebbene parzialmente – la differenza nel costo della vita in paesi diversi.

Nel caso dei due paesi più significativi, il salario medio negli Stati uniti, misurato in PPP$, è ad oggi più del triplo di quello prevalente in Cina, anche se tale differenza appare – lentamente – decrescente nel tempo. Tra il 2000 e il 2012 in termini reali i salari medi sono cresciuti a livello mondiale, ma più nei paesi emergenti e in via di sviluppo che non nelle economie già sviluppate. Il salario medio nelle economie sviluppate oscilla nel 2013 attorno ai 3.000 dollari statunitensi (PPP) a confronto con un livello nei paesi emergenti e in via di sviluppo pari a circa 1.000. Il salario medio mondiale è all’incirca pari a 1.600 US$ (PPP).

 

Lavoratori e/a polpette

L’indice Big Mac fu inventato dalla rivista The Economist nel 1986 per contribuire a verificare empiricamente se i tassi di cambio tra le diverse valute mondiali fossero al loro livello “corretto”. L’indice è basato sulla teoria della parità del potere di acquisto (PPP) secondo la quale nel lungo periodo i tassi di cambio si muoverebbero verso il valore che eguaglia i prezzi di un paniere composto da beni e servizi identici (in questo caso una polpetta) per ciascuna coppia di paesi e valute considerata. Per esempio, il prezzo medio di un Big Mac in America a gennaio 2015 era $4.79 e in Cina $2.77 al tasso di cambio di mercato. In questo senso l’indice Big Mac “grezzo” ci suggerisce la possibilità che la valuta cinese sia sottovalutata nei confronti del dollaro di più del 40%.

O. Ashenfelter e S. Jurajda [il lavoro è citato in bibliografia] hanno ampliato l’analisi cominciando a raccogliere dati sui salari dei lavoratori di McDonald's (McWage) e sui prezzi del Big Mac dal 1998 nei 13 paesi più ricchi del mondo per poi espandere la propria ricerca fino a includerne più di 60. Dal loro studio risulta che i salari pagati da questa società sono abbastanza simili nei paesi del mondo ricco, mentre tra i paesi cosiddetti emergenti il salario varia da un livello pari a un terzo di quello dei lavoratori statunitensi per chi lavora in Russia, fino al 6% del salario nordamericano per i ragazzi che lavorano nei McDonald in India. Dividendo il salario per il prezzo locale di un panino con la polpetta si ottiene quello che gli autori chiamano Big Mac per ora (o BMPH), un modo di calcolare il salario reale immaginando questi lavoratori nutriti di o ridotti a polpette.

Adottando questa definizione più “ristretta” del tasso di inflazione, si scopre che nei primi sette anni del nuovo secolo il salario dei lavoratori di questa compagnia negli Usa è cresciuto di poco più del 10% in totale mentre il prezzo del panino è cresciuto di poco più del 20%, con il risultato di una riduzione netta nel salario reale. Nello stesso arco di tempo, i salari dei lavoratori di questa impresa localizzati nei paesi emergenti sono cresciuti più dei prezzi del prodotto che confezionavano – servivano -vendevano.

 

Conclusioni

Il salario mondiale dipende in generale dall’andamento dell’accumulazione e, in particolare, dalla localizzazione spaziale delle imprese e dei lavoratori, dal tasso di disoccupazione di natura non strutturale, dal grado di combattività e unità dei lavoratori, dal contesto giuridico istituzionale, dal livello generale dei prezzi. La sua denominazione valutaria è implicita nella localizzazione spaziale. Nelle prime fasi dell’accumulazione occupazione e salari crescono, ma non oltre una soglia che metterebbe in pericolo la profittabilità del capitale; a quel punto la riorganizzazione del sistema espande l’industrializzazione facendo crescere occupazione e salari nelle aree del pianeta prima periferiche. Questa dinamica spaziale, mentre non sembra in grado di invertire la tendenza generale alla stagnazione e alla depressione dell’economia mondiale, cambia la “geografia del lavoro” assegnando il ruolo di potenziale leader del proletariato mondiale alla nuova giovane classe operaia dei paesi dell’Est.

Dal punto di vista dei comportamenti, non si può giudicare irrazionale non cercare lavoro se vale sempre meno la pena lavorare, ma ciò comporta conseguenze sul nesso storicamente costituitosi tra coscienza di classe e condizione lavorativa. Il cinismo e il disincanto caratteristici dell’atteggiamento di una parte considerevole del vecchio proletariato dei paesi occidentali possono trovare una controtendenza nel processo di lenta convergenza del salario mondiale che può aumentare la forza politica della classe lavoratrice mondiale riducendo i rischi di competizione al suo interno.


Note
1 “Nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore. Dunque, la loro forma autonoma di valore si presenta qui, di fronte ad esse, ovviamente come denaro mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto”. Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, terzo capitolo, pagg. 171-2 dell’edizione Einaudi, 1978.
2 Nel prosieguo del lavoro termini come economie sviluppate, di vecchia industrializzazione, centro, dominanti, del Nord, verranno utilizzati sostanzialmente come sinonimi.
3 Gianfranco Pala, L’ultima crisi, citato in bibliografia.
4 I dati utilizzati in questo paragrafo sono di fonte UNCTAD: Handbook of Statistics on line, edizioni varie.
5 Ernesto L. Felli, Introduzione alla teoria macroeconomica, Giappichelli editore, pp. 6-32
6 Passati dai 3.5 mrd$ del 1990 a 52.7 mrd$ nel 2002
7 Dati di fonte ILO, 2009
8 E’ ovvio che nel conteggio totale dell’occupazione ai nuovi operai dei paesi “emergenti” andrebbe sottratta la quota dei posti di lavoro persi contemporaneamente nei paesi del “Nord”.
World Employment and Social Outlook – Trends 2015 (WESO) ( Prospettive occupazionali e sociali nel mondo -Tendenze 2015»).
10 Interessante notare come questo dato, dal punto di vista dei sostenitori dell’ossimorica ”austerità espansiva”, implica che i normali strumenti della politica anti-ciclica non servano a ridurre significativamente il tasso di disoccupazione complessivo.
11 Le dinamiche del salario relativo e della produttività sono state esaminate in altri lavori citati in bibliografia.
12 Negli ultimi anni, scriveva l’International Labour Organization nel suo Global Wage Report 2013 “[..] la crescita media dei salari reali è rimasta a livello globale al di sotto dei livelli [tassi?] pre-crisi, segnando dati negativi per le economie sviluppate, mentre è rimasta significativa nelle economie emergenti .. tra il 1999 e il 2011 la produttività media del lavoro è cresciuta nelle economie sviluppate più del doppio dei salari reali ..il trend globale ha prodotto così un cambiamento nella distribuzione del reddito nazionale, con la quota dei redditi da lavoro in diminuzione e quella del capitale in crescita .. la caduta della quota dei redditi da lavoro è da attribuire al progresso tecnologico, alla globalizzazione del commercio, all’espansione dei mercati finanziari e alla diminuzione del tasso di sindacalizzazione che hanno eroso il potere contrattuale dei lavoratori”.

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