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La Grecia, l’Europa e la necessità di una nuova politica economica continentale

Simone Casavecchia intervista Riccardo Bellofiore

Il caso Grecia dimostra ampiamente non solo il fallimento delle politiche economiche europee ma anche la necessità di nuovi interventi su scala continentale che valorizzino la spesa pubblica come strumento per una nuova crescita: l'analisi del prof. Riccardo Bellofiore

dijsselbloem varoufakisIl negoziato tra i rappresentanti del nuovo governo greco e l’Eurogruppo che vede iniziare oggi, a Bruxelles, il suo secondo round, potrebbe aprire la strada a un accordo sul salvataggio della Grecia o determinarne il collasso nel giro di poche settimane. Si tratta di una trattativa cruciale non solo per il futuro della Grecia ma anche per l’Europa dal momento che potrebbe rivelarsi un’occasione privilegiata per acquisire una nuova consapevolezza sulla mancata efficacia delle politiche economiche di austerità finora attuate nel vecchio continente.

Mentre la Germania manifesta ossessivamente il suo spirito luterano nessuno dei politici europei riconosce, infatti, quelli che ormai sono due dati innegabili: l’inesigibilità del debito pubblico greco e il bisogno di nuove politiche economiche su scala europea che, facendo leva sull’aumento della spesa pubblica e dei salari, consentano una reale rinascita della fiducia nei cittadini e una ripresa della domanda.

Ne è convinto il prof. Riccardo Bellofiore, Ordinario di Economia Politica, presso il Dipartimento di Scienze Economiche “Hyman P. Minsky” dell’Università degli Studi di Bergamo, studioso della teoria marxiana e attento conoscitore delle dinamiche economiche della globalizzazione, che in questa intervista spiega a Forexinfo.it quali sono le possibili via d’uscita della crisi ellenica e perché il caso Grecia può essere considerato una cartina di tornasole della crisi europea per la quale occorrono strumenti economici inediti.

 

Buon giorno e grazie per il tempo che ha deciso di dedicarci.

L’ascesa del nuovo esecutivo greco, guidato da Syriza, ha messo l’Europa di fronte a quelle che sono state le conseguenze di anni di politiche economiche restrittive. Una nazione messa in ginocchio dalla Troika chiede ora, per bocca di un nuovo premier, la fine di quell’austerità che ha ridotto 1/3 della popolazione in stato di povertà e ha distrutto lo stato sociale di una nazione. Si tratta della prova provata del reale fallimento delle politiche economiche europee?

