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sinistra

Uscire dall'Euro? Un confronto

di Giorgio Lunghini e Sergio Cesaratto

22lettere intervento centrale euro Di seguito un intervento allarmato (e allarmistico?) di Lunghini, a cui risponde Cesaratto

 

manifesto

Le conseguenze di un’uscita dall’euro

di Giorgio Lunghini

Qualche cifra sugli effetti di un abbandono della moneta comune per capire perché è meglio evitare

Vi è oggi un consenso unanime circa l’inadeguatezza dell’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria (Uem), e soprattutto vi è una unanime e severa e fondata critica del suo armamentario di politica economica (per una rassegna delle diverse posizioni si può vedere il mio commento («L’euro: un destino segnato?»), Critica Marxista, marzo-giugno 2015). Differenti sono invece le valutazioni circa le conseguenze economiche e sociali di una eventuale uscita unilaterale dell’Italia dalla Uem – che taluni addirittura invocano. Questa a me pare questione di grande importanza, e qui riprendo le stime e la conclusione di Carluccio Bianchi (che faccio mie e che si possono trovare per esteso cercando su Google “lincei 2015 bianchi storia breve dopoguerra”).

Nelle condizioni date, il primo effetto sarebbe la svalutazione della nuova moneta nazionale. La perdita di competitività nei confronti della Germania è ora del 30%, e questa sarebbe la soglia minima; tuttavia i movimenti valutari potrebbero determinare una svalutazione del 50-60%. La conseguenza immediata sull’inflazione sarebbe di circa il 15%, e si innescherebbe una rincorsa salari-prezzi-cambio: con un tasso di inflazione nell’ordine del 20% l’anno e con una perdita salariale insopportabile.

Con una svalutazione del 50% salirebbe nella stessa misura il valore del debito pubblico in mano a investitori stranieri (più del 35% del totale), con fughe di capitali e default dello Stato italiano, incapace di fare fronte alle richieste di rimborso. Il valore reale del debito interno in cinque anni sarebbe dimezzato: con una perdita per le famiglie che possiedono titoli di 110 miliardi di euro, pari all’11% del loro reddito disponibile. Per le banche e le istituzioni finanziarie, che possiedono circa la metà del debito, le conseguenze sui bilanci sarebbero tragiche, soprattutto per quelle che hanno passività in valuta. Oltre alla necessità di ricapitalizzazione da parte dello Stato, sarebbe necessario impedire la corsa agli sportelli dei depositanti.

Sarebbero inoltre necessarie misure di limitazione alla detenzione di valuta estera e di prelievo sui depositi bancari (come in Argentina con il corralito), nonché di controllo sui movimenti di capitale. I tassi di interesse salirebbero alle stelle, sia per la maggiore inflazione, sia per la crisi valutaria e bancaria, sia per il default statale. Aumenterebbero i debiti delle imprese espressi in valuta estera e si verificherebbero una crisi di liquidità e una restrizione del credito delle banche.

Le imprese esportatrici farebbero affari, ma quelle che producono per il mercato interno subirebbero gli effetti della contrazione di consumi e investimenti e della crisi bancaria; e non è detto che della svalutazione le esportazioni si avvantaggerebbero di molto: di fronte a svalutazioni competitive, i paesi rimasti all’interno della Uem potrebbero adottare una politica doganale comune di innalzamento delle barriere.

In presenza di una svalutazione iniziale del 50%, e di una conseguente inflazione media annua del 20%, sarebbero gravissime le conseguenze sui salari reali. Il potere d’acquisto delle retribuzioni potrebbe essere garantito soltanto con un adeguamento completo delle retribuzioni ai prezzi; ma la perdita media annua di reddito sarebbe del 10%, che si aggiungerebbe a quella sulla ricchezza mobiliare determinata dagli effetti della inflazione sui titoli di stato; e con una inflazione così elevata aumenterebbero ulteriormente le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza tra lavoratori dipendenti e autonomi e tra creditori e debitori. Come conseguenza di tutto ciò, la caduta del Pil dell’Italia sarebbe pari a circa il 40% nel primo anno e al 15% negli anni successivi per almeno un triennio.

Costi enormi, che genererebbero disordini civili e rivolte popolari, e la storia dell’Europa insegna che da crisi di questa portata si esce a destra. In breve, l’Unione Economica e Monetaria europea è come l”Hotel California” nella canzone degli Eagles: forse sarebbe stato meglio non entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire.

 * * * *

politicaecon

Hot€l California 

di Sergio Cesaratto

Il problemi che solleva il prof. Lunghini nei riguardi di una rottura dell’euro sono molto importanti e vanno discussi sia sotto il profilo quantitativo che storico-politico. Cominciando da quest’ultimo aspetto, che è quello più rilevante, Lunghini esamina il caso di un’uscita unilaterale, “a freddo”, del nostro paese. Quella della rottura unilaterale è naturalmente solo una delle possibilità. 

