Sragioni. Una lettura di Freud attraverso Derrida
di Brian Vanzo
“Ma come troveremo noi stessi in quel vuoto e ripugnante ficcare il naso nelle cose della psiche, in un volgare auto-rispecchiamento?” (M. Heidegger, Seminari di Zollikon, Guida Editore, Milano 2000)
“Non è facile suonare lo strumento della mente” (S. Freud)
Queste pagine di approfondimento nascono dal desiderio di approcciare in modo eretico – e perciò parziale e non esaustivo, anche se non fazioso – il pensiero freudiano e la sua complessità. Per farlo seguirò le orme di un grande pensatore del ‘900, Jaques Derrida, che ha saputo allargare l’orizzonte della psicoanalisi, fecondandola con i linguaggi e le problematiche della filosofia.
Un’introduzione alla decostruzione.
La decostruzione non si configura primariamente come una corrente di pensiero o una scuola filosofica bensì è essenzialmente una pratica, come la psicoanalisi1. Decostruire un testo è un atto trasgressivo e fecondante, una strategia di lettura dei significanti strutturati e di ogni tradizione e istituzione (sì, anche di quella analitica…), una possibilità che apre e che contesta il modello ontologico preteso come fondamento da una metafisica della presenza e del proprio, del possesso e dell’economia: in una parola, è decostruzione del logocentrismo, de-sedimentazione di tutte le significazioni che sono state originate solo dal logos.
Questo movimento di lettura del testo permette di attendere la venuta stessa dell’Altro, l’irruzione (intrusiva e liberante) dell’evento che ristruttura il contesto e genera, nuovamente, il senso.
Derrida2 si interessa ai suoi inizi prevalentemente di epistemologia, e si avvicina a Husserl in quanto teorico della conoscenza per accentuarne la riflessione sull’individualità storico sensibile del soggetto conoscente. E’ un interrogarsi genetico: convinto che il linguaggio sia costitutivo dell’idealità, e non solo un mezzo di trasmissione delle idee, Derrida si frappone nel rapporto tra individuale e universale. L’io empirico è per il filosofo la condizione di possibilità dell’Io trascendentale, e il vero trascendentale ha un ruolo determinante rispetto all’esperienza perché è una legge del conoscere che dipende da una conformazione originaria dell’essere.
La filosofia allora si assume il compito di superare la metafisica, di portare alla luce l’a-priori che esiste precedentemente alla distinzione tra mente e mondo, un tertium pre-trascendente che accomuna idee e oggetti del/nel mondo.
Decostruire è muovere dal dato, da ciò che cammina nel mondo, e risalire alle sue condizioni, esibendo le strutture necessarie dell’esperienza per far emergere l’a-priori celato nel mondo. In questo modo non si spalanca la porta al relativismo ma si stabilisce un nuovo inizio, un’articolazione diversa delle leggi del trascendentale, dove il soggetto non è trattato come una coscienza teorica ma come un’esistenza impregnata di un ambiente vitale e scandito da schemi concettuali con precisi obiettivi non necessariamente legati alla conoscenza3.
La decostruzione si fa dunque carico dell’impasse del progetto fenomenologico che si trova stretto da un’esigenza di descrizione della realtà da una parte e dall’attenzione per l’insorgenza del soggetto dall’altra: il fondamento originario, la sintesi a priori temporale che costituisce il fenomeno nel suo darsi è irriducibile all’accesso della fenomenologia, e la possibilità che l’Io trascendentale possa porsi delle questioni prima della riduzione trascendentale operata dalla fenomenologia è considerata da Derrida un paradosso4.
Il logocentrismo occidentale accentua la verità che si dà nella coscienza, che è origine del discorso, ma dimentica che la coscienza è originariamente attraversata dalla propria differenza. Anche nel presente infatti è mossa protenzionalmente e ritenzionalmente: è la ripartenza5 decostruzionista dalla fwnh¢, dalla voce che nella coscienza si rapporta al fuori partendo da dentro e che, pur cancellandosi immediatamente, lascia traccia di sé. Rinunciando ai presupposti metafisici del trascendentalismo e dell’evidenza Derrida incrocia un’altra origine: sentendosi parlare, sdoppiandosi, la coscienza si genera in una sorta di rimbalzo, in un movimento di differenza.
L’alterità è all’origine: nella sua attenzione per la genesi del fenomeno, Derrida scardina le opposizioni tra empirico e trascendentale e forza il limite della donazione del fenomeno alla coscienza, pensando una donazione che rinunci all’idea di autodonazione.
a1. La différance
In greco è una spaziatura, in latino ha il senso del differimento temporale; come se segnasse il tempo e lo spazio di un’alterità ancora a venire ma sempre possibile: il senso si dissemina, e non in una sostanza, in un nome ma in un’attività che si manifesta nei suoi effetti. In francese si pronuncia come différence, ma è una différance, scritta, vergata, traccia di un sorgere che assume un significato genetico senza essere necessariamente riferito al soggetto intenzionalmente attivo.
