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sinistra

La testimonianza dell’esistenza

di Antonio Martone

LagoCoghinas      1. Testimonianza

Anzitutto, la vera testimonianza va distinta da quella dei “falsi profeti” di cui il mondo è pieno fin dall’alba dei secoli. Quante ideologie sono nate nella storia umana? Non è possibile enumerarle ma soltanto evocarle, in maniera generica, nella loro carica di menzogna.

Eppure, non esistono molti elementi, né particolarmente sicuri, per distinguere il vero testimone. Indubbiamente, l’aver fatto esperienza di ciò di cui si testimonia è un dato imprescindibile per esser credibili. Un altro criterio su cui è possibile fare un minimo di affidamento è il fatto che il testimone autentico non pretende di identificarsi con ciò che testimonia. La testimonianza di un evento è comunque un’altra cosa rispetto all’evento stesso, e chi pretendesse di incarnarlo in toto, cadrebbe ipso facto nel ruolo dell’ideologo. In altre parole, è peculiare alla testimonianza che la conoscenza testimoniale non risieda propriamente in noi, ma in qualcun altro. L’Altro a cui ci si richiama, testimoniando, evoca un’esperienza ritenuta degna di essere - appunto - testimoniata.

La testimonianza dell’esistenza - pertanto - è un’azione mondana che può essere intesa sia in senso soggettivo sia oggettivo. Se la intendiamo nel primo senso, mettiamo l’accento sul portatore della testimonianza – il testimone appunto -, se invece la intendiamo in senso oggettivo, l’accento cade sull’esistenza e allora la testimonianza si mostrerà strumento attraverso cui l’esistenza stessa, e la sua specifica ontologia, si dispiega nel mondo, diventando evento d’una realtà che inesorabilmente trascende la soggettività testimoniale.

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operaviva

Intersoggettività o transindividualità

Materiali per un'alternativa

di Vittorio Morfino

Claire Fontaine Untitled Thank you 2004 800x750Arriva in questi giorni in libreria, per manifestolibri, il saggio di Vittorio Morfino, Intersoggettività o transindividulità, un libro che ripercorre alcuni momenti chiave del pensiero filosofico moderno e contemporaneo leggendoli alla luce dell’alternativa tra le categorie di intersoggettività e transindividualità, tra una filosofia che pone lo spazio di interiorità dell’ego come un prius logico e ontologico e una che pensa in modo radicale la costitutività delle relazioni. Si tratta di un libro importante nel panorama del pensiero politico contemporaneo: una critica puntuale della categoria di intersoggettività letta come espressione di una filosofia dell’individualismo possessivo. Ne anticipiamo qui alcuni passi tratti dall’Introduzione, avvertendo il lettore che rispetto all’originale è stato alleggerito l’apparato di note per rendere più agevole la lettura online. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

* * * *

I termini “intersoggettività” e “transindividualità” sembrano ricoprire uno spazio semantico simile: il primo indica, attraverso il prefisso “inter”, la relazione che intercorre tra i soggetti, il secondo attraverso il prefisso “trans” designa questa stessa relazione, ma facendo riferimento all’individuo. Certo, si potrebbe marcare la differenza sottolineando che la preposizione “trans” indica non solo uno spazio “tra”, ma anche un attraversamento e un andare oltre. Resta il fatto che la differenza tra i due termini nel loro significato comune è assai labile e difficilmente percepibile. Questo potrebbe portare il lettore a pensare che l’“o” del titolo sia da pensare nel senso del “vel” latino. In realtà, l’intento di questo libro è precisamente quello di porre, nel modo più netto e radicale possibile, un’alternativa: aut intersoggettività, aut transindividualità.

