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kelebek3

“Se hai i soldi, voti per restare… se non ne hai , voti per uscire”

di John Harris

“Z” è un instancabile commentatore di questo blog, che da anni esprime con pacata ironia il suo totale disaccordo su qualunque cosa io scriva.

E siccome è anche una persona gentile, ha tradotto dall’inglese questo articolo di John Harris, uscito su The Guardian. Un articolo con cui io mi trovo largamente d’accordo, per cui lo sforzo di Z diventa ancora più encomiabile.

image39“Se hai i soldi, voti per restare” disse con sicurezza “se non ne hai, voti per uscire”. Venerdì scorso eravamo a Collyhurst, quartiere povero al confine nord del centro di Manchester, e ancora non avevo trovato un elettore che avrebbe votato Remain. La donna con cui stavo parlando mi spiegava che nel quartiere non c’erano parchi né aree gioco per bambini: sospettava che tutti i soldini fossero stati destinati al centro di Manchester, Paese delle Meraviglie rimesso a nuovo, a dieci minuti di strada.

Solo un ora prima mi trovavo ad un evento per il reclutamento di personale laureato, a Manchester, dove nove intervistati su dieci erano schierati per Remain. Alcuni parlavano dei votanti per il Leave con freddezza e supponenza: “Alla fine, siamo nel ventunesimo secolo”, diceva un ragazzo tra i venti e i trent’anni “Se ne facciano una ragione”. Non era la prima volta che sentivo l’atmosfera intorno al referendum puzzare di zolfo – non solo di disuguaglianza sociale, ma anche di una malintesa guerra tra classi.

Ed eccoci qui, dopo la decisione terrificante di andarcene. Gran parte degli elementi politici di primo piano sono stati ormai spazzati via. Cameron e Osborne. Il partito laburista così come lo conosciamo, che si rivela ancora una volta un fantasma ambulante, i cui precetti non riescono più a raggiungere le sue supposte roccaforti.

La Scozia – che mentre scrivo ha votato per restare nella UE per 62% contro 38% – è già essenzialmente indipendente da numerosi punti di vista politici e culturali, e presumibilmente prenderà presto la sua strada.

Il Sinn Féin afferma che il governo britannico “ha rinunciato ad ogni mandato a rappresentare gli interessi politici ed economici della gente dell’Irlanda del Nord”. Questo è un terremoto politico in tempo di pace, ed è un momento drammatico per il Regno Unito al pari di quanto accadde… quando? Tutte le date del dopoguerra che ci rimbalzano in mente – 1979, 1997, 2010 – non ci si avvicinano neanche.

E questo perché, naturalmente, tutto ciò ha a che fare con l’Unione Europea solo fino a un certo punto. Ha a che fare anche e soprattutto con le classi sociali, con le disuguaglianze sociali, e con una politica così professionalizzata da far sì che molte persone siano state lasciate a guardare i rituali di Westminster con un misto di perplessità e rabbia. In questo momento si intrecciano fallimenti politici terribili che hanno solo aggravato il problema. L’Iraq, lo scandalo sulle spese dei parlamentari, il modo con cui Cameron è passato dalla retorica del tipo “siamo tutti sulla stessa barca” all’austerity dal volto truce hanno contribuito a mischiare tutti i cliché sui politici di cui non ti puoi fidare, che rispondono solo a loro stessi (qualcosa di applicabile anche alla prima vittima della nostra nuova politica, i Liberaldemocratici).

Più di ogni altra cosa, la Brexit è la conseguenza dell’affarone che abbiamo fatto nei primi anni Ottanta, quando abbiamo detto ciao ciao alla certezza e alla stabilità degli accordi postbellici in cambio di un modello economico che ha fatto solo l’interesse delle regioni più popolate del Paese, abbandonando il resto ad un nevrotico declino. Guardate alla mappa dei risultati, a quell’enorme isola di Remain a Londra e nel sud-est, a quei risultati scioccanti ottenuti dal Remain nel centro della capitale – 69% a Tory Kensington e Chelsea, 75% a Camden, 78% a Hackney – e paragonateli a risultati analoghi in favore del Leave in luoghi come Great Yarmouth (71%) o Castle Point nell’Essex (73%), Redcar e Cleveland (66%). Questo è un Paese così sbilanciato che ha finito per cadere davvero a terra.