La a della différance è il movimento del dispiegamento del differire: molto più avanti del dilemma ontico – ontologico, essa trae le mosse dai frammenti selvaggi e nomadi della frattura (anche psichica) dell’ultimo Nietzsche e del gioco tra Apollo e Dioniso; si coglie nelle traiettorie di supplementarietà ed estraneità della coscienza che Freud a più riprese evidenzia; è in lotta costante con l’ultimo tempo della dialettica hegeliana pur nel recupero del rapporto differenziante e contraddittorio tra tesi e antitesi; si muove nell’impensato della differenza ontologica tra ente ed essere individuato da Heidegger.
La différance non si lascia determinare in quanto tale e non può essere esposta, raccontata, descritta in sé, ma è un movimento attivo-passivo (di separazione, e di riconoscimento) che produce effetti di differenza. E’ però possibile nominarla: seppure ciò che differisce non si dà, il differire della differenza lascia traccia in altro senza essere altrove, aprendo alle infinite sostituzioni e alterazioni del senso. Pertanto, pur imbrigliati in un linguaggio altalenante tra empirico e trascendentale, pur con i retaggi della presenza assordante dell’Essere, possiamo mostrarla nei suoi effetti (non nelle conseguenze), nel suo differenziarsi (anche da sé).
a2. La traccia e la Scrittura
Decostruire è anche compiere un grecaismo, trattare ogni testo come un Talmud: cercare nel testo filosofico (ma non solo) i concetti che non si lasciano configurare in nessun sistema di pensiero per ri-generare il senso. Attraverso le eccedenze del senso la decostruzione permette l’avvenire dell’altro, allestendo una filosofia in effetti perché performativa.
E’ un po’ come se il testo letto attraverso la decostruzione fosse un tessuto imbastito, ma non ancora confezionato: il libro è sempre aperto nella direzione del proprio fuori, e questo è indicato dall’esperienza (impossibile) della traduzione. Il senso, anche quello patente, è costitutivamente differenziale, e lascia sgorgare i propri rivoli proprio grazie alla sua costituzione differenziale. Prima della parola, e della voce, c’è l’annuncio dell’altro: il segno – della scrittura – ci prende alle spalle perché esiste già sempre prima che noi lo costruiamo come tale, e al contempo il segno conserva le parole che esprimono idee; e questo proprio nella scrittura. Ma ancor prima c’è la traccia, che nel segno è ricordata, ed è il fendersi, lo spaziarsi, il bianco, il bordo del margine, l’imene: tutti concetti limitali che superano le coppie concettuali da sempre antitetiche nella filosofia del metafisico. Nella scrittura, attraverso il segno memoria della traccia, emerge la différance che permette l’attesa del senso.
La scrittura fin dagli egizi è considerata farmakon, veleno e rimedio inscindibilmente doppio e costantemente in bilico tra due opposizioni che procedono ben oltre le opposizioni platoniche (anima/corpo; parola/scrittura/; intellegibile/sensibile). Nella ri-scrittura decostruzionista emerge la frattura, il crinale tra rimedio e veleno, e l’andirivieni (senza ambiguità) dello scrivere come atto contemporaneamente del ricordo e del futuro.
Derrida denuncia l’infiltrazione della metafisica ovunque, ordine che si impone su ogni altro: etnocentrismo europeista, storicismo, metafisica e scientificità della presenza, logica della non-contraddizione. Il logocentrismo stabilisce il primato del logos rispetto al vero: nella filosofia della totalità il logos è visto nel dialogo dell’anima con se stessa come produttore di senso. Ma è la voce la rivelazione dell’anima; e anche se questa voce è diventata attraverso la metafisica della presenza l’ennesimo scacco della rivelazione perché è stata considerata senza differenza, in un’immediatezza che cancella la distanza tra voce e coscienza e tra voce e rivelazione della verità, con la decostruzione si ri-afferma la possibilità di un Altro. Sapere non come idea senza irruzione dell’Altro, non storicismo che indossa la maschera della logica, ma come apertura all’incrocio tra anteriore e attuale, all’imprevedibile altrimenti sentito come un assoluto pericolo.
a3. La pratica decostruzionista
La decostruzione è una continua riscrittura che permette l’evento. Solca il passo falso della non alternativa tra significante e significato, generatrice di una genealogia unilaterale che rimuove altri figli possibili, grazie alla disseminazione del senso nelle faglie del non detto.
In pratica: innesta. Il contesto si arricchisce di un innesto nuovo, di una prospettiva che decostruisce le letture precedenti e apre a nuove traiettorie che verranno decostruite per essere innestate nuovamente di altri polloni. E’ un’operazione di giardinaggio, la generazione del novum grazie a una pianta, attraverso l’intaccatura, il marchio di un vegetale che sembrava seccare.