Un’altra potrebbe essere quella che l’Hotel California in cui si entra ma non si esce, secondo la metafora del professore, prenda fuoco, per cui certamente bruciacchiati si debba scappare fuori un po’ tutti. Ma la stessa uscita unilaterale non potrà che risultare dall’incendio nella stanza dove alloggia il nostro Paese, probabilmente non appiccato da qualche sconsiderato economista, ma piuttosto da una grave crisi bancaria che, dati gli attuali meccanismi europei, porti qualche milione di risparmiatori in piazza. Certo, i pompieri europei in un qualche modo arriveranno con dei prestiti e qualche condizionalità in più sul bilancio pubblico. Ma questo potrebbe portare a ulteriori proteste popolari. O magari no. Ma se accadesse, un governo, metti a guida 5 Stelle, potrebbe essere tentato di chiedere alla Germania una sospensione della partecipazione italiana alla moneta unica. Ma anche qualche stanza contigua potrebbe prender fuoco, per esempio quella francese, se madame Le Pen decidesse di fare i bagagli dimenticandosi la candela accesa. O, perché no, potrebbe essere il gestore tedesco ad andarsene, stanco del chiasso che viene dal piano sud (senza dimenticare di bruciare tutto, secondo abitudine). Oh, una responsabilità di qualche scriteriato economista ci sta sempre, per esempio per aver suggerito ai risparmiatori che il fallimento delle banche non è dovuto alla corruzione bensì alle politiche europee e alla perdita di sovranità monetaria, o che l’euro costituisce un attacco alla Costituzione ben più grave di quello della Boschi. Ma non credo che il prof. Lunghini ci stia suggerendo di nascondere queste verità. O no? Perché, per come la mette, il professore sembra suggerire che sarebbe bene non dir nulla alla gente, se non che l’euro è un destino ineluttabile che ci meritiamo, in modo non suscitare cattive idee. E invece questi scriteriati economisti instillano l’avventurismo nelle masse, lontani dalla tradizionale responsabilità europeista della “sinistra”, invece di educarle alla remissione e alla cristiana pazienza.

A mio avviso, è dunque sbagliato collocare la tematica della rottura dell’euro fuori da un contesto storico-politico in cui un’eventuale break-up si collocherebbe, quando tutto verrebbe rimesso in discussione in un quadro internazionale non necessariamente ostile, dato l’interesse generale al ripristino della stabilità. Il prof. Lunghini è purtroppo preoccupato a prescindere, avendo fondamentalmente timore che l’Italia torni a qual disordine monetario stile anni settanta di cui, diciamocelo, proprio in virtù della cara moneta ci si era dimenticati. Scriteriati economisti costoro che vagheggiano ancora l’epoca in cui, che vuole Contessa, anche l’operaio voleva il figlio dottore. Non ha tutti i torti il professore. Questi sciagurati economisti hanno studiato storia economica e sanno che le monete uniche (come i gold standard) si fanno per mortificare la lotta di classe e la democrazia.

Per rafforzare il suo monito, il professore spara cifre e scenari da apocalisse, che verranno altrove spemtiti. Noi, inguaribili riformisti, vogliamo credere che con una riacquistata sovranità monetaria il Paese saprà dotarsi di istituzioni volte a conciliare conflitto distributivo, crescita e controllo dei prezzi. Circa il debito pubblico denominato in euro – ammesso che questa moneta ancora esista – seri contenziosi potranno sorgere. In particolare dopo che con decisione irresponsabile l’Italia ha accettato nel 2012 una clausola che ne può impedire la ridenominazione in una nuova-lira (almeno relativamente alle nuove emissioni). Ma, ripeto, se si arriva a uno stadio di rottura sarà un aprile 1945, quando si ridiscute tutto. E comunque la scelta è politica: fra il rispetto di una “collective action clause” e la democrazia, lei che sceglie professore? Circa il debito privato, nessun cataclisma si verificò nel 1992 di fronte a una svalutazione del 30% (che non si vede perché debba essere superata).

Insomma, non si può sfuggire all’impressione che il prof. Lunghini si presti, suo malgrado, a una strategia dell’allarmismo economico volta a tacitare le voci che possono suscitare una reazione popolare contro l’euro/pa; che si battono per un governo che, se v’è il sostegno popolare, persegua piena occupazione, stato sociale e istruzione pubblica con ogni mezzo (incluso il ripristino della sovranità monetaria e un’economia di controlli di caffeiana memoria); che non ritengono ineluttabile un destino di incertezza per i nostri figli e nipoti.