Non c’è dubbio. La crisi greca è esemplare. Prima della crisi globale la Grecia ha avuto tassi di crescita alquanto elevati, decisamente superiori alla dinamica italiana, ma anche a quella tedesca - un po’ come tutta la periferia europea (Irlanda, Spagna, in misura minore Portogallo): si trattò, tra l’altro, di modelli molto diversi, non è esistita una Europa cosiddetta del Sud omogenea. Ciò è stato senz’altro la conseguenza degli afflussi di capitale che sono venuti dal Nord Europa, e della percezione di un grado di rischio molto abbattuto in conseguenza della moneta unica (un fatto inatteso dai più all’inizio della storia dell’euro). E’ senz’altro vero, e lo riconosce il governo attuale, che in Grecia vi sono seri problemi da affrontare con profonde riforme strutturali (improduttività di parte del pubblico impiego, evasione fiscale e così via), come è anche vero che il precedente sviluppo aveva aspetti patologici. D’altra parte, era inevitabile che a un “centro” dell’Europa (la Germania e i suoi “satelliti”) i cui profitti sono trainati dalle esportazioni nette positive corrisponda nella stessa Europa una corona di paesi con importazioni nette negative (tanto più che fino a tempi recentissimi la posizione commerciale esterna dell’eurozona era in sostanziale pareggio); così come è naturale che i primi esportino capitale, che in parte va ai secondi. Era parimenti inevitabile che per sostenere la crescita ci volessero disavanzi pubblici nei paesi con bilancia commerciale passiva. Questa situazione della Grecia, sia chiaro, è andata a vantaggio di altri paesi europei: per esempio, delle banche francesi (e tedesche) che prestavano alla Grecia, o ancora delle imprese tedesche (o italiane) le quali, probabilmente in un oceano di corruzione, costruivano, che so, le autostrade o gli aeroporti; senza trascurare la spesa militare, di cui credo la Francia, ma non solo, abbia goduto non poco. Quando esplose la crisi greca, nel 2010, il peso del debito pubblico greco sul PIL era sì alto, ma certo molto più limitato di quel che è poi divenuto grazie alle politiche che hanno ammazzato la crescita, oltre che la società greca, facendo addirittura risorgere lo spettro del nazismo - è incredibile come questo aspetto venga sottovalutato; è una emergenza umanitaria e politica. A quell’epoca, paradossalmente, un condono del debito greco avrebbe avuto sì effetti seri (per il coinvolgimento delle banche estere e i possibili effetti domino), ma sarebbe stato comunque contenibile, visto il peso minuscolo che aveva la quota dei titoli pubblici greci sui “mercati europei”. Le cure della Troika hanno cambiato i due dati a cui facevo riferimento, facendo esplodere sia il rapporto debito pubblico/PIL sia la quota della Grecia nel mercato europeo dei titoli pubblico, grazie evidentemente anche alla dinamica per molto tempo elevata dei tassi di interesse caricati sul debito greco pregresso. Nel frattempo si è avuta una escalation dei prestiti di altri paesi (tra cui l’Italia) alla Grecia. E’ incredibile che si faccia finta di credere che, se una cura non funziona, si debba infliggere una dose più forte della stessa medicina (come è stato negli anni passati), o anche solo si creda che mantenere la stessa cura con dosi solo un po’ più moderate sarà sufficiente a cambiare lo stato del malato. Si deve cambiare drasticamente strada.

 

La rinegoziazione del debito pubblico greco era uno dei punti che, almeno in campagna elettorale, avevano contraddistinto il programma elettorale di Syriza. Anche se dall’avvio delle trattative con l’UE non si parla più di rinegoziazione del debito ma di prestiti ponte e di doppio swap dei titoli, soluzioni di certo più creative ma meno risolutive, la rinegoziazione del debito non è forse l’unica reale soluzione per far fronte al problema di un debito pubblico che, nel caso greco, è ormai quasi unanimemente riconosciuto come inesigibile?