Non è polisemia, come a prima vista sembra. Non c’è ricapitolazione di senso, ma la decostruzione è invece una pratica seminale che fa essere diverso il testo e che lo rende capace di ritornare a sé solo dopo aver cambiato il contesto che lo accoglie6. Come un lancio di dadi: frutto della scrittura frammentaria e di effrazione di Nietzsche, la decostruzione coglie nella destinazione dello scrivere l’erranza del destino. E scrivere resta leggibile anche in assenza del destinatario, e sopravvive all’autore ben oltre la sua intenzione. Derrida sente il bisogno di determinare in modo differenziale gli effetti troppo conosciuti di idealità, significazione, di senso e di referenza: tenta di rovesciare nietzscheanamente i concetti di identità e differenza. Per questo introduce il rimando agli indecidibili, dei quasi concetti, simulacri di referenza, superando così i concetti della filosofia attraverso la strategia dell’innesto: la contaminazione originaria del senso nella scrittura unisce sia il “né – né” come l’”et – et”, proprio come il farmaco che è contemporaneamente veleno e rimedio (non di se stesso) ma anche nessuna delle due cose in un momento preciso.
L’attraversamento dell’Altro nei termini e nelle conquiste della metafisica della presenza permette una fecondazione che genera contraddizioni non dialettizzabili capaci di indicare un’eccedenza di senso che rende vivo il testo stesso. Pensare, così, si configura come un gesto sospeso, appeso alla scommessa e al rischio dell’avvenire dell’altro. Oltre le grammatiche dell’opposizione e della posizione si può retrocedere fino alla donazione, l’aver luogo del fenomeno che sfugge alle gabbie dell’identico.
a.4 La decostruzione e la psicoanalisi.
Derrida riconosce la sua filiazione a Freud: le topiche freudiane e la teoria/pratica analitica fanno emergere il pensiero del differre spazio temporale. Freud è condannato a un’aporia: riconosce nella metafora della scrittura la possibilità di una descrizione dell’apparato psichico e, al contempo, la différance incontrata dall’analisi mostra il superamento dell’organizzazione gerarchica. Il testo inconscio è intessuto di differenze, che non hanno però alcun luogo: il senso infatti si ricostruisce a posteriori, nachtraglich, in un secondo momento ma anche in modo supplementare.
Altro indizio molto caro della figliolanza freudiana è l’Unheimlickheit, l’inquietante differire spaziale dell’estraneo che ci è più proprio: curioso coincidere con il proprio opposto, heimlich si mostra come un pas-au-delà, un passo non al di là, terzo differimento tra principio di piacere e principio di realtà. Ma non anticipiamo…
Il testo di partenza: Al di là del principio di piacere.
Nelle sue opere precedenti, tra cui “L’interpretazione dei sogni” e “Psicopatologia della vita quotidiana”7, il padre della psicanalisi aveva teorizzato l’inconfutabile monopolio del principio del piacere sull’andamento dei processi psichici. Questo principio scaturito dal principio di costanza, ovvero dalla tendenza a conservare un livello di eccitazione stabile, viene posto al centro della psiche umana. In questo testo del 1919 questa egemonia viene mitigata; pur riconoscendo infatti al principio del piacere e di costanza un ruolo fondamentale all’interno della psiche, Freud elabora una nuova teoria psicoanalitica non direttamente connessa all’ottenimento del piacere o all’abbassamento del dispiacere ed addirittura precedente a questi principi.
Ciò che muove Freud è la ricerca dei punti di partenza delle nevrosi traumatiche che, specie in quel periodo post-bellico, attanagliavano un numero sempre crescente di individui8. L’indagine empirica di Freud si spinge così al riscontro di due differenti situazioni non riconducibili nella loro interezza al principio del piacere: perché i malati di nevrosi traumatiche sognano in modo ricorrente il ripetersi dell’incidente all’origine del proprio malessere? E, ancora, perché i bambini riproducono attraverso il gioco situazioni oggettivamente non piacevoli, come l’assenza di un genitore a cui sono molto legati9?
Si tratterebbe dei casi più espliciti di coazione a ripetere; ovvero, di quella tendenza psichica, indipendente dall’eccitazione alla base del piacere, che spinge a ricercare situazioni del passato spiacevoli, per poterle controllare. Per quanto questo principio risulti spesso intrecciato al principio del piacere, lo psicanalista austriaco postula, per la prima volta, la possibilità di un superamento di quest’ultimo: la coazione a ripetere è così espressione dell’energia del rimosso, essa è la manifestazione visibile in opposizione all’io razionale conscio e inconscio prodotto dal principio del piacere, che non ha alcun intenzione di liberare il rimosso. Ma, per quanto soffocata, questa energia repressa logora lentamente la psiche; la psicoanalisi si prefigge appunto la rievocazione di questo rimosso e il passaggio di eventi penosi ad uno stato di coscienza che ne prelude la liberazione. Un trauma si verifica quando, spiega Freud, un’eccitazione ad alta energia causata da uno stimolo esterno crea una breccia nello schermo psichico di protezione cioè all’interno della corteccia cerebrale. L’apparato psichico viene a questo punto invaso da un elevato numero di stimoli che hanno l’effetto di una deflagrazione, sconvolgendo l’ordine mentale10: il trauma è, così, figlio dello spavento, nasce cioè in assenza dell’angoscia, perché non c’è anticipazione né paura di qualcosa di ignoto. Questa assenza si traduce biologicamente in un mancato rafforzamento dello schermo di protezione posto al confine del cervello, che resta esposto ai forti stimoli esterni. Sono in questo modo spiegabili i sogni dei malati di nevrosi traumatica: il reiterarsi onirico dell’incidente infatti è l’ultimo tentativo della psiche di rimpadronirsi retroattivamente dello stimolo. Questa attitudine non è semplicemente indipendente dal principio del piacere, sembra piuttosto precederlo. Freud propone allora una ipotesi estrema: tutte le pulsioni avrebbero carattere conservativo (e dunque ogni evoluzione sarebbe frutto di fattori perturbanti e incontrollati, la nascita della coscienza compresa).