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quadernidaltritempi

Il reale non è razionale ma piuttosto paradossale

di Roberto Paura

Il diario filosofico di Francesco D’Isa investiga e propone nuove soluzioni al paradosso dell’esistenza

In rilievo letture assurda evidenza AUno dei più influenti passi del pensiero occidentale risale allo pseudo-Dionigi, un autore del V secolo che si spacciava per quel Dionigi l’Areopagita che Paolo di Tarso aveva convertito per primo ad Atene. Nella sua Teologia mistica, lo pseudo-Dionigi aprì la strada alla cosiddetta teologia negativa, secondo cui tutto ciò che possiamo dire della Causa di tutte le cose (cioè di Dio) è ciò che non è:

“[…] non è parola né pensiero, non si può esprimere né pensare; non è numero, né ordine, né grandezza né piccolezza né uguaglianza né disuguaglianza né similitudine né dissimilitudine; non sta fermo, né si muove né riposa; non ha potenza e non è potenza; non è luce, non vive, né è vita; non è sostanza, né eternità né tempo; non è oggetto di contatto intellettuale, non è scienza, non è verità né regalità né sapienza; non è né uno, né unita né divinità né bontà; non è spirito come lo possiamo intendere noi, né filiazione né paternità; non è nulla di ciò che noi o qualche altro degli esseri conosce, e non è nessuna delle cose che non sono e delle cose che sono […]”

(pseudo-Dionigi, 2020).

Circa tre secoli prima, qualcosa del genere fu proposto anche da uno dei principali filosofi buddhisti, Nāgārjuna (ca. 150-200 d.C.), fondatore della scuola dei Mādhyamika, sostenitori della “vacuità” del Tutto. Secondo la loro tesi, non esiste nulla a cui possa essere conferito il concetto di essere come proprietà di per sé, poiché l’esistere è possibile solo in relazione a qualcos’altro. Ne consegue che il pensiero umano deve allenarsi a comprendere la non-sostanzialità attraverso “tanto una determinazione positiva (della negazione) quanto una determinazione negativa (della natura propria), essendo caratteristica propria del pensiero appunto il definire escludendo” (Torella, 2020).

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doppiozero

A.G. Gargani: siamo solo al principio

di Ugo Morelli

unnameddrtghjk“…l’unico modo fertile di ‘conservarsi in vita’
è quello di complicarla”

[Aldo Giorgio Gargani]

Con lo stile unico di chi la filosofia la vive e non solo la pensa e la scrive, ad Aldo Giorgio Gargani giocavano le lacrime dentro agli occhi, quando ci confidava, negli ultimi anni, un evento. Una sera, alla fine di un incontro, mentre il suo amato allievo Alfonso Maurizio Iacono usciva di casa, al momento del saluto, si era scoperto a dirgli: chiuditi bene il cappotto, c’è parecchio freddo stasera.

Senza forzare la mano all’intimismo, che in nessun modo riguardava Gargani – prova ne sia la scrittura di Sguardo e destino [Laterza, Roma-Bari 1988], nonostante le incomprensioni e gli usi impropri che spesso non ne hanno riconosciuto il valore di straordinaria testimonianza filosofica – Iacono inizia il contributo all’importante e meritorio gruppo di saggi che la rivista aut aut [n.393; marzo 2022] dedica al filosofo suo maestro, con una nota personale. Quella nota assume uno spessore e una rilevanza che parla di Gargani e della sua ricerca per abitare quello spazio creaturale che si colloca irriducibilmente tra il pensiero e la vita. Oltre ogni cerimoniale della scienza e criticando ogni feticcio epistemologico. Posizione che molto gli sarebbe costata in termini di un’emarginazione e una distrazione per uno dei più importanti filosofi del ‘900, che tuttora persiste.

Abitare il rischio del pensiero, in modo vibrante e febbrile, è la distinzione del percorso di vita e ricerca di Gargani.

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doppiozero

Agamben. Tutto è reale

di Gianluca Solla

51w6UMXcwYLNon credo di essere il solo ad aver sempre amato nei libri di Giorgio Agamben la finezza con cui gli argomenti vengono prima posti e poi svolti, mediante riferimenti spesso sorprendenti. Da Walter Benjamin, di cui è stato curatore in Italia, Agamben pare aver appreso al meglio l’arte di coltivare percorsi all’apparenza marginali, ma che finiscono per andare al cuore delle questioni. Non sorprende, in un certo senso, che un lavoro teorico di tale finezza abbia spesso scontato un’accoglienza fredda, nonostante la sua ottima collocazione editoriale. Questa non-accoglienza, modesta quanto i suoi detrattori, ha significato dover passare dalla ricezione all’estero prima di ricevere attenzione nelle discussioni nella lingua in cui quei lavori erano originariamente scritti.