Certamente. Sarei anzi più radicale. In realtà sono convinto che Yanis Varoufakis dica due cose innegabili: che non puoi farti pagare da un morto; che comunque il debito greco non potrà essere mai ripagato davvero neanche in futuro. E ha anche ragione a dire che una via di uscita dalla crisi greca non può che stare dentro questa alternativa: bancarotta dentro l’euro; o sostanziale consolidamento del debito a bassissimi tassi di interesse sempre dentro l’euro (si deve ricordare che non vi sono legalmente margini per “espellere” un paese dalla moneta unica). La si chiami come si vuole, questa è la sostanza, ed è qualcosa di più radicale di una mera rinegoziazione del debito e di un “haircut”. Il bello è che, a mio parere, tutti lo sanno. Adesso la Grecia ha bisogno di respirare, e ha bisogno di una frattura netta con le politiche di austerità. Per questo potrebbero esserci a breve concessioni da entrambi i lati (probabilmente le si sta trattando mentre scrivo). La Grecia è oggi molto più unita del fronte europeo, che è a mio parere divisa tra chi vuole dare una lezione alla Grecia perché ad altri non vengano strane idee (si veda per esempio l’atteggiamento dei governo spagnolo, irlandese e portoghese), o altri, come Draghi o la Merkel o Moscovici, che intendono tenere la Grecia dentro l’euro e sono di fatto disposti a trattare. Chi c’era testimonia di un atteggiamento della Merkel molto diverso da quella di Schauble; e Draghi sta rifinanziando la Grecia via circuito bancario. Ovvero: si rifinanziano le banche che a loro volta rifinanziano il governo: è un modo indiretto ma efficace di superare le strozzature al finanziamento dovute all’interruzione di prestiti diretti dalla BCE grazie alla accettazione come collaterale di titoli del debito pubblico greco: sono d’accordo con chi (Varoufakis, ma anche Krugman) sostiene che il messaggio della BCE fosse un avvertimento rivolto non ai greci ma ai duri dell’eurozona, perché intanto si mantenevano, anzi si incrementavano, i prestiti via ELA al sistema bancario. Si deve tenere conto che la Grecia, in questa fase, ha un’arma che prima non aveva: il suo bilancio statale primario è in avanzo, quindi il coltello dalla parte del manico ce l’ha lei, non i creditori. Basta che il debito pregresso sia spostato in avanti, e al limite non venga mai pagato. Il punto chiave per tutti è poter pagare gli interessi, ridotti a livelli ragionevoli, e per questo bisogna innanzi tutto far ripartire la crescita. L’uscita dall’euro, che qualcuno ventila o desidera, non sarebbe una soluzione. Determinerebbe un gravissimo collasso subito, che può essere preceduto dalla, o seguire alla, dissoluzione del sistema bancario. Si tratta di evitare questo evento; e, possibilmente come sostiene da tempo Toporowski (ne abbiamo anche scritto insieme), accoppiare il finanziamento indiretto a una politica accorta di gestione del debito pubblico (tipo operazione twist), per tenere molto bassi i tassi di interesse. Ma è altrettanto chiaro - e bisogna essere grati a Tsipras e Varoufakis per dirlo con altrettanta forza - che se uscire dall’euro va evitato, stare dentro l’euro così com’è significa solo dilazionare la morte, di qualche mese per la Grecia, e forse di qualche anno per tutti gli altri. Una cosa comunque deve essere chiara: la Grecia non si salva da sola. Se si guarda ai singoli punti del programma economico del governo greco, sono deboli, anche se ne comprendo le ragioni: ad esempio, l’idea di una moneta parallela per ridurre lo strangolamento interno del finanziamento (anche se può forse essere un’arma di emergenza, in mancanza d’altro: ma è molto rischioso); o limitarsi a ridurre l’avanzo primario richiesto rispetto agli accordi del governo precedente (così da avere qualche margine in più per la spesa). La Grecia avrebbe bisogno, come tutti i paesi europei in verità, di un significativo aumento della spesa pubblica in disavanzo. Ma non facciamoci illusioni: la Grecia farebbe la fine della Francia del primissimo Mitterand in meno tempo, l’impulso espansivo farebbe crollare subito la bilancia delle partite correnti: e questo anche in conseguenza delle politiche di deindustrializzazione, e di svuotamento della capacità produttiva interna, ormai da anni. Perché la Grecia si salvi, si deve salvare l’Europa. Occorrerebbe una espansione rapida di tutto il Centro-Nord in avanzo commerciale, e ci vorrebbe una spesa pubblica su scala europea finanziata su scala europea (Vittorio Valli quantificò anni fa la spesa pubblica sul PIL necessaria al 10% del PIL della eurozona, ora siamo all’1%, potremmo cominciare a collocarci almeno a metà, il 5%) Anche una piccola vittoria dei Greci in queste trattative (che ovviamente verrà attaccata come irrilevante, anzi peggio, una disfatta se non un tradimento, dai critici di sinistra, interni ed esterni alla Grecia) sarebbe significativa. Il fuoco deve estendersi al resto dell’eurozona, deve diventare un incendio: e questo richiede tempo, e muoversi in una giungla se non in una palude. Un cambiamento radicale su scala europea nascerà, se nascerà, da “riformisti” onesti come Tsipras o Varoufakis, attraverso tutta una serie di passaggi intermedi. Si deve pur cominciare. Per questo c’è chi vuole fermarli, costruendo sulla pelle di una uscita forzata della Grecia dall’euro un balzo in avanti dell’unione politica e federale (a cui non sono in linea di principio affatto contrario, non credo infatti a soluzioni nazionali di questa crisi; ma questo balzo verrebbe perseguito sotto un duro segno recessivo, e di ulteriore svuotamento della democrazia, nel pieno di una drammatizzazione estrema).