E la meta da raggiungere sarebbe la morte, una conclusione logica presentata quasi come se fosse il risultato di un sillogismo: se la meta di ogni pulsione è conservativa (volontà di ripristinare uno stato anteriore) e se ogni cosa che vive muore per cause interne (sua meta) allora la meta di ogni vita è la morte (e l’inanimato preesiste all’animato). E l’istinto di autoconservazione si potrebbe intendere come un percorso dell’organismo che desidera morire a modo suo, con i suoi tempi (e in questo si potrebbe vedere la base biologica delle concezioni del destino presenti nelle società antiche)11.
A questo si oppone però l’esistenza innegabile delle pulsioni sessuali: rappresentano l’immortalità potenziale attraverso la riproduzione e dunque una pulsione al prolungamento della vita individuale nella vita della specie. Le pulsioni sessuali, anche se non esisteva la sessualità e la differenza sessuale, attive fin dall’inizio della vita, vengono a comporre le pulsioni di Eros la cui tendenza si esprimerebbe nella tendenza a riunire le sostanze organiche in unità più grandi12.
Freud si rende conto di essere così giunto a Schopenhauer13 e si vede costretto – dopo aver ripercorso la storia del concetto di libido per la psicoanalisi – a sostituire l’originaria coppia oppositiva di pulsioni sessuali/pulsioni dell’Io, con la nuova coppia pulsioni di vita/pulsioni di morte. E visto il radicamento delle pulsioni di vita nella sessualità Freud ammette l’ignoranza della scienza e la necessità del ricorso al mito, sebbene ad un mito elaborato come quello platonico: il riferimento è all’encomio ad Eros che Aristofane tenne nel Simposio di Platone raccontando il mito dell’androgino. Il desiderio, inteso nelle parole del mito, è quello di ripristinare uno stato anteriore e manifesta dunque un carattere regressivo, tanto quanto la pulsione di morte14. Freud allora azzarda l’ipotesi che la sostanza vivente, nel momento in cui venne in vita, sia stata frantumata in piccole particelle che a tendono a riunirsi mediante le pulsioni sessuali. Ma è sul limitare di questa ipotesi che si chiude il vortice speculativo di Freud, e denuncia l’impossibilità di ottenere un sapere certo riguardo alle cose ultime – la vita, la morte, la sessualità – e con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto mette in luce i limiti strutturali del sapere scientifico: dopo aver ammesso la speranza che l’inadeguatezza del linguaggio psicoanalitico sia colmata, prima o poi, dalle terminologie fisiologiche o chimiche, egli ammette che anche queste fan parte di un linguaggio figurativo: anche la scienza è allora un racconto del mondo.
Essere giusti con Freud
Ci troviamo in una stazione ferroviaria. O meglio, su un treno; su dei binari che possono andare in una direzione ma anche agli opposti; e su quei binari viaggia un treno; e su quel treno un passeggero che ha la libertà di seguire l’andamento del treno o percorrere a ritroso gli scompartimenti del treno, in un viaggio che non segue nessun andamento prefissato. Leggere la psicoanalisi con Derrida attraverso Foucault15 è questo spaesante viaggiare attraverso testi e contesti diversi, non sintetizzabili ma nemmeno così lontani e necessariamente dialettici.
Tenteremo infatti un primo approccio all’interpretazione della psicoanalisi operata da Derrida nella feconda polemica con M. Foucault espressa nel libro “Essere giusti con Freud. La storia della follia nell’era della psicoanalisi”.
Foucault esprime un’ambivalenza. La psicoanalisi ha a che fare con la psicologia moderna, ma ne è anche esclusa, o meglio se ne esclude per ridare finalmente voce alla s-ragione mascherata dalla razionalità classica e dall’empirismo della psicologia. Tuttavia Foucault circoscrive la psicoanalisi nella tradizione medicalizzata del taumaturgico che reifica ogni espressione della psiche con un ordine magico16.
Ma Derrida non va in questa direzione, e osserva come il rapporto tra ragione e follia sia una struttura di differenza che ha un’originalità irriducibile17 e non riconducibile all’unità di una presenza originaria; ancora una volta è il differire che è stato dimenticato, obliato, rimosso, in virtù di una contrapposizione fittizia e volta a ridurre al silenzio ciò che è “più vicina alla sorgente viva anche se silenziosa o appena sussurrante del senso”18.