Un’altra caratteristica speciale dei suoi libri – penso in particolare al ciclo di Homo sacer – è sempre stata l’idea di costruire delle parti che si trovano a occupare una posizione eccentrica, ma strategica, rispetto al resto del libro. A queste sezioni, redatte in uno stile differente, viene solitamente affidata una funzione difficile da definire, ma essenziale rispetto all’argomento trattano. Accade così per i passi del progetto Homo sacer indicati da un alef (ℵ), che costituiscono come delle aperture improvvise di prospettiva rispetto a quanto il discorso andava sviluppando. O si pensi al Prologo iniziale di L’uso dei corpi (Homo sacer IV/2), dedicato alla figura di Guy Debord e alla sua vita, in un certo senso eterogeneo e, al tempo stesso, perfettamente calibrato rispetto alle finalità della ricerca (poi Debord non tornerà più all’interno di tutto il testo, se non en passant un’unica volta).

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acropolis

Paura 1/3. Filosofia e politica della paura

di Aldo Meccariello

immagine per la quarta di paura“La paura è il dolore provocato dalla rappresentazione di un male imminente” (Aristotele)

1. Prologo

«Qualche volta bisogna cercare di sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato. Parlerò sia pure brevemente del presente, e perfino un poco del futuro. Ma ci arriverò partendo da lontano».[1]

Guardare di sbieco il presente o guardarlo a distanza è forse questa la chiave che prendiamo a prestito dallo storico C. Ginzburg per leggere questo nostro tempo pandemico, difficile, inatteso, segnato dalla tirannide occulta e silenziosa del Covid-19. Se c’è un sentire diffuso oggi, questi è la paura, il male oscuro, insidioso da cui tutti vorremo stare lontani, l’emozione arcaica che spinge l’essere umano ad agire d’istinto dinanzi a una situazione di pericolo per badare alla sua sopravvivenza.

Per l’umanità stanno aumentando i rischi di catastrofe: prima le guerre di ieri e di oggi, poi il devastante inquinamento ambientale, ora le pandemie. Dinanzi a questi rischi e ai connaturati danni irreversibili, regna la paura. Il Covid-19 ha provocato la più grave crisi economica, politica, sociale e sanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale. La percezione è che l’umanità sia ri-precipitata davvero in tempi bui.[2]

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operaviva

Dialettica dell’irrazionalismo

Lukács tra nazismo e stalinismo

di Enzo Traverso

Il saggio «Dialettica dell’irrazionalismo» di Enzo Traverso (ombre corte, 2022), appena arrivato in libreria, è uscito l’anno scorso in inglese come introduzione alla nuova edizione di «The Destruction of Reason» di György Lukács, per la Verso. La traduzione è stata curata da Gigi Roggero, rivista e aggiornata dall’autore. In occasione della sua pubblicazione per ombre corte pubblichiamo qui l’Introduzione. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.

Andy Warhol Hammer and Sickle 696x518Sono molte le ragioni che suggeriscono oggi, a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, una rilettura di La distruzione della ragione di Lukács. Per i filologi e gli storici della filosofia sono ovvie: si tratta di riscoprire una delle opere più ambiziose di uno dei grandi pensatori del Novecento. Ce ne sono altre, altrettanto ovvie, che derivano dall’interesse intrinseco di questo libro, profondamente contestabile ma ricco di idee. Tutti riconoscono che dei legittimisti fanatici come Joseph de Maistre e Donoso Cortés, un filosofo fascista come Giovanni Gentile, dei pensatori conservatori compromessi col nazismo come Martin Heidegger e Carl Schmitt, meritano di essere letti e meditati. Perché non dovremmo riservare un analogo trattamento a Lukács?