 

La situazione greca ha portato alle estreme conseguenze quelli che sono gli scenari economici di quei Paesi della zona Euro che vanno sotto il nome di PIIGS. Come giudica le politiche e le regole economiche europee (in particolare fiscal compact e risanamento del debito pubblico), considerando gli effetti sociali che esse hanno prodotto, in un periodo prolungato di crisi economica?

Credo di avere già risposto. Queste regole di politica economica sono regole politiche, come lo erano i parametri del Trattato di Maastricht e poi il Patto di stabilità e sviluppo. Ma una volta in piedi, se a infrangerle non sono i paesi forti (come ha fatto due volte la Germania, con la Francia), queste leggi politiche divengono leggi oggettive, e vengono spacciate per naturali. Sono brandite da una parte della classe dirigente tedesca; ma ancor più, checché se ne dica, dal capitale, soprattutto finanziario, francese: è la Francia che ha guadagnato di più dall’Unione Monetaria Europea, ed è la Germania la cui forza oggi poggia su gambe estremamente fragili. Su scala europea, avremmo bisogno di una versione radicalizzata di quello che chiedeva Hyman Minsky, una prospettiva ben oltre il keynesismo così come lo abbiamo conosciuto: un New Deal di sinistra, fondato sulla socializzazione dell’economia: uno Stato che interviene in prima persona sulla composizione della produzione, decidendo cosa, come, quanto e per chi si produce, dunque che fornisce un big push, cioè uno stimolo alla domanda effettiva che sia anche contemporaneamente una politica dell’offerta, che la riqualifichi; una socializzazione della banca e della finanza (che non escluda i controlli di capitale su scala continentale, e nei casi di emergenza su scala locale), una socializzazione dell’occupazione, cioè lo Stato come occupatore diretto (in Italia avevamo avuto proposte del genere ai primi degli anni Cinquanta, come il Piano del Lavoro di Di Vittorio, o come l’esercito del lavoro di cui parlavano Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini). Ne abbiamo parlato con Laura Pennacchi introducendo in italiano un libro di Minsky, Combattere la povertà. Lavoro, non assistenza (Ediesse). E’ in realtà, questo, un discorso più generale per uscire dalla crisi, non credo ai cantori delle politiche di Obama, o che l’economia mondiale sia ormai in acque sicure: ma per noi, come per la Grecia, è condizione di vita o di morte. Perché ha ragione Varoufakis, dopo la Grecia ci siamo noi, e come nel 2011 ci vuole niente a rendere il nostro debito pubblico, in un battibaleno, prima illiquido, poi insostenibile. Più in generale, in Europa abbiamo bisogno di politiche espansive e riforme strutturali: ma che vadano in una direzione opposta a quella dell’austerità di destra.

 

Dopo anni di attesa la BCE ha varato quell’intervento di alleggerimento quantitativo (quantitative easing) che immetterà nuova liquidità nel sistema bancario europeo. Come giudica questo intervento? Crede che si tratti di una misura realmente efficace per avviare la ripresa economica o che si configurerà come l’ennesimo assist ai mercati finanziari?

E’ un intervento tardivo e non risolutivo. Migliora la condizione delle banche e della finanza. I suoi modi sono l’esito di un cattivo compromesso: la gran parte degli acquisti di titoli della BCE vengono addossati alle banche nazionali, e dunque accelerano una realtà (contraddittoria) di ritorno alla frammentazione dell’area monetaria. Inoltre, il QE non ha effetti diretti e potenti su chi ha bisogno di credito (se non c’è domanda all’orizzonte, le imprese non chiedono prestiti, e le stesse banche possono valutare troppo alto il rischio di concederlo: la prima circostanza investe anche le grandi imprese, la seconda circostanza falcidia le piccole imprese). L’offerta di moneta (e di credito) è endogena, e per far ripartire il lato della domanda occorre una iniezione di fiducia: non casca dal cielo, ma appunto da politiche statuali quali quelle che ho descritto prima, che si traducano in un aumento della massa salariale (si ricordi che sono gli Stati che hanno fatto e fanno da battistrada alle politiche di precarizzazione e indebolimento del lavoro: dovrebbero loro per primi invertire ad U le loro politiche, partendo da un aumento dei salari nel settore pubblico: anche qui la Grecia è un esempio).