Derrida attribuisce molte immagini alla figura di Freud: è una charniere, asse attorno cui ruota un’epoca intera; non è topograficamente individuabile perché è un bordo19, un usciere di un’era e come tale sorveglia e segna il passaggio da un campo semantico all’altro.
E Freud per Derrida ha il merito di diventare responsabile della follia, costringendoci a comparirle davanti, senza bloccarla o senza imporle la maschera di (una) verità. Non la interna: e chi pensa diventa responsabile come Freud di ciò che la follia porta con sé. Senza oggettivazioni opprimenti cadono le dissimulazioni della psicologia positivista che ha cercato di imbellettare il viso della follia rendendola im-presentabile e finalmente qualcuno, Freud per l’appunto, scambia le parole con la s-ragione.
La follia diventa allora possibilità, e non è necessariamente patologia, discorso cattivo intorno a qualcosa, discorso cattivo in se stesso. Non è il Cogito di Cartesio a essere originario per il soggetto moderno bensì il Genio Maligno, la minaccia anteriore20, inizio metodico assoluto che non fa dimenticare il fondo di ossessione in cui la ragione stessa è immersa. E proprio nonostante questo Genio Maligno sia stato escluso dalla ragione e dal suo trionfo le determinazioni e le acquisizioni della ragione sono minacciate da un’eterna ossessione, perché ciò che è escluso non può mai semplicemente essere eliminato. E nonostante Foucault cerchi di affiliare la psicoanalisi alla tutela manicomiale della psichiatria di Pinel, e quindi di delinearla come erede della tutela dell’Ordine, dell’Autorità, della Punizione e della Famiglia, facendo dello psicoanalista un taumaturgo, si imbriglia nella logica ragionante. Essere giusti con Freud significa al contrario riconoscergli dei meriti. Innanzitutto l’intuizione che il linguaggio dell’uomo può sciogliersi nell’inaccessibile, e che quindi il soggetto non coincide solo con il cogito perché oltre alla verità e alla certezza si muovono le costellazioni dei significanti altri, a cui permettono l’accesso i sogni, gli atti mancati, il racconto. E l’altro merito della psicoanalisi è il coraggio di appostarsi su un confine, quello tra la psicologia dell’evoluzione della specie e una psicologia della storia individuale, traccia che si muove nelle altre tracce.
Freud supera la “rappresentazione”21 e quindi anche le cosiddette scienze umane che restano nello spazio del rappresentabile. Freud rompe ogni sudditanza con l’evoluzionismo, con il biologismo e con la psicologia stessa, diventando “genio” di se stesso e perciò accettando l’incontro con la finitudine in un’analitica del senso che si approssima all’intimità con la follia.
La psicoanalisi non presuppone, dunque; cerca gli eventi del mondo senza abdicare al lavoro del pensiero: accogliere i sintomi, ascoltare gli inganni e i rallentamenti, pazientare con i regressi senza neutralizzarli in schemi già sempre confezionati permette di far accedere alla propria intimità, attraversando le regioni scomode del lavoro analitico, una rielaborazione capace di portare a galla l’inconfessabile e perciò lo sgradito di ognuno.
Derrida lettore di Freud
Si potrebbe dire che da Freud, maestro del sospetto22, Derrida tenti un avvitamento che, semplificando molto, potremmo definire di ricostruzione: decostruendo il procedere dubitativo di Freud e le sue demistificazioni sull’assimilazione tra realtà e oggetto, Derrida trae nuova linfa per un cammino capace di dare voce all’alterità che abita anche l’inconscio.
Il libro “Al di là del principio di piacere” infatti va letto con un’avvertenza. Sottraendosi al requisito di un’istanza suprema cui comparire dinnanzi, funziona a-teticamente, senza posizioni, senza dogmi, accettando inquietamente l’impossibilità di una conclusione generale, abbracciando cioè una tesi scientifica o filosofica.
Freud, con una leggerezza senza debito e senza figliolanza, evita Nietzsche da cui ritorna: evita il filosofo per non esserne condizionato e se ne tiene in disparte proprio perché gli è così prossimo. Un’elusione che in filigrana trasluce in tutta questa opera freudiana, soprattutto nell’accettazione di una responsabilità verso l’inconscio che rende l’uomo debitore verso ciò da cui si sentiva dispensato. Il debito ritorna, nell’uomo e in Freud, che si accosterà più volte ai filosofi.
Freud si abbandona alla speculazione? E perché la speculazione psicoanalitica non ha nulla a che fare con la filosofia? Innanzitutto Freud si difende da Nietzsche e Schopenhauer rompendo linguisticamente: i concetti dei filosofi sono dei simulacri, degli indecidibili, somiglianti alla psicoanalisi ma vuoti in realtà di significati23.
Il piacere è interrogato da Freud come in una speculazione che non è filosofia e non è scienza: utilizza con grande destrezza i registri del letterario, del mitologico, del filosofico senza abbracciarne nessuno24. Avanza, per poi retrocedere. Avanza, Freud, speculando senza speculazione. E il primo passo, il primo grafema, sembra essere proprio quell’inaccessibile alla riflessione di psicologi e filosofi.