Si possono ricavare delle lezioni utili dalle opere dei cattivi maestri, ma per questo bisogna saperli leggere, non per seguirne l’insegnamento, ma andando oltre la semplice condanna che nasce da un’interpretazione angusta e sterile. L’apologia dello stalinismo che permea La distruzione della ragione, pubblicata a Berlino per i tipi di Aufbau Verlag nel 1953, appare oggi indegna e colpevole, ma va spiegata e compresa nei suoi significati. Non per giustificarla o “perdonarla” – come faceva Hannah Arendt nel 1970, rievocando i trascorsi nazisti di Heidegger – ma perché non è aneddotica; essa getta luce su una tappa fondamentale del percorso del suo autore e anche, al di là di Lukács, del marxismo e della cultura di sinistra durante gli anni più bui della guerra fredda. Bisogna insomma, per usare la formula di Leo Strauss, imparare a “leggere tra le righe”, interpretando un’opera come La distruzione della ragione non soltanto come un manifesto ma anche come un sintomo. È questo l’esercizio che cercherò di compie- re nelle pagine che seguono.

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acropolis

Pòlemos, padre di tutte le cose, 2/5. Lukács e Bloch nella grande guerra

di Antonino Infranca

doc 20220516 27175688 e1653035378457La Prima Guerra Mondiale divise fisicamente Bloch e Lukács in forma definitiva, non torneranno ad incontrarsi mai più. Essi avevano dato vita a una vera e propria simbiosi intellettuale, alla maniera di Schelling e Hegel o Croce e Gentile. Da questa distanza fisica, poi comincerà anche una distanza ideologica, fino al momento del confronto critico nel 1935, venti anni dopo. Torneranno a scriversi soltanto dopo la Seconda guerra mondiale.

Come è noto entrambi furono profondamente avversi alla guerra, al punto che Bloch per evitare la chiamata alle armi si rifugiò in Svizzera e vi rimase per tutta la durata della guerra. Le motivazioni che spinsero Bloch all’esilio sono nel suo pacifismo. Lukács, invece, aveva motivazioni di ordine più strettamente politico:

A proposito della guerra non posso proprio dire altro che io fin dal primo istante fui contro. La mia posizione era allora più o meno che le armate tedesche e austriache avrebbero forse battuto i russi, e allora i Romanov sarebbero caduti. Fin li, tutto bene. Poteva anche darsi che l’esercito tedesco e quello austriaco venissero battuti dall’esercito anglo-francese e che sarebbero caduti anche gli Asburgo e gli Hohenzollern. Pure questo andava bene. Ma poi chi ci avrebbe difeso dalla democrazia occidentale? Qui si può vedere come la mia avversione per il positivismo aveva anche motivi politici[1].

Lukács rifiuta la guerra ma non sa cosa proporre in sostituzione delle sue conseguenze, perché egli intuisce che questa è una nuova forma di guerra, è una guerra universale, che avrà conseguenze universali. Si ritrova in quella che Hegel chiamò la “mera negatività”. Gli era chiaro che la guerra era una forma di dipendenza della monarchia asburgica e con essa della società civile ungherese rispetto al Reich tedesco e alle sue mire di espansionismo imperiale in Europa.

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consecutiorerum

Il Nome del Padre: da primo(-rdiale) finisce coll’arrivare sempre per ultimo

di Roberto Finelli

Finelli 768x5761. Leggenda o inizio reale della storia?

Rileggere Psicologia delle masse e analisi dell’Io, il testo di cui si celebra quest’anno il centenario, insieme agli altri tre grandi saggi freudiani di psicologia sociale, quali Totem e Tabù (1912-13), Il disagio della civiltà (1929), L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), non può non significare rilevare il motivo di fondo del “nome del padre” che li attraversa tutti e in qualche modo li unifica. E sollecitarci alla domanda se la continuità della costellazione edipica, come motivo dominante della teoria della cultura e della società, non rischi di compromettere la teoria psicoanalitica di Freud, nel suo transito dalla psicologia individuale alla psicologia collettiva, curvandola da psicologia scientifica della storia in una filosofia della storia, gravata da troppo facili e semplicistiche presupposizioni, otrechè dal loro troppo lineare e persistente operare.

A tutti è ben noto quale accadimento reale Freud abbia posto in Totem e Tabù a fondamento della storia umana e del passaggio da natura a cultura. La condizione primordiale della vita associata, ancora in una condizione di natura, sarebbe stata quella di un’orda primordiale in cui un maschio padre, prepotente e geloso, aveva il monopolio di tutte le femmine, escludendo dal loro possesso, tutti i figli maschi. Con la conseguenza che, come scrive Freud in quel testo: «Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all’orda paterna. […] Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’’obbedienza posteriore’, che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili»1.

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consecutiorerum

Il centenario di Psicologia delle masse e analisi dell’Io

Psicoanalisi della storia o scienza della storia?

di Roberto Finelli & Luca Micaloni

Introduzione a Consecutio rerum n. 11, anno VI (1/2021-2022), Il centenario di Psicologia delle masse e analisi dell’Io a cura di Roberto Finelli e Luca Micaloni

Copertinanjug1. Lo scorso anno è caduto il centesimo anniversario di Massenpsycholo- gie und Ich-Analyse, il testo pubblicato da Freud nel 1921 sulla psicologia collettiva e la cui composizione s’intreccia profondamente con la stesura di Al di del principio di piacere, apparso qualche mese prima nel 1920. La nostra rivista dedica il suo numero 11, nella sezione monografica, al tema di questa ricorrenza, avendovi visto una occasione da non perdere per tornare a riflettere sulla questione del rapporto tra psicoanalisi e storia e su quella, ad essa intrinseca, della relazione tra psicologia individuale e psicologia collettiva, o psicologia sociale.

Psicologia delle masse e analisi dell’Io è componente fondamentale di quel quadrilatero con il quale Freud ha inteso stringere e definire una teoria psicoanalitica della storia e che accomunava, oltre al saggio del ’21, Totem e tabù, Il disagio della civiltà e Mosè e il monoteismo: opere dotate ognuna di una peculiarità di oggetto e di ambito di studio, ma tutte e quattro riconducibili a un impianto concettualmente unitario di fondazione e di spiegazione della storia umana, che facilmente si riassume nella centralità, per usare la celebrata espressione di J. Lacan, del “Nome del padre”.

La proposta freudiana d’interpretazione del formarsi di masse in cui predominano l’affettività e uno psichismo inconscio è, com’è ben noto, fondata sulla centralità di un legame libidico che lega un gruppo umano, regredito a una dimensione fusionale e priva di libertà del singolo, al padre/ padrone/capo. Nella massa, inoltre, ogni individuo appare libidicamente legato, da un lato, al capo attraverso identificazione/introiezione e, dall’altro, a tutti gli altri individui che esperiscono il medesimo innamoramento e formano con lo stesso contenuto oggettuale l’Ideale dell’Io.

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scenari

Behemoth e Leviathan exsistent. Carl Schmitt e l’arcano

di Ludovico Cantisani

carl schmittIl giurista tedesco Carl Schmitt rappresenta una delle pietre angolari del pensiero del Novecento. Non solo e non tanto perché sulle sue tesi, e soprattutto sulla sua nozione di “stato d’eccezione”, sono stati pubblicati innumerevoli libri, saggi e riflessioni, l’ultimo, di poche settimane fa, Che cos’è lo stato di eccezione? secondo Mariano Croce e Andrea Salvatore (Nottetempo, 2022). Schmitt è una pietra angolare anche e soprattutto in virtù della sua non sopita capacità di fare scandalo, uno scandalo che solo in parte si giustifica con la sua momentanea adesione e partecipazione ai primi anni del potere hitleriano in Germania. Ma sfogliare le sue pagine tuttora dona un brivido inesplicabilmente panico, come se in opere di filosofia del diritto in parte datate sia rimasto oscuramente celato qualcosa di grandioso, come un segreto antichissimo che si sporge alla luce.

Giudicata “ai limiti dell’escatologico”, e dello gnostico, da Franco Volpi, ogni pagina di Schmitt è prima di ogni altra cosa una grande lezione di eleganza di pensiero, e di stile. La prosa di Schmitt è segretamente ossessiva, come tutte le grandi prose, quando non lo sono apertamente. Senza dubbio, si tratta di un inseguimento: di riga in riga, di pagina in pagina, Schmitt insegue come un cacciatore sacro le “parole originarie” – il conio è suo – su cui intessere una griglia di interpretazione del politico, e del giuridico. Nihil aliud. Ogni fondazione parte dal tracciare una linea di confine, lo sa fin troppo bene Remo. Ecco allora i confini di Schmitt.

