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controlacrisi

La sinistra non la si ricostruisce solo sul no-euro

F. Giusti e F. Gabriellini intervistano Sergio Cesaratto

Sergio Cesaratto, economista, ordinario all'università di Siena, autore di Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi (e come superarla), Imprimatur, 2016. Lo abbiamo intervistato per Controlacrisi.org in occasione del presentazione del suo libro tenutasi a fine novembre a Pisa a cura del municipio di beni comuni e dei delegati\lavoratori indipendenti

no euro movementNel 2012 hai scritto un libro con Massimo Pivetti dal titolo Oltre l'austerità. Ce ne vuoi parlare soffermandoti sui risultati di queste politiche in Italia e in Europa?

Nel 2012 il libro pubblicato on line da Micromega fu una prima testimonianza contro le politiche europee. Naturalmente tutto quello che scrivemmo lì si è avverato soprattutto nei riguardo degli anelli più deboli dell’eurozona, Grecia, Portogallo, Italia. Le cose vanno apparentemente meglio in Spagna al costo di una riforma del mercato del lavoro ancora più feroce di quella italiana in cambio della quale Madrid ha però ottenuto una certa tolleranza per i suoi disavanzi pubblici. Così da anni è concesso a quel Paese di sforare i parametri europei e ciò spiega la sua maggiore crescita. Sospettiamo anche che la finanza internazionale, la Deutsche Bank in primis, abbiano l’ordine di servizio di continuare a finanziare quel Paese così virtuoso. Ciò non è concesso all’Italia, che il capitale tedesco vuole schiacciare distruggendo la nostra industria. La devastazione che l’austerità europea sta imponendo al Paese è enorme. Il pericolo maggiore è l’assuefazione al degrado.

 

Sei lezioni di economia nascono da un colloquio immaginario con i tuoi studenti, quesiti che scaturiscono dai tuoi corsi universitari come nasce l'idea del libro e come si è sviluppata?

La lettrice (o lettore) immaginario non è necessariamente uno studente. I compagni si rivolgono a me in genere chiamandomi “professore”, e io credo questo sia molto importante. Non per una mera lusinga, ma perché è importante che gli accademici più sensibili siano in mezzo alla gente di buona volontà, e venga da tutti percepito che la conoscenza deve e può essere condivisa. In questo senso il libro ha voluto dimostrare che l’economia può essere compresa da tutti coloro che, al di là di titolo di studio e professione, leggano libri e si informino. Nulla è senza sforzo naturalmente! Il libro cerca di aiutare mostrando che esistono diverse teorie. La percezione delle differenze aiuta la comprensione. Sempre più mi sto ora convincendo, presentando il libro in giro, che il volume proprio perché parte dalle teorie - in relazione ai problemi politici che ci assillano - costituisce un’operazione quanto mai tempestiva nel cercare di ripiantare dei paletti di riferimento per una sinistra smarrita e politicamente ai limiti della scomparsa.

 

Può elaborare di più questo punto?

Sì. Con la scomparsa del socialismo reale e il transito verso il neoliberismo di gran parte del movimento socialdemocratico (incluso i DS-PD) la sinistra ha smesso di cercare una alternativa di lungo periodo al capitalismo, o anche di medio-termine attraverso un compromesso social-democratico. Ha nei fatti accettato che il mercato sia l’unico game in town. Il punto è che anche la quasi totalità di ciò che rimane della sinistra più radicale ha introiettato il liberismo. Le sue parole d’ordine sono il cosmopolitismo, l’irreversibilità della globalizzazione, la libertà di circolazione del lavoro, la scomparsa dello Stato nazionale come asse politico arrivando all’odio politico per lo Stato tout court in nome della libertà individuale. Questo è liberismo puro! Le radici di questo sono lontane. Storicamente sono due le correnti di pensiero cosmopolitiche: quella liberale e quella marxista. In pratica, tuttavia, il movimento operaio, specie nelle sue frange più sensibili agli avanzamenti concreti nelle condizioni di vita dei lavoratori, ha individuato la sua sfera d’azione nei confini della comunità nazionale, guidando anzi le lotte di liberazione nazionale. Senza naturalmente rinunciare a ideali universalistici, ma mai sacrificando il bene dei propri ceti popolari a ideali astratti. Ubriacata dal liberismo, la sinistra antagonista persegue oggi questi principi astratti. Che poi astratti non sono poiché la connivenza alla /(de facto) libera circolazione del lavoro ha devastato il nostro mercato del lavoro, e mina anche le relazioni sociali (il che vuol dire minare le relazioni di solidarietà alla base, ad esempio, dello Stato Sociale). Dobbiamo rimettere dei paletti.

 

Parti da un approccio classico-keynesiano in antitesi a quello marginalista o neoclassico che domina libri di testo e i discorsi ufficiali. Oggi ha senso essere keynesiani e qual è l'attualità di Keynes.