Freud dice che il piacere è una diminuzione, mentre il dispiacere è un aumento dell’energia libera, ed avvalla la sua prima affermazione dalla lettura di Fechner: il principio di piacere è derivato dal principio di costanza applicato all’apparato psichico. Ma il dispiacere è un fatto esperienziale, un’obiezione incontrovertibile che sembra minare il dominio del principio di piacere. Subito Freud si affretta a dire che il principio di piacere è una tendenza, confermata in realtà proprio dagli ostacoli che incontra sul suo cammino: infatti quando il principio di piacere mette in crisi o in pericolo l’organismo, interviene il principio di realtà che spinge come una pulsione di conservazione dell’Io e appare come un delegato del principio di piacere. Appartenendo alla stessa economia del principio di piacere infatti, il principio di realtà commuta una différance, una lunga diversione di quest’ultimo inaugurando una struttura di différance25: avendo per Freud il predominio assoluto su tutto, il principio di piacere è senza resistenze e per questo scatena in sé l’Altro assoluto senza crearlo. Il principio di piacere e il suo altro (il principio di realtà e poi, dopo tortuosi passi, la pulsione di morte) sono una struttura d’alterazione priva di opposizione: se infatti il principio di realtà procedesse per conto proprio asfissierebbe nell’economia della riserva di sé; se al contrario prendesse il sopravvento il principio di piacere tenderebbe a raggiungere il livello più basso, quindi la propria estinzione. Si configura, comincia a stagliarsi la morte, che è alla fine ma che scalfisce la logica oppositoria della dialettica.
La rimozione, introdotta da Derrida come un terzo, apre a una speculazione diversa, perché fa avvertire un piacere come un dispiacere. Sconvolgendo la logica implicita in ogni filosofia, quella della tautologia e della non-contraddizione, la rimozione scombina le carte e sconvolge le evidenze dell’esperienza e della logica della rappresentazione; nel nevrotico un dispiacere è un piacere non sentito ancora come tale, è un piacere effettivo non vissuto come tale. Cosa si conclude? Per il momento non si pone, non si rinsalda se non l’autorità del principio di piacere che non viene intaccata; Derrida però anticipa un passo all’indietro, introducendo ciò che era già in opera senza che venisse individuata come tale, la pulsione di morte.
Qualcosa si ripete (cioè non va in nessun luogo, se non qui per scomparire): è il celebre gioco del rocchetto. Freud fa coincidere metodo argomentativo e contenuto della speculazione, e sia negli argomenti che introduce per la coazione a ripetere sia nella scrittura del testo compie dei passi che lasciano intravvedere assenze colmate solo da fugaci ripresentazioni. Nel secondo capitolo del suo libro Freud allontana tutto ciò che sembra mettere in questione il principio di piacere pur lasciando emergere il bisogno di andare al di là di esso, esigenza che ritorno come un vero e proprio spettro26.
Freud si rassegna: abbandona, anzi rinvia l’argomento delle nevrosi traumatiche, l’esposizione del rocchetto e l’analisi del gioco dei bambini, oltre alle pulsioni imitative dell’arte perché niente di tutto ciò appare come più originario del principio di piacere. Di-mostra, per Derrida: mostra per varie volte senza mettere in evidenza alcuna conclusione perché non c’è tesi disponibile. Il nipote di Freud fa finta – per un certo tempo – di allontanare il rocchetto (e con esso il principio di piacere) per poi ricondurlo indietro di continuo; e Derrida vede in questo slittamento anche una metafora del movimento analitico che si muove in un rapporto unico con la propria storia, una pratica-teorica che non assomiglia a nessun altro movimento di pensiero27.
Il bambino Ernst, figlio dell’amatissima figlia Sophie, è osservato mentre gioca: seppure adeguato, cioè mai di disturbo ai parenti, inventa un gioco sconcertante che costa un bel po’ di lavoro ai genitori. Il bambino infatti lancia oggetti lontano, sparsi ovunque e specialmente sotto i mobili, e ai genitori tocca il faticoso riordinare; ma il gioco per Ernst è completo nelle due fasi, la scomparsa e il ritorno, l’assenza e la ripresentazione.
A Derrida interessa il ritornare del ritorno, la ripetizione di ciò che ritorna e che non è il semplice rocchetto bensì qualcosa di più profondo del principio di piacere: il bambino si risarcisce dell’assenza/scomparsa della madre attraverso la ripetizione – invero più nella ripetizione dell’allontanamento che in quella dell’avvicinamento, messo in scena come gioco a sé stante.
Questo bambino si vendica: dell’assenza della madre, del fratellino di cui sarà intensamente geloso, del padre che vuole resti in guerra il più lontano possibile, e diventa paradigma, nel gioco del rocchetto, della comparsa di un interesse secondario al principio di piacere.