 

In un’ottica non solo economica ma anche politica quali dovrebbero essere gli interventi più urgenti da perseguire, non solo a livello statale ma anche a livello comunitario per risolvere i problemi sociali che la crisi ha comportato (disoccupazione, calo dei consumi)?

Anche qui ho già risposto. Mi limito a segnalare che il discorso sull’Europa dovrebbe uscire dalla concentrazione (da tutte le parti) su bilancia commerciale, spesa pubblica, salari. Sono argomenti importanti, per carità. Ma bisognerebbe iniziare a ragionare su come è cambiata l’Europa dopo l’inizio degli anni Novanta, come risultato delle riforme nella finanza e come risultato della riunificazione tedesca. Abbiamo catene di produzione transnazionali; abbiamo una forte integrazione degli stati patrimoniali nell’universo del credito e della finanza; abbiamo una Europa del Sud divisa e che esporta nel Centro-Nord Europa beni di consumo, con elevata concorrenza dai cinesi; abbiamo una catena produttiva manifatturiera tedesca che si estende ad Est e nell’Italia del Nord; abbiamo diverse condizioni strutturali (gradi di monopolio delle imprese, dipendenza energetica, e così via). Non basta dunque una espansione della domanda in Germania per avere una ripresa in Europa. Ragionare in termini nazionali, anche solo guardare esclusivamente ai conti del commercio internazionale su questa dimensione, dice ormai relativamente poco. Per esempio, qual è un buon tasso di cambio? Più basso per favorire le esportazioni? Magari - ma se, per esempio, si è un paese importatore di materie prime, e di macchinari tecnologicamente elevati, non è detto che sia proprio così. Dovrebbe essere stabile o più alto per favorire la propria posizione nel conto capitale, per mantenere la propria finanza, per gestire il proprio debito. Rompere una moneta unica non è la stessa cosa che uscire da un accordo di cambio fisso: e in Italia questo si accompagnò comunque a politiche contro il lavoro. Come Varoufakis, ero contro l’entrata nell’Unione, ma questo non significa essere per l’uscita oggi. Certo, come ho detto, stare nella moneta unica richiede altre politiche - politiche espansive della domanda, ma anche politiche industriali, del credito, strutturali. E richiede un fisco europeo uniforme e efficace, una spesa pubblica europea molto più elevata, trasferimenti dalle aree meno favorite alle aree più favorite, una politica salariale che avvicini la periferia al centro, uno Stato imprenditoriale e innovatore, un diverso mercato dei titoli (di nuovo, la proposta Varoufakis sugli eurobond può essere criticata, ma almeno vede il problema). E potrei continuare. Richiede una Europa unita, che come Roosevelt stia nell’asse Big Government, Big Bank, Big Labor (fu Roosevelt a far approvare la Legge Wagner che favorì il sindacato): e questo, come nel caso di Roosevelt, richiede una spinta sociale dal basso, e il pungolo di una crisi imminente, se no non ci sarà. Sono pessimista, purtroppo, sulla vittoria dei Greci nella sfida che hanno lanciato. E’ una sfida politica. Sta agli altri europei rispondere, ma non penso solo ai governi, anche alle forze sociali. A questo deve servire il tempo guadagnato. A parte in Spagna, con Podemos, non ci sono molti segnali in questo senso. Ma è questo il tempo. Se non ora, quando? Come si diceva una volta: hic Rhodus, hic salta.

 

Grazie della collaborazione.

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