In effetti un’altra tragedia della sinistra italiana, a cominciare dal PCI è l’assenza di una conoscenza minimamente profonda dell’economia politica, e in particolare del pensiero critico. Questo dovrebbe essere il suo abc, ma non lo è mai stato, se non in una breve stagione che vide, ad esempio, la fondazione della Facoltà di Economia di Modena da parte di un gruppo di (allora) giovani economisti (che avevano Sraffa e Garegnani come riferimento) in collegamento col movimento sindacale e in particolare i metalmeccanici. Il PCI ha sempre ignorato Keynes e Sraffa. Certo, verso Sraffa v’è sempre stata la deferenza dovuta all’amico di Gramsci, ma quanto a introiettare la sua critica all’economia dominante molto poco o nulla. Sraffa e la ripresa degli economisti classici e di Marx è uno dei paletti che dobbiamo ripiantare. Il libro credo qui svolga una funzione utile. Nelle sue pagine si sottolinea, seguendo la lezione di Leonardo Paggi, come la tradizione comunista fosse un misto di liberismo e stalinismo. Si legga al riguardo il recente volume di Pivetti e Barba (La scomparsa della sinistra, Imprimatur), un altro must se ci si vuole ancora definire di sinistra. Serve Keynes? Certo, la questione è che il capitalismo, con il venir meno della sfida del socialismo reale, e consapevole che la piena occupazione porta indisciplina sociale, non è interessato alle ricette keynesiane. C’è al riguardo un articolo di Michal Kalecki (il Keynes marxista) del 1943 che ogni persona di sinistra dovrebbe aver letto. Ma noi dobbiamo essere interessati a Keynes nella battaglia politica contro il neo-liberismo, pur consapevoli che il capitale non ne vuol sentir parlare. Le politiche keynesiane, pur munizioni essenziali di un governo progressista, non sono inoltre sufficienti in un contesto internazionale anti-keynesiano. Il keynesismo in un Paese solo implica altre misure radicali, che per certi versi vanno verso misure socialiste. Ne dobbiamo aver paura? Solo una sinistra che ha perso i paletti e considera il mercato come l’unico gioco possibile ha queste paure.

 

La dittatura dell'euro ha radici profonde nei testi classici del pensiero economico. Vuoi parlarcene?

L’euro si basa su una “produzione scientifica” che negli anni ottanta riprese idee vecchie di un secolo (il pesce rosso del libro) sostenendo che la politica monetaria ha effetti solo sui prezzi e non sulla produzione e occupazione (il monetarismo insomma). Si dice che, per questo, la politica monetaria deve essere affidata a banche centrali indipendenti, meglio se straniere, che abbiano come obiettivo il solo controllo dei prezzi. Non è vero, invece, che la politica monetaria non abbia effetti per l’occupazione, come dimostra il quantitative easing di Draghi che cerca di risollevare domanda e occupazione senza la quale perdura la deflazione. Il punto è che senza una politica fiscale espansiva, anzi con la persistenza dell’austerità, la politica monetaria non può far molto. Nel libro cerco di spiegare queste cose in termini accessibili, una lettura utile agli studenti per smentire le assurde chiacchere dei libri di testo, e all’attivista di sinistra per capire i processi di cui vuole essere protagonista.

 

La sinistra è stata troppo tenera con l'europa di Maastricht e dell'euro, anzi subalterna all'Europa del capitale. Qual è il tuo giudizio?

Che forse dovremmo smetterla di chiamarla sinistra. Sono neoliberisti mascherati da internazionalismo. Dalla gabbia europea è difficile uscire, questo è verissimo. Solo un evento politico ci porterà fuori. Forse dovremmo contribuire a che si verifichi. Ciò detto, la sinistra non la si ricostruisce solo sul no-euro. Per questo basta Salvini. E’ necessario un ripensamento più profondo e ampio. Ma vanno ricostruiti i paletti. Va compreso dove il socialismo reale ha fallito. Va compreso se e come si può riproporre oggi un compromesso socialdemocratico. Va ricostruita la centralità della sovranità costituzionale, vale a dire la libertà per ogni popolo di perseguire gli obiettivi che ritiene giusti senza dittature sovranazionali. Va ricostruita la centralità dello Stato, di uno Stato democratico. Se non si crede a queste cose, non capisco perché si voti NO il 4 dicembre. Dispiace che l’unico quotidiano “di sinistra” mortifichi il dibattito, ospitando un confuso pensiero unico, cosmopolitico e neo-liberista de facto.

 

Da dove possiamo ripartire per una analisi della realtà non omologata al pensiero unico neoliberista e all'insegna del conflitto?

Abbiamo una montagna di pensiero solido a cui riferirci, nel libro ne offro una selezione. Abbiamo bisogno di studiare, di lottare e di studiare. Dobbiamo riprendere il coraggio intellettuale e politico per non arrenderci all’arretramento di civiltà a cui assistiamo e a cui ci pieghiamo assimilandone l’ideologia – come ho cercato sopra di argomentare. Il capitalismo vince perché abbiamo introiettato l’idea che non vi siano alternative. Serve studiare. Come diceva Marx: “La politica è studio: guai a chi si perde nei vuoti giri di parole… odiare a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare!” E serve più unità. E’ sconvolgente quanto forze vive della sinistra siano frammentate (penso al sindacalismo di base). C’è troppo settarismo e dogmatismo. Serve una sinistra che pensi, ma anche politicamente pragmatica e che abbia al cuore l’avanzamento sociale e non principi ideologici. Io le battaglie le voglio vincere. La sinistra a cui piace la lotta per la lotta, ché anzi nelle sconfitte si tempra la militanza, non è la mia.

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