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Euro sì o euro no?

Marco Bertorello

Giocando a carte scoperte affermo subito che per chi si pone nella prospettiva di un cambiamento di paradigma socio-economico il dilemma euro è un falso problema, o meglio non è il problema principale. Questo non significa non aver chiaro come l’Unione Europea e, ora, anche la moneta unica siano strumenti che acuiscono sperequazioni nazionali e sociali. Dai vari trattati fino all’euro si è creato un processo di unificazione asimmetrico fondato su politiche liberiste. È indiscutibile che un processo di unificazione economica e monetaria senza nessun equivalente sul piano politico e fiscale risulti di difficile realizzazione, sarebbe come iniziare a costruire una casa dal tetto. Un agglomerato economico eterogeneo, come sostiene Jacques Sapir [Bisogna uscire dall'euro?, Ombre corte, Verona 2012], può rendere sopportabile il monopolio monetario attraverso politiche attive di bilancio tese alla redistribuzione delle risorse in funzione del tentativo di colmare le diseguaglianze territoriali. Niente di tutto questo nell'Unione Europea. Anzi, il blocco che ruota intorno alla Germania in questi anni ha determinato un processo inverso: politiche di riduzione salariale e precarizzazione del lavoro combinate con un apparato produttivo qualificato nei settori strumentali di elevata qualità hanno consentito il crescere delle differenze grazie al deciso aumento delle esportazioni proprio in terra europea. I 2/3 delle esportazioni tedesche, infatti, si riversano dentro l'Unione.

Il sistema competitivo coniugato con la medesima moneta ha finito per obbligare i paesi periferici più deboli a reggere il confronto solo attraverso meccanismi di svalutazione interna, a partire proprio dai salari, producendo un ulteriore differenziazione. Un corto circuito insomma.

Il problema, però, sta negli obiettivi e nella prospettiva. Fare dell'Euro, ancor di più dell'Unione Europea, un target primario non significa solo che la moneta unica, così come è, rappresenta un ostacolo a politiche economiche alternative, ma prefigura anche pericolosamente ciò che si pensa debba venire dopo. Cioè se il superamento dell'Euro diventa un obiettivo politico ed economico da perseguire immediatamente è segnata anche la strada dell'alternativa possibile. Leggendo e rileggendo, infatti, gli scritti dei proponenti l'uscita dall'Euro, mi pare che si scivoli in un'unica prospettiva, quella del ripiegamento nazionale, quella del primato della sovranità nazionale, quella della competizione in scala minore.

Provo a spiegarmi. Innanzitutto c'è un eccesso di attenzione localistica, come se il punto visuale da cui si guardano i fatti impedisca di vedere, e dunque leggere, le dinamiche globali. Attenzione a non far l'errore di ritenere la crisi europea a sé stante o, peggio, responsabile del perdurare delle difficoltà statunitensi. La crisi del Vecchio continente non solo è nata in conseguenza di quella Usa, ma anche perché l'intero Occidente ha costruito il medesimo modello di capitalismo, cioè quello andato in crisi. L'economia a debito costruita attraverso la finanziarizzazione non si è data solo in Europa. Naturalmente ogni continente, e persino ogni paese, hanno le loro specificità e modalità con cui vengono attraversati dalla crisi, ma è indubbio che la crisi sia globale. Globale perché nasce nei paesi anglosassoni, si sviluppa in Europa e trascina i paesi emergenti che, per i loro sistemi produttivi orientati all'export, sono costretti a rallentare i poderosi ritmi di crescita. A questo punto tutto si tiene grazie a un elevato tasso di interdipendenza. Per dirla altrimenti, il processo di unificazione monetaria è stato un inedito esperimento di raccordo di forze per competere su scala internazionale, ma proprio per questo segnato dalle attuali regole del mercato mondiale. L'Euro è una moneta nata per reggere tali assetti. E da questo punto di vista alla moneta rispondono forze socio-economiche che vivono la dimensione globale e le sue regole. Il contesto dato in quanto tale rimarrebbe anche dopo un'eventuale uscita dall'Euro dell'Italia. Tutte le principali forze in campo guardano al mercato competitivo come all'unica realtà possibile nella quale operare. Tradotto: il ritorno alla moneta nazionale equivarrebbe, come per altro indicano esplicitamente molti fautori di questa ipotesi, al ritorno alla pratica della svalutazione competitiva della moneta come via immediata e allo stesso tempo principale per sottrarsi ai cogenti (pressanti?) automatismi dell'Euro. Ad esempio Badiale e Tringali [La trappola dell'euro, Asterios, Trieste 2012] considerano centrale il recupero di competitività dei paesi periferici. La prospettiva, dunque, sembrerebbe quella di un ritorno a meccanismi competitivi già sperimentati in tempi di globalizzazione capitalista e che non hanno condotto a nulla di buono. L'ultima svalutazione monetaria, pari al 30% del valore, l'Italia la fece nel 1992, ma non comportò una crescita dei salari, la difesa dello Stato sociale e neppure un recupero di produttività e di qualità delle merci prodotte. Semplicemente fu favorito il permanere dell'impresa italiana in un ordine sovranazionale in una logica di breve respiro e dentro le principali compatibilità.