“Un intrigante amalgama di interpretazione storica e teoria politica, mitografia e teologia, filosofia ed esoterismo”, venne definito da Franco Volpi il fortunato saggio di Schmitt Terra e mare, in un’elencazione che potrebbe facilmente essere estesa all’intero corpus schmittiano, e a ogni discorso potenziale sulla sua prosa.

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machina

Guerra, capitalismo, ecologia

Sui limiti di comprensione della filosofia ecologista

di Maurizio Lazzarato

0e99dc f074be12bf2448abb3f0af3b85b342b4mv2Pubblichiamo il primo di tre interventi programmati a opera di Maurizio Lazzarato sui temi della guerra in corso sulla soglia dell’Europa. Lazzarato, che ha già pubblicato lo scorso 7 marzo un testo a riguardo nella sezione «mundi» di Machina (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-in-ucraina-l-occidente-e-noi), è autore del recente libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione. Classi e minoranze, ombre corte. Nel 2019 DeriveApprodi ha pubblicato il suo Il capitalismo odia tutti. Fascismo e rivoluzione.

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Di fronte alla guerra scoppiata in Ucraina, il filosofo ecologista Bruno Latour, è smarrito, sopraffatto dagli eventi: «Non so come tenere insieme le due tragedie», l’Ucraina e la tragedia del riscaldamento globale. L’unica cosa che afferma è che l’interesse per l’una non deve prevalere sull’interesse per l’altra.

Non riesce a cogliere la loro relazione, eppure sono strettamente legate perché hanno la stessa origine. Latour, per capirci qualcosa, dovrebbe prima ammettere l’esistenza del capitalismo, che è il quadro nel quale le due guerre emergono e si sviluppano.

La guerra tra Stati e le guerre di classe, di razza e di sesso hanno da sempre accompagnato lo sviluppo del capitale perché, dai tempi dell’accumulazione primitiva, sono le condizioni della sua esistenza. La formazione delle classi (degli operai, dei colonizzati, delle donne) implica una violenza extra-economica che fonda il dominio e una violenza che lo conserva, stabilizzando e riproducendo i rapporti tra vincitori e i vinti. Non c’è capitale senza guerre di classe, di razza e di sesso e senza Stato che ha la forza e i mezzi per condurle! La guerra e le guerre non sono delle realtà esterne, ma costitutive del rapporto di capitale, anche se da molto tempo sembra che ce ne siamo dimenticati. Nel capitalismo le guerre non scoppiano perché ci sono gli autocrati brutti e cattivi contro i democratici belli e buoni.

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scenari

La risata del filosofo. Foucault contro Marcuse, uno scontro sotterraneo

di Ludovico Cantisani

Marcuse vs Foucault 1160x480Herbert Marcuse, Michel Foucault: tanto vicini, quanto distanti, vicini per tematiche e risonanza culturale, distanti per metodo, impostazione, direzione.

Quello tra Marcuse e Foucault è un confronto tra metodi diversi, che si consuma anche attraverso differenti lessici. Civiltà vs. società: è tra queste due prospettive che, in partenza, si consuma il loro “scontro” e si misura la reciproca distanza. L’ideale, che diventa anche imperativo utopico, è il modo di procedere per Marcuse, di cui non si contano i richiami quasi platonici a concetti come Eros, Thanatos e a un mito freudiano quale era il principio di piacere. La messa in chiaro di strutture, di luoghi fisici che sono anche dispositivi sociali come la prigione o il manicomio è invece il metodo entro cui si esplica il procedimento a un tempo storico e filosofico adottato da Foucault, impegnato a definire le ambivalenze del rapporto tra sapere e potere.

“Là dove tutto è proibito, chi vuole in fondo può fare tutto, ha la possibilità reale di fare tutto; là dove invece è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa”

Pier Paolo Pasolini, 1975

Il più sessantottino dei libri di Marcuse è Eros e Civiltà, un’esplicita reprise in chiave utopica e rivoluzionaria del Freud del Disagio della civiltà. Eros e Civiltà esce nel 1955, ma solo negli anni Sessanta raggiunge il grande pubblico. Il libro seppe infatti conquistare le schiere di hippies e manifestanti che affollavano le università americane al tempo della Contestazione e delle proteste contro la Guerra nel Vietnam.