Negli ultimi sei anni, spesso assieme al collega John Domokos, ho viaggiato per il RU per la nostra video serie Anywhere but Wenstminster [Dovunque tranne Westminster, ndt], che in teoria si occupava di politica ma di fatto tentava di cogliere il sentimento nazionale, ammesso che esista. Se mi volto indietro riesco a vedere tutti i presagi di ciò che è appena successo. Il primo segnale di allarme fu il piazzamento temporaneo del British National party alle elezioni politiche dal 2006 in avanti, ottenuto sfruttando sia la crescente rabbia popolare contro l’immigrazione dai nuovi Paesi membri della UE nel mercato del lavoro “flessibile” di Gordon Brown sia la crescente crisi degli alloggi.

Pochi anni più tardi, abbiamo conosciuto muratori a South Shields che ci hanno detto che la loro paga oraria era calata a 3 sterline l’ora a causa dei nuovi arrivi dall’est Europa; la madre a Stourbridge che voleva una scuola nuova per “i nostri ragazzi”; l’ex portuale di Liverpool che guardava alle file di magazzini vuoti ed esclamava: “Dov’è il lavoro?”

A Peterborough, nel 2013, abbiamo trovato una città spaccata in due da scontento e rancori, dove la gente dichiarava che le agenzie assumevano solo stranieri disposti a lavorare per turni disumani in cambio di salari risibili. Nella roccaforte Ukipe del Lincolnishire, abbiamo raccontato comunità organizzate intorno all’agricoltura e alla lavorazione del cibo che erano spaccate a metà tra l’ottimismo dei nuovi arrivati e la rabbia dei poveri indigeni – dove Nigel Farage poteva presentarsi e tenere un comizio dopo l’altro davanti a folle in delirio. Anche nelle città che si presumeva avrebbero respinto con sdegno unanime la stessa idea della Brexit, le cose sono sempre state complicate. Manchester si è divisa 60 a 40 per il Remain; a Birmingham, nell’ultima settimana, ho incontrato anglo-asiatici che parlavano dell’uscita dall’UE con la stessa passione e con la stessa frustrazione di tanti bianchi che la pensavano allo stesso modo.

In molti luoghi c’è stata a lungo la stessa miscela di preoccupazione profonda e talvolta di rabbia fremente. Talvolta, di rado, è degenerata in odio vero e proprio (a tal proposito, mi ricordo del quartiere di Southway, a Plymouth, e della rumorosa carica di islamofobia che echeggiava attorno ad una zona commerciale abbandonata; ricordo le donne a Merthyr Tydfil che giravano per il centro strillando “Cacciateli via!”), ma ancora oggi sembra qualcosa di inusitato nella situazione nazionale. “La delicatezza della cultura inglese è forse la sua caratteristica più marcata. Lo noti nel momento stesso in cui metti piede sul suolo inglese”, scriveva George Orwell nel 1941″. E oggi?

Le circostanze di questa furia sono spesso abbastanza chiare: una terribile carenza di alloggi, un mercato del lavoro eccessivamente precario, l’aver trascurato il fatto che gli uomini – e sotto questo aspetto gli uomini sono molto importanti – che una volta avrebbero avuto una chiara identità quali minatori od operai siderurgici, ora si sentono ignorati e umiliati. Il tentativo della politica mainstream di calmare la loro rabbia probabilmente non ha che peggiorato le cose: concessioni pelose alle “famiglie che lavorano sodo”. O il luogo comune – gradevole come un’unghia che striscia sulla lavagna – della “mobilità sociale”, che suggerisce che l’unica cosa che Westminster può offrire alla classe operaia è l’opportunità falsa e ingannevole di non essere più classe operaia.