Ancora un passo in avanti. Il 3° capito del libro di Freud esamina un’ipotesi per spiegare quale ruolo abbia la coazione a ripetere nei confronti del Lustprinzip. Innanzitutto il transfert, il quale contemporaneamente genera e si comporta come una nevrosi, e così sposta un problema, opera e si comporta da resistenza, permette l’introduzione di una ipotesi per rimarcare l’anteriorità del principio di piacere.
Si mette in moto la speculazione: il processo primario si scatena, e si slega da ogni contrattura; eccoci nel 4° capitolo di “Al di là del principio di piacere” dove Freud si slega dalla stesura stessa del documento e lo lascia nelle mani del lettore, aprendo alla libertà di associazione di ognuno, pura speculazione analitica contigua al campo della letteratura.
Il 4° capitolo28 allora delimita un fronte, una frontiera, arrischia una mappatura topografica. Freud avanza: la coscienza, dice, è un insieme di stimoli, una codifica di percezioni provenienti dall’esterno e di sensazioni di piacere o dispiacere emergenti dall’interno. La coscienza insomma ha una posizione spaziale, dei limiti, un posto di frontiera tra dentro e fuori, e viene da Freud ricollocata nell’anatomia cerebrale29 come sede propria della coscienza, E la coscienza è il luogo dove avviene la permanenza di tracce mnestiche provenienti dal sistema Percezione-coscienza: una bolla, protetta dalle sollecitazioni dell’esterno ma non dalle eccitazioni interne, a servizio del principio di piacere e che attraverso la proiezione tratta le eccitazioni interne come se fossero esterne.
Il trauma è l’infrazione della barriera: il principio di piacere perde il controllo e si rompe l’argine, e così l’apparato psichico non cerca più il piacere ma tenta di legare e dominare l’energia eccitatoria prodotta nell’irruzione attraverso gli argini del tentativo di distruzione. Si accende una controcarica, che sguarnisce un fronte per difendere il confini, e quando si raggiunge questo sovraccarico nel sistema della coscienza si apre un altro compito antecedente al dominio del principio di piacere.
Freud introduce qui, quasi di soppiatto, una zona intermedia, differente, una cintura tra processo primario e principio di realtà: la ripetizione, la coazione a ripetere, è un’oscillazione (ancora una volta) che collabora con il principio di piacere ma talvolta lo mina; e questa ripetizione è più arcaica del principio di piacere perché ne difende la dissoluzione. E anche se è un ostacolo alla liquidazione del transfert, la coazione a ripetere è cerniera attorno cui ruota l’articolazione del principio di piacere.
Attraverso un Umweg30, un sentiero tortuoso, una diversione, Derrida commenta lo svincolo di Freud che introduce la morte come tentativo di spiegare la base del vivente. Forse la logica del vivente, e quindi del vivere, è la morte; ma come spiegare le pulsioni? Freud assicura che le pulsioni sono la garanzia del cammino verso la morte perché allontanano dal vivente tutte le possibilità di ritorno all’inorganico che non gli sono proprie. Le pulsioni parziali accompagnano, assistono alla morte dell’organismo, risparmiandogli tutte le destinazioni intermedie, preservando dalla diversione del passo.
La più forte pulsione allora non è quella di vita né quella di morte, ma il proprio, la tensione a riappropriarsi: l’organismo non vuole morire che a modo suo. Resta questo, unico mandato e unico significante: incaricarsi della propria missione, del proprio mandato, perché lo scarto, la forza, la tensione dell’apparato psichico non permette la coincidenza di sé con sé nella forma di un contemporaneo e continuo rinvio. Rinvio della morte, di sé alla morte, di sé a sé31.
Ciò che conserva la vita resta nella sfera di ciò che riserva la morte: preservando la morte perché sia propria, le pulsioni conservatrici espongono al proprio ritmo evitando le scorciatoie. L’organismo vivente è colto da Derrida che legge Freud con scambi di velocità, precipitando in avanti e arretrando all’indietro, in un circolare andirivieni interrotto dalla rimozioni che si inserisce tra le pulsioni dell’Io – artefici della regressione all’inanimato – e quelle sessuali, tendenti alla perpetuazione e all’immortalità32.
Toccando le pulsioni sessuali Freud si anima di una necessità narrativa, e spezza il tortuoso incedere delle pagine del suo libro raccontando una storia. Introducendo il discorso di Aristofane nel Simposio, fa un balzo all’indietro per far derivare le pulsioni da uno stadio anteriore, e si smarca dal linguaggio della scienza per accentuarne ciò che gli è proprio, l’essere inteso come Bildersprache, lingua d’immagini: cadono le preoccupazioni rigorose dell’epistemologia e si compie un passo verso un al di là. Si ha necessità, dice Freud attraverso la penna di Derrida, di tradurre un’osservazione in una descrizione, e questa descrizione nel linguaggio della teoria. Si aprono insomma dei processi transferali33 in cui Freud non si aspetta (più) una lingua propria che superi ogni metafora ma accetta la sospensione del processo del sapere, ben consapevole che ogni acquisizione (anche della psicoanalisi) potrebbe cadere come un castello di carte.