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machina

Movimento e tempo in Aristotele (III parte)

La critica di Aristotele alla reificazione del tempo

di Franco Piperno

0e99dc f78e5f83193448c988a8b1f54204cce0mv2Continua la pubblicazione dei contributi di Franco Piperno dedicati alla questione del tempo e, in particolare, alla relazione sotterranea tra tempo comune e tempo scientifico. Questo rapporto era già stato indagato attraverso il racconto delle «due imprese di Pigafetta» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/le-due-imprese-di-pigafetta). Ora l’autore si rivolge alla fisica aristotelica per sviluppare una considerazione sulla nozione di tempo naturale, cioè fisico (Qui prima e seconda parte).

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1. L’«ora» come istante indivisibile e l’«ora» come presente

Il resoconto aristotelico del tempo come «numero del mutamento» non include la relazione temporale di simultaneità. D’altro canto un modo per venire al significato di «istante indivisibile» è tramite il concetto e l’annessa definizione di simultaneità; inversamente, data la nozione d’«istante», il «simultaneo» è ciò che accade allo stesso istante.

Anche in questo caso, soccorre l’analogia tra il punto e il segmento di retta – il punto geometrico, in se stesso indivisibile, di lunghezza nulla, non è un elemento ma piuttosto il limite del segmento; analogamente si possono individuare i concetti temporali corrispondenti. Tuttavia sarà bene avvertire che l’analogia va agita con prudenza; infatti, mentre la lunghezza di un segmento si presenta tutta intera alla volta, simultaneamente, l’intervallo temporale comporta che il suo inizio e la sua fine non siano simultaneamente presenti.

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Movimento e tempo in Aristotele

di Franco Piperno

Continua la pubblicazione dei contributi di Franco Piperno dedicati alla questione del tempo e, in particolare, alla relazione sotterranea tra tempo comune e tempo scientifico. Questo rapporto era già stato indagato attraverso il racconto delle «due imprese di Pigafetta» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/le-due-imprese-di-pigafetta). Ora l’autore si rivolge alla fisica aristotelica per sviluppare una considerazione sulla nozione di tempo naturale, cioè fisico

0e99dc 46f806eaeccc43b2947eef0c73f291b7mv2Premessa

Il tempo, l’idea del tempo, è spesso la qualità fondatrice di una concezione comune del mondo. Il tempo, il tempo comune, il tempo pubblicamente misurabile ordina le azioni sociali secondo il «prima» ed il «dopo». Il tempo rende, così, intelligibile il movimento. Ma, come ogni concetto fondatore, il tempo, spesso, diviene cosa; e ci appare come realmente esistente. Anzi ci appare talvolta, paradossalmente, più reale che le cose. Le idee comuni, le idee costitutive del senso comune, trovano la loro sostanza nell’accordo sociale; questo significa che un concetto fondante del senso comune è reale solo perché è condiviso da una moltitudine di individui. Un’idea totalitaria, poi, cioè un’idea unanimemente accettata, fa nido nello spirito dell’individuo, diviene così un concetto irriflesso, quasi un istinto – in modo che l’idea appaia meno come un mezzo di dare ordine al mondo che un frammento del mondo, il più vero forse.

Il tempo come la causa, il numero o la libertà, è un’idea, anche se si tratta di un’idea-paradigma. Ma un’idea di questa natura appare all’individuo come cosa del mondo malgrado si tratti di un simbolo per ordinare le cose del mondo. E come le cose del mondo si sottrae alla riflessione critica e all’interrogazione: perché quel che esiste è ovviamente considerato ragionevole. Infatti i paradigmi concettuali non si aprono alla critica che durante le crisi sociali. Una crisi sociale è prima di tutto una crisi della comune concezione del tempo.

La temporalità, cioè il modo d’apprendere il cambiamento, è un’esperienza necessariamente collettiva, essa caratterizza non solamente una società ma perfino una comunità.