Per tutto questo tempo, la storia che ora ha raggiunto il suo spettacolare epilogo ha continuato a ribollire. Lo scorso anno 3,8 milioni di persone hanno votato Ukip. Il consenso per il partito laburista attraversa un declino che sembra inarrestabile: i suoi militanti sono sempre più composti da abitanti delle metropoli e membri del ceto medio, e a quanto pare l’ascesa di Jeremy Corbyn ha peggiorato le cose. E in effetti, se la storia degli ultimi mesi è la storia di politici che conoscono troppo poco quello che si presume sia nucleo dei loro elettori, il leader dei laburisti sembra l’incarnazione vivente di questo problema. I sindacati sembrano scomparsi, e l’abilità dell’ideologia conservatrice – tipica dell’era Thatcher – di parlare in modo energico alle aspirazioni della classe operaia si è rivelata un’illusione. Per farla breve, Inghilterra e Galles erano caratterizzati da un vuoto sempre più ampio, finché David Cameron – che ora si è indubbiamente rilevato essere il primo ministro più disastroso della nostra storia democratica – ha preso la decisione che potrebbe aver cambiato del tutto i termini della nostra politica.

Il primo ministro evidentemente pensava che tutta la questione poteva essere tranquillamente aperta e chiusa in pochi mesi. Boris Johnson, che assieme a lui frequentava Eton nello stesso periodo – davvero, riuscite a immaginare che la storia politica degli ultimi mesi non è stata altro che una sfida catastrofica tra due signori che hanno frequentato la stessa scuola esclusiva – ha abbracciato opportunisticamente la causa del Brexit, più o meno con lo stesso spirito.

Ciò di cui non si erano resi conto era che la rabbia popolare, diffusa e profusa nella società, non aveva ancora trovato una valvola di sfogo efficace a sufficienza: e così l’ha trovata nell’indizione del referendum e nell’adesione alla causa della Brexit. Il successo dell’Ukip era stato ostacolato da un lato dal sistema elettorale maggioritario e dall’altro dall’estremismo di Farage, ma la coalizione per la Brexit ha neutralizzato entrambi gli ostacoli. E così è andata: la causa dell’abbandono della UE, fino ad allora argomento di nicchia per svitati e improbabili profittatori, ha attratto un’ampia porzione dell’elettorato popolare, così ampia che qualsiasi partito moderno darebbe un occhio della testa per averla.

Naturalmente la gran parte dei media – che sono ormai in larga misura parte della stessa distaccata entità che il grande patriota londinese William Cobbet chiamava “la cosa” – non si è accorta di quello che sarebbe successo. Il loro mondo consiste di servizi fotografici, di quel gran non-evento che sono le interrogazioni al primo ministro e di assurdi dibattiti tra personaggi che al pubblico non interessano più. La distanza tra le persone latrici del sentimento nazionale e coloro che avrebbero dovuto dar conto di questo sentimento è una delle fratture che ci ha portato dove siamo ora: di certo, dovunque vado, la stampa e la televisione sono oggetto di risentimento tanto quanto la politica. E già che ci siamo, dovremmo anche sbarazzarci di quell’arte penosa che sono i sondaggi di opinione, che di certo, da ora, sarebbe bene riservare ai prodotti commerciali e a cose del genere. La comprensione profonda del Paese è stata troppo a lungo incasellata tra percentuali e domande prestampate: è ora che la gente inizi ad addentrarsi nel Paese, e ad ascoltare soltanto.

Tutti noi siamo consci della crudele ironia che troneggia in mezzo a tutta questa storia: che la Gran Bretagna – o ciò che ne resta – ora farà una brusca svolta a destra, e che i problemi che l’hanno portata sin qui non faranno che peggiorare. Beh, eccoci qui. Di rado la storia segue le strade della logica: la specie di super-thatcherismo a cui saremo soggetti, e che a molti non piacerà, sarà supportato da molti altri finché la realtà non arriverà a svegliarli. Per essere più precisi, se Inghilterra e Galles hanno sterzato con vigore verso l’incertezza e il malfunzionamento, non sarà certo la prima volta. E’ un discorso difficile da farsi in un momento come questo, ma la politica andrà avanti. Deve farlo. Se il nostro timore non riguarda solo ciò che questa decisione comporta per il nostro Paese, ma anche ciò che essa rivela in merito alla condizioni sociali alla base della medesima, dobbiamo combattere. Ma prima di tutto dobbiamo pensare, probabilmente più profondamente di quanto non abbiamo mai fatto prima.

