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micromega

Il problema non è Tsipras ma questa Europa

di Alfonso Gianni

700x350c50Pare che ad Alexis Tsipras non venga risparmiato proprio nulla. Non è bastato il clima oppressivo ed offensivo con cui si sono svolte le ultime fasi drammatiche dell’Eurosummit, che hanno spinto il leader greco a togliersi la giacca e a gettarla sul tavolo, in spregio alle loro incontenibili richieste. Ora si apre la difficile fase della discussione in patria e nel suo partito e i toni non paiono concilianti.

Persino Varoufakis, che finora aveva tenuto un profilo di grande solidarietà verso Tsipras, parte lancia in resta con argomenti non sempre comprensibili. Esisteva o no un piano B, basato su una simulazione di una fuoriuscita della Grecia dall’euro? In una intervista, quella rilasciata qualche giorno fa a newstatesman.com, l’ex ministro delle finanze ha rivelato che le divergenze nel gruppo dirigente di Syriza sono diventate evidenti subito dopo l’esito straordinario del referendum di domenica. In sostanza la contesa era attorno al modo migliore per utilizzare la nuova forza che il 61% dei No aveva conferito alla delegazione greca. Varoufakis chiedeva di reagire in modo aggressivo alla chiusura delle banche, ponendo sotto controllo la banca nazionale greca e agendo sui bond. Tuttavia lo stesso Varoufakis ammette che non era sua intenzione spingere le cose fino in fondo. La maggioranza dei presenti a quella riunione non fu d’accordo, con la motivazione, sostenuta a quanto pare in particolare da Tsipras, che per assumere quelle misure bisognava avere una capacità e una strumentazione di governo che lo stato ellenico non possiede. In sostanza per minacciare la Grexit bisogna avere poi la determinazione di operarla, se gli altri vengono a “vedere”. Altrimenti diventa un’arma spuntata. Del resto, come pure sia Tsipras che Varoufakis, hanno più volte detto, la Grexit era nelle mani dei loro avversari. In particolare dei tedeschi.

Non c’è bisogno di avere notizie di soppiatto della lunga trattativa notturna per saperlo. A fine giugno è comparso un documento ufficiale, detto dei “cinque presidenti”, perché firmato da Tusk, da Dijsselbloem, da Draghi, da Juncker e da Schulz. In quel documento vengono tracciate le linee di sviluppo della Ue per i prossimi anni. Un documento definito irritante persino da Fabrizio Saccomanni, ex ministro della nostra Repubblica e ex direttore di Bankitalia, per i tempi previsti e per i contenuti. Chiunque lo legga si accorge immediatamente che non vi è alcuna volontà di cambiare il ruolino di marcia e la struttura di questa Ue. L’ottica rimarrebbe sempre quella di un’Europa a chiara dominanza tedesca, neppure più carolingia – visto il declino della Francia -, che sconterebbe come effetti collaterali, se non proprio desiderati certamente non ostacolati, la fuoriuscita di alcuni paesi, in primo luogo della Grecia. L’idea, alquanto balzana, saltata fuori nelle ultime fasi della trattativa e in contraddizione con la lettera degli stessi trattati, di una uscita a tempo, per 5 anni, della Grecia dalla Ue trova in realtà in quel documento, in quell’humus politico culturale le sue radici di fondo.

Del resto il mandato che Tsipras aveva, come egli stesso ha sottolineato più volte, confermato dallo stesso Referendum, non era certo quello di uscire dall’Eurozona. In realtà i famosi piani B sono più esercitazioni astratte che non reali alternative, specialmente in questo campo. Conosco diverse ipotesi. Menti eccellenti economisti si scontrano da tempo se sia possibile e utile o meno uscire dall’euro per un paese come la Grecia, ma anche per l’Italia o altri che si trovano in costante difficoltà. Ma nessuno onestamente può dire cosa succederebbe realmente in quel caso. Nessuno potrebbe essere sicuro che i vantaggi compenserebbero le immediate conseguenze negative. Oltre tutto, un conto è progettare la fuoriuscita dall’euro di un paese solo, un altro e farlo assieme ad un gruppo di paesi tra i quali si sia stabilito in anticipo un sistema di relazioni politiche, economiche e commerciali, tali da reggere l’urto e tutte le possibili mosse speculative. Ma questa condizione non c’era e non c’è. Anzi si dovrebbe riflettere amaramente e seriamente sulla scarsa solidarietà mostrata nei confronti del popolo greco da altri popoli che pure non sguazzano nei privilegi. Il che costituisce un’altra lezione che emerge da questa vicenda.