Un bilancio ripetitivo, quello tracciato nel 7° capitolo del libro di Freud: il problema del rapporto tra la coazione a ripetere e il dominio del principio di piacere resta irrisolto. Si zoppica nel progresso della ricerca scientifica e Freud riconosce il debito – peraltro insolvibile – nei confronti della speculazione.
La soluzione, nel caso di un problema da risolvere, dipende dall’ipotesi principale; e Freud ritorna sull’anteriorità, sul venire prima per tentare al modo di un’assenza di far emergere una funzione, quella del legare le scariche di energia. Già, perché il nodo è proprio qui, non risolto. Che cosa viene prima del principio di piacere? La funzione di legare, a servizio ma anche anteriore al principio di piacere, che prepara il terreno per la dominazione del principio di piacere e successivamente lo installa nel suo dominio. La coscienza vincola le scariche, e le funzioni di legame sono a servizio del principio di piacere che tende a rendere l’apparato psichico non eccitabile, o a basso livello di eccitazione, tendente cioè all’inorganico. Non sappiamo ancora cosa sia il piacere, ma anche nell’esperienza comune dell’eccitazione sessuale il legame preliminare tende alla scarica finale. Non sappiamo ancora cosa sia il piacere, ma lo cogliamo nella circolarità verso l’annullamento, preso nell’anello di legame psichico e scarica delle tensioni.
E se il piacere non si raggiungesse se non nel differenziarsi da se stesso, vista la sua inafferrabilità sia al senso comune quanto alla filosofia? E’ il piacere stesso a limitarsi, a rendersi un contropiacere, una tensione contrapposta che lo rende possibile. Il principio di piacere allora trae profitto da una limitazione, dal legame del processo primario a quello secondario; legandosi, si lascia aprire al principio di realtà che lo rende possibile. Così facendo il principio di piacere si limita per crescere nella logica impossibile tra la soluzione e la non soluzione.
E’ ancora una volta la differenza, la contemporanea oscillazione tra dominio ed esplosione del piacere a farlo vincere, e perdere a un tempo. Lasciandosi legare entra in circolazione nella misura del possibile. E questa irresoluzione senza bivi, questa impossibilità contenuta tra la soluzione e la non soluzione, è proprio la logica impossibile del piacere.
Conclusioni
Derrida compie una lettura del libro di Freud, “Al di là del principio di piacere”, con passione e rigore, scandagliando le parole alla ricerca di varchi e aperture perfino dentro il processo primario onnipotente della coscienza del soggetto occidentale. L’inconscio e le sue dinamiche vengono visti nelle riflessioni di Derrida come un non-luogo fisico abitato però da tracce di un’alterità ineliminabile; perfino le contraddizioni del piacere non sono consegnate all’egotismo di chi le prova ma inducono a un passo al di là. Freud non è un filosofo, ma la ricchezza delle parole di Derrida offrono una nuova linfa e una nuova base per cogliere l’ampiezza del sapere psicoanalitico: tra ermeneutica e scienza, Freud viene visto come il varco attraverso cui irrompe il significato nella psicopatologia oltre ogni lettura neurologica o biologica degli accadimenti psichici. Con pudore, sembra dirci Derrida, Freud si muove alla volta di domande che investono la soggettività e si attesta come una conoscenza di frontiera.
L’esercizio del dubbio porta Derrida ad evidenziare un superamento epistemologico all’alternativa tra empirico e trascendentale: usando un linguaggio che non oggettiva Freud si avvicina a ciò che supera i canoni della coscienza razionale, patria dell’univocità e della trasparenza. Per questo Freud compie un fondamentale ruolo di svelamento: anche la psicologia conduce sui sentieri dell’alterità perché la casa dell’uomo, la sua coscienza, è situata nel luogo dell’Altro, sul segreto di non coincidere mai con se stessi. E anche se ce ne accorgiamo nell’esperienza disorientante della ripetizione, nell’incontro intenso e inatteso con ciò che eccede le nostre capacità di padroneggiarlo, abbiamo un linguaggio che può esprimere l’Alterità che abita il nostro inconscio.
Inoltre la decostruzione che vive nelle parole di Derrida rinforza la profondità delle indagini freudiane: accentuando i passaggi che interrogano la morte e il morire, Derrida spinge Freud oltre le sue stesse conclusioni, oltre i termini della psicoanalisi, per riconsegnare lo psichico all’esistenziale. I conflitti, le pulsioni, gli istinti non sono confinabili nello psichismo, ma sono tracce di una destinazione che viene declinata nella storia di ognuno pur avendo il sapore di universalità.
Persino il piacere, dicevamo, indica un superamento dell’isolamento del soggetto: per Derrida la responsabilità (della follia, del dialogo con la follia, del piacere, del morire) è l’inalienabile. Non vengono prima, in termini di tempo e di spazio, le esigenze e i movimenti della coscienza, ma sono in filigrana gli indizi di una relazione, di un legame che precede la solitudine dell’inconscio anche se si vela pur sempre nell’ulteriorità e nella posteriorità.
Attraverso il dialogo, attraverso l’analisi terