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La scommessa giocata nell'atelier del Principe

Roberto Ciccarelli

L'esperienza della rivista «Centauro» ripercorsa in un volume. L'incontro tra teorici tra loro eterogenei, ma accomunati dalla convinzione che la crisi della modernità coincideva con l'eclissi delle categorie del politico.

Nei diciotto numeri coordinati dal filosofo napoletano Biagio de Giovanni, la rivista di filosofia e politica Il Centauro ha espresso una delle caratteristiche che hanno reso la riflessione italiana sulla «politica» ad un tempo ardua e singolare. Ardua perché ha saputo tenere il polso dell'analisi filosofica del presente, senza mai rinunciare alla densità del linguaggio e all'articolazione dei concetti rispetto agli scarti imposti dalla realtà viva della politica. Singolare perché, sul finire di un decennio di grandi trasformazioni, gli anni Settanta, alcuni tra i più significativi intellettuali che fino ad allora avevano fatto base nel Partito comunista iniziarono ad interrogare la «crisi della modernità». Una formula che faceva eco al nascente dibattito sulla fine dei grandi racconti moderni sulla politica, sulla storia e sulla filosofia lanciato nel 1979 da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna allargandosi presto ad una dimensione imprevista dal suo stesso promotore, quella della fine della storia, dell'irrapresentabilità del conflitto sociale e della razionalità come prerogativa di un processo di modernizzazione della politica.


Congedo dallo storicismo


Ben lontana dall'euforia degli slogan passepartout più venduti sul mercato del «postmodernismo», tra il 1981 e il 1986, Il Centauro ha preso congedo dalla griglia storicista ed umanistica che aveva strutturato una parte cospicua della cultura del Partito comunista. La sua vicenda politico-intellettuale è stata rievocata da Biagio De Giovanni in un'intervista contenuta nell'antologia La crisi del politico. Antologia de «Il Centauro», curata dal ricercatore in filosofia Dario Gentili (Guida, pp. 427, euro 24). Privo di «linea politica», impermeabile alle personalità dominanti e fautore di una collaborazione tra pensatori diversi come, tra gli altri, Bruno Accarino, Giorgio Agamben, Remo Bodei, Massimo Cacciari, Umberto Curi, Giuseppe Duso, Roberto Esposito, Giacomo Marramao e Vincenzo Vitiello, Il Centauro ha sancito la morte dell'intellettuale organico, quella figura di intellettuale specialista delle «scienze umane» che interpretava il proprio ruolo in qualità di dirigente politico. In quei primi anni Ottanta, intellettualmente vivaci a dispetto di una ricorrente rappresentazione all'insegna del riflusso, si affermava invece uno stile di analisi improntato all'estrema personalizzazione degli strumenti teorici e alla sofisticata articolazione concettuale che ancora oggi costituiscono la cifra della riflessione italiana sulla «politica».

Le origini della rivista furono polemiche. Uno degli elementi fondanti di quella koinè filosofica era costituita dal disagio, per non dire dalla cosciente volontà di superare una cultura che, nelle intenzioni del suo demiurgo, Eugenio Garin, avrebbe dovuto declinare la modernità riattualizzando i principi dell'umanesimo politico italiano. De Giovanni racconta le numerose pressioni da parte di Gerardo Chiaromonte, di Alfredo Reichlin e di Giorgio Napolitano affinché il gruppo del Centauro evitasse di unirsi a quello guidato da Mario Tronti che, dal 1981 al 1983, diede vita alla rivista Laboratorio Politico. Un'interdizione avvenuta, a quanto sembra, per ragioni tattiche, più che strategiche, a difesa di un edificio intellettuale che aveva tuttavia già perso la propria quadratura intellettuale sin da quando il filosofo della scienza Ludovico Geymonat ne aveva denunciato la diffidenza per la cultura scientifica.

Era la stessa diffidenza che aveva rigettato la Scuola di Francoforte e i nuovi paradigmi delle scienze fisiche, naturali e sociali. Senza contare che, già negli anni Cinquanta, quel peculiare umanesimo aveva celebrato il divorzio con lo spinozismo di Antonio Banfi e l'empirismo fenomenologico di Giulio Preti che potevano rappresentare l'alternativa culturale alla linea «nazional-popolare» imposta dalla torsione storicistica della lettura dei Quaderni del carcere di Gramsci alimentata dal gruppo dirigente del Partito comunista e declinata nella trinità «De Sanctis-Croce-Gramsci».

Nel quinquennio del Centauro emerse la coscienza della crisi radicale di uno dei principali topos di questa cultura politica. Lo stretto legame che aveva unito la classe al partito era ormai spezzato. Sullo sfondo di questa nuova consapevolezza, emergeva l'irriducibile distanza che separava i soggetti della politica statale da una nuova realtà che non godeva più della garanzia trascendentale dell'ordine politico. Alla politica non poteva più essere attribuito il ruolo di razionalizzare una società che aveva smarrito la propria consistenza nazionale e i cui soggetti non riconoscevano più il ruolo di un sovrano unico ed universale. La sfera del «politico» non poteva quindi essere più separata dalle forme sociali, antropologiche e psicologiche che aveva cercato di dominare, trasformare o persino creare dal nulla durante la lunga vicenda della sua «modernità». Era lo stesso concetto-simbolo del centauro, che dava il titolo alla rivista e proveniva dalle fulminanti pagine del Principe di Machiavelli, a riassumere questa scissione in una tragica coesistenza dei contrari. La politica non poteva più affidarsi a soggetti capaci di mediare il conflitto, dato che quel conflitto era iscritto nella propria ragion d'essere. Ad essa veniva attribuito l'ingrato compito di tenere insieme la forza e l'ordine, «la volpe e il leone», la vita e le sue forme.

Il Centauro diede a questo problema almeno due risposte. Da una parte, c'era il «pensiero negativo». Dall'altra parte, c'era il «pensiero dell'impolitico». Il primo assumeva la crisi come dimensione originaria del politico al quale attribuivano la capacità di creare nuove forme politiche in forza della sua potenza decisionistica. Il secondo, al contrario, accettava l'estinzione del soggetto al quale il pensiero negativo attribuiva ancora una rappresentabilità, sebbene non più fondata sul lavoro come aveva stabilito il marxismo tradizionale. Nascevano così traiettorie «geo-filosofiche» opposte: la prima rivalutava gli autori della cosiddetta «rivoluzione conservatrice», Carl Schmitt, e poi Nietzsche, Heidegger e Wittgenstein. La seconda approdava sul versante francese dove, con Derrida, Foucault, Deleuze e Nancy, la crisi del soggetto politico moderno era stato inteso come liberazione dalla pretesa di imporre una forma sovrana alla vita dei singoli.


La carne del capitale


A distanza di vent'anni, queste traiettorie sembrano avere allargato le distanze tra i protagonisti del Centauro, al punto che oggi risulta difficile trovare un minimo comune denominatore tra le loro proposte. La crisi che sembrava limitata ad un territorio circoscritto, quello dei concetti della politica, si è estesa alle stesse premesse dell'interrogazione filosofica, al punto da rendere incompatibile ogni rapporto tra filosofia e politica. Il soggetto che si riteneva amleticamente sospeso sul bordo degli eventi di una politica che aveva abbandonato gli orizzonti rassicuranti della sovranità è stato nel frattempo riportato con violenza nel mondo, mentre il mondo è diventato la pelle che aderisce perfettamente alla carne del capitalismo globale. L'esito della razionalizzazione che qualcuno sperava avrebbe corretto le antinomie irriducibili del politico, ne ha invece stravolto la natura, al punto che oggi la politica non regola ormai più nulla, ma è regolata dalla forma globale del capitale. Non si può tuttavia sostenere che, in questa cornice, la politica sia stata esiliata nell'ambito della contingenza nella quale le tragedie si ripetono in parodie. Ciò che in realtà è venuto meno è proprio il sogno della modernità che sancisce l'esistenza di una soggettività che si auto-emancipa e si eleva al cospetto della storia. La politica è rimbalzata in ambiti impensabili rispetto all'epoca in cui l'analisi si arrestava alla constatazione della sua crisi. Essa agisce in un sistema senza bordi né confini, una totalità integrata che investe con inaudita radicalità le falde biologiche della vita e le relazioni tra le persone.


Aspirazioni tradite


Era questo il problema sollevato da una delle traiettorie «geo-filosofiche» presenti nel Centauro, che rende ancora attuale alcune delle domande a cui la rivista ha provato a dare risposta, anche rispetto ad altre linee contemporanee che non hanno condiviso la sua storia politica, né le polemiche di una stagione. Il vero rovello che oggi attraversa le discipline, mescola i linguaggi e ricalibra gli obiettivi è la domanda su come vivere politicamente fuori dal recinto della politica moderna ispirata dalla sovranità. Molteplici sono le risposte, ma probabilmente unica è la premessa: l'infondabilità della decisione politica non allude al ritorno dell'arbitrio puro e semplice, ma dipende dal fatto che ogni soggettività si costituisce rispetto a situazioni specifiche e mai normative. Per il pensiero politico che non accetta di piegarsi alla contemplazione nostalgica delle proprie aspirazioni tradite, né all'inclusione selvaggia del mondo dentro il capitale, vale ancora l'invito rivolto a suo tempo da Deleuze: «il pensiero non è mai un problema di teoria. È un problema della vita. È la vita stessa».

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