I tedeschi hanno guidato persino con crudeltà lo schieramento dei 18 paesi contro la Grecia. Ma sarebbe sbagliato prendersela solo con loro. Si è realizzato un intreccio di convenienze, vere o supposte poco importa, che hanno eretto un muro davanti alle proposte, anche le più compromissorie, avanzate dai greci. Le socialdemocrazie, con alla testa la forte Spd, hanno dato un potente contributo e cementificare quel muro. Sigmar Gabriel è riuscito persino a scavalcare a destra la Merkel. Ma non si può tacere dei paesi baltici, e anche di quelli mediterranei che non volevano concedere alla Grecia ciò che a loro non era stato dato, oppure e nello stesso tempo, temevano che la vittoria greca si propalasse anche nei loro paesi nelle imminenti elezioni, come quelle spagnole. Più che un contagio finanziario – inevitabile – di una Grexit, questi paesi temevano un contagio politico che portasse le politiche alternative al neoliberismo sulla plancia di comando. Anche i sindacati europei hanno taciuto, almeno fin quando hanno potuto. Poi, per evitare la vergogna totale, hanno fatto sentire flebilmente la loro voce. A giochi fatti.

La realtà è che le politiche neoliberiste, specialmente nella versione tedesca, sono incompatibili con l’idea di un’Europa unita politicamente su basi federali. La loro affermazione non fa che avvicinare l’implosione dell’Unione europea. Questo non significa che si possa pensare o fare un’Europa senza la Germania, come proponeva a suo tempo George Soros, ma che per fare un’Europa che si avvicini in qualche modo al sogno di Ventotene bisogna sconfiggere le politiche della Merkel. Questo in fondo era il messaggio che Pablo Iglesias di Podemos aveva lanciato in primo luogo ad Alexis Tsipras, durante il dibattito nel Parlamento europeo.

Non c’è dubbio che gli arretramenti e le imposizioni subite dai greci nel testo dell’accordo siano gravi. Nessuno le può sottovalutare. In primo luogo Tsipras che ha già dichiarato che le misure previste potranno avere effetti recessivi. In effetti così inevitabilmente sarà visto gli interventi sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sulle privatizzazioni, sulla presenza invadente della Troika nel processo decisionale interno alla Grecia. Si tratta di punti dolenti, che toccano corde sensibilissime sul versante dei diritti sociali e su quello della sovranità nazionale. Gli scioperi già proclamati in queste ore in Grecia lo segnalano con evidenza. Tsipras apre una scommessa: quella di puntare sui finanziamenti previsti per rilanciare l’economia interna. Il che non potrà che avvenire se non su nuove basi e con nuovi obiettivi. L’esito è incerto e dipenderà dal sostegno concreto che riceverà in patria e in Europa.

Tuttavia non si tratta di una scommessa campata per aria. Con l’accordo viene infatti stabilito il ritorno alla liquidità delle banche, anche se i tempi di Draghi non sono della dovuta sollecitudine. L’ammontare del finanziamento che verrà dal Meccanismo europeo di stabilità, che si colloca tra 82 e 86 miliardi di euro, spezza la logica del gocciolamento o di un pacchetto di briciole per volta. Ancora più importante è il riconoscimento della necessità di ridiscutere il debito greco – di cui viene riconosciuta la insostenibilità – seppure non attraverso nuovi tagli, ma con il prolungamento consistente dei tempi di pagamento. Infine l’accordo fa riferimento al finanziamento dell’attività economica per 35 miliardi.

Nell’immediato Tsipras è chiamato a superare una difficoltà non da poco. La sua maggioranza parlamentare non esiste più. La destra di Anel ha detto che non sosterrà il governo, l’opposizione interna a Syriza sembra crescere, anche se non sappiamo se dalle parole si passi poi a voti negativi. Nello stesso tempo la trasformazione del governo di sinistra, con il supporto politicamente non inquinante di Anel, in una sorta di governo di unità nazionale nel quale si stabilizzi la presenza nel governo di quelle forze che sono state le responsabili del disastro economico greco, non solo non sarebbe una proposta allettante, ma sarebbe una rivincita per le elite europee, dopo il fallimento del colpo di stato bianco sventato dal referendum. D’altro canto Tsipras ha buone carte per giocare questa partita politica, non ultima, come del resto gli consiglia Paul Krugman, quella di prendere atto dello sfaldamento della sua maggioranza e andare a nuove elezioni. Le possibilità che le possa rivincere restano alte. In ogni caso sarebbe un atto di coraggio e di trasparenza politica.

Il vero problema però resta. Si chiama Europa. Ha dato il peggio di sé, ha disvelato la pochezza della propria natura e lo squallore delle sue classi dirigenti, problemi che vanno ben al di là di una moneta unica nata prematuramente in un zona monetaria non ottimale. La via fin qui seguita in tanti decenni: la progressiva integrazione economica avrebbe creato le basi per un processo di unità politica si è rovesciata nel suo contrario. La politica è diventata un’arma per impedire la soluzione di un problema economico di modesta entità quale era il debito greco. La domanda allora è: c’è spazio in questa Ue per un governo che pratichi politiche anticicliche di tipo sociale? Dalla grande questione politica dell’Europa bisogna quindi ripartire.

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