Orwell scrisse il suo capolavoro Il leone e l’unicorno mentre l’Europa si stava facendo a pezzi da sola, e l’isolamento del RU era conseguenza di nobili principi e non del caos politico. L’inghilterra, diceva: “somiglia a una famiglia, una famiglia vittoriana di quelle un po’ pretenziose, con poche pecore nere ma tutti gli armadi pieni fino a scoppiare di scheletri. Ci sono parenti ricchi a cui bisogno fare i salamelecchi e parenti poveri che vengono schiacciati spietatamente, e c’è una profonda congiura del silenzio a proposito delle fonti del reddito familiare.”

Oggi, con gli under-25 che hanno supportato in massa uno dei due fronti, mentre le persone anziane il fronte opposto, la frase che segue appare presaga più di quanto non si riesca a esprimere in parole. “E’ una famiglia in cui i giovani vengono regolarmente sabotati e gran parte del potere è in mano di zii irresponsabili e zie allettate”. E altrettanto valida è l’ultima riga: “Una famiglia dove a comandare sono i membri sbagliati – questa è forse il modo migliore per descrivere l’Inghilterra in una frase”.

Con l’apoteosi di Farage e Johnson e Gove esultanti, queste parole si rivestono di un nuovo potere. E per quanti di noi hanno ricevuto al risveglio le peggiori notizie che potessero immaginare, esse sottendono una domanda che probabilmente avremmo dovuto farci molto prima che tutto questo succedesse: come possiamo fare per cominciare a rimettere in piedi l’Inghilterra – e il Galles – nel modo giusto? Pensate a quella donna a Collyhurst: “Se non hai i soldi, voti per uscire”. In queste parole non leggiamo solo il successo del Brexit, ottenuto contro ogni pronostico, ma anche la prova di un enorme fallimento che la politica mainstream, tramortita, non ha ancora compreso per intero, né tanto meno si è mossa per rimediarvi.

Comments

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Claudio
Saturday, 09 July 2016 06:14
Personalmente penso che quegli inglesi che non hanno soldi ed hanno votato per uscire dalla Ue, cercando in questo modo di prendere la scorciatoia nel senso che, invece di sviluppare lotta di classe contro il potere della grande finanza e dei suoi tirapiedi, e cioè politicanti di destra e di sinistra, sindacalisti, giornalisti e così via, si sono affidati ad un semplice voto per esternare il proprio sacrosanto dissenso da tale politica, che fa arricchire i ricchi ed impoverire i poveri, si siano dati la zappa sui piedi, in quanto ciò creerà più d'un problema al cosiddetto Regno Unito che unito non è, e chi pensano che alla fine verrà fatto pagare lo scotto se non come sempre a loro stessi? A mio parere sarebbe pertanto ora che si abbandonassero le illusioni democraticistiche e si cominciasse a guardare la realtà in faccia di una società decadente, ma pur sempre composta da classi sociali che hanno interessi economico/politici contrapposti, e come tali, quelli degli sfruttati, dei diseredati, dei disoccupati, dei giovani sempre più precari a cui hanno rubato presente e soprattutto futuro, della classe media rovinata dalla crisi, degli immigrati fuggiti da situazioni di guerra e di fame generate dall'occidente, non possono essere difesi da un potere parlamentare che rimane pur sempre della classe dominante, cioè della grande borghesia economico/finanziaria globale. Quindi, se si vuole per davvero andare contro questo potere perverso, occorre puntare ad un radicale cambiamento, al superamento dell'attuale ordinamento sociale, che non lo si può certamente decretare col voto.
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