Comments

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Claudio
Tuesday, 04 October 2016 17:05
Il confronto tra i professori di economia Giorgio Lunghini e Sergio Cesaratto, quest’ultimo il pezzo da novanta di quella masnada che come massimo obbiettivo di pretesa sinistra agitano l’uscita dall’euro, è finita con un sonoro ko su tutti i fronti. Infatti , non avendo argomentazioni teoriche e/o politiche per continuare a sostenere l’avventuristica tesi, il nostro non ha saputo far altro che cercar di buttarla in morale ed agitare lo spauracchio di un possibile governo pentastellato per il paese, come se questo raggruppamento di ragazzotti, digiuni di teorie sociali e di esperienza politica -che sarebbero comunque il male minore, dal momento che il Pd s’è venduto anima e corpo a Confindustria e grande finanza- conquistando il governo del verminaio capitolino, non si fossero scavati la fossa.
Questo confronto tra i due economisti ha significato per me una grande vittoria, dal momento che erano settimane che continuavo a controbattere gli articoli che questa masnada di travisatori sfornavano in continuazione, denunciando i costi da pagare a caro prezzo a cui si sarebbe andati incontro. Ma costoro se ne guardano bene dall’accennare anche di sfuggita alla pur minima motivazione che in qualche modo sconsigliasse tale evenienza, né di menzionare quali classi sociali ne avrebbero pagato l’insostenibile prezzo, come ha magistralmente argomentato il professor Giorgio Lunghini , che sentitamente ringrazio.
Ora bisogna cercar di capire che lo scontro con questi signori è eminentemente politico, in quanto sono disposti a sostenere qualsiasi baggianata purché possa in qualche modo servire a distogliere le masse popolari, sempre più diseredate e precarie, da quello che dovrebbe essere il loro unico vero obiettivo, cioè la lotta di classe al sistema capitalistico di produzione, che vive del loro sfruttamento, che da decenni ha lanciato la guerra al salario per accrescere a più non posso il profitto, e che, anche per questo, è entrato in una crisi profonda, dalla quale non riesce ad uscirne nonostante le numerosissime guerre distruttive scatenate in ogni angolo del mondo. Questa banda di masnadieri si son dati il compito di svolgere questo sporco lavoro d’agitare obbiettivi fasulli, per cercar di poter continuare a raccattare le briciole del sontuoso banchetto. A tal fine non gl’interessa se la disgustosa commedia rischia seriamente di trasformarsi in tragedia, sia per le classi più povere che per l’intero paese. Ma anche costoro prima o poi si dovranno convincere che anche per loro la musica è definitivamente cambiata. L’opera di depauperamento sta infatti procedendo a velocità sempre più elevata e quanto prima li travolgerà. Pertanto, gli conviene rassegnarsi al più presto e cominciare seriamente a fare massa nell’autentica lotta al sistema.
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Pietro Palumbo
Friday, 30 September 2016 17:40
Ho l’impressione che tanti (io spero siano pochi) economisti come Luchini fomentino e spingano, con il loro catastrofismo, l’opinione pubblica a rafforzare quell’idea malsana che, il dominio del modo di produzione del capitale, sia da considerare eterno e che non ci possa essere nessun processo storico conflittuale alternativo capace di sovvertire tale sistema barbarico.
La riconquista degli spazi di conflitto sociale dove lo scontro di classe possa riprendere le caratteristiche di un confronto, sicuramente aspro e duro, tra chi realmente è portatore di ricchezza, non solo economica, contro chi ogni giorno s’inventa escamotage di ogni tipo per conservare quei privilegi che nessun Dio gli ha mai concesso, ma che quei privilegi se li ha arraffati con violenza, sfruttamento, corruzione, speculazione, guerre coloniali, guerre imperialiste etc…..l’elenco sarebbe molto lungo; dicevo, quel conflitto, è l’unica strada capace di costruire realmente un’Europa dei popoli, nell’interesse di tutte quelle classi sociali che da tempo sono costrette a sopravvivere sotto la spada di Damocle degli interessi delle banche, delle borghesie compratore Europee e dell’imperialismo USA.
Se c’è una cosa che dobbiamo capire immediatamente è che “Non può esistere discorso economico senza considerare la questione sociale” L’economia senza il sociale sono solo dei numeri che fanno comodo solamente alle classi dominanti.
L’uscita dall’euro sicuramente non può essere considerata una cosa semplice ma tutto ruota, prima d’ogni altra cosa, intorno alla riconquista di quei diritti che le classi subalterne avevano faticosamente conquistato con le lotte del passato. E qui un monito a tutta quella sinistra (anche quella che si definisce radicale) il cui pensare ad una ipotetica riformabilità dell’attuale UE, sia decisamente deleterio, sia per l’identità che per l’unità della classe e conseguentemente anche per la sua difficile ricomposizione.
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