Tutto ciò non significa escludere la possibilità di uscire dall'Euro, anzi il contrario, ma avendone ben chiare le contraddizioni e considerandola una subordinata. Risultano fastidiosi quegli isterismi di molti europeisti convinti che non solo non propongono soluzioni ai problemi che pone l'Euro, ma annunciano solo cataclismi irreparabili alla rottura della moneta unica. Certamente l'uscita dall'Euro comporterebbe anche una drastica svalutazione del potere d'acquisto interno, un aumento dei costi del settore energetico, e probabilmente molte altre incognite, ma ciò non può essere il deterrente per un'uscita da un meccanismo che ti strangola piano piano. Tuttavia sostenere che l'uscita dall'Euro non sia la principale soluzione significa riconoscere che i guai giungono da meccanismi ben più profondi e strutturali. Significa che l'obiettivo primario debba essere quello di stare sulla dimensione globale degli assetti produttivi. Si dice che uno sciopero europeo non è dato per il grado di condivisione dei sindacati ai progetti continentali, ma non si può sfuggire a quel livello dei problemi: se l'impresa è organizzata su scala sovranazionale una proto-organizzazione del lavoro corrisponderebbe ad un'innovazione davvero efficace. Stessa cosa varrebbe se si affermassero forme di autorganizzazione sociale per la difesa dei diritti, dell'ambiente, di un diverso modello di vita dal respiro almeno continentale. Altrimenti, a prescindere dalla moneta in vigore, i processi di finanziarizzazione e di delocalizzazione produttiva continuerebbero ad essere il perno in cui ruoterebbe la materialità dell'attività economica internazionale.

Lo scorso anno in Grecia la formazione di Syriza mi pare abbia affrontato correttamente i termini della questione. Checché ne dicessero i dogmatici dell'Euro, questa formazione non proponeva l'uscita della Grecia dalla moneta unica, ma la rimessa in discussione di tutti i contratti capestro imposti al paese ellenico. La vittoria di quella formazione avrebbe potuto condurre fuori dall'Euro il paese oppure iniziare un percorso di alleanza dei paesi periferici nella prospettiva di un nuovo modello. La portata destabilizzante di Syriza era duplice sia nel caso di una rottura sia nel caso di una nuova ricomposizione. Non può sfuggire però che, per chi riconosce nel mercato competitivo il principale problema, la strada della rottura rischia di far scivolare verso una riproposizione dei dettami del mercato, seppur in una dimensione diversa, la quale però non garantisce dai dilemmi vigenti su scala macroeconomica. La strada della ricomposizione invece può rappresentare un primo passo verso un'alternativa, dove il locale deve essere cambiato, riqualificato e coniugato a un'altra idea di globale, altrimenti resterà sempre lo sfondo globale attuale a dettare le regole del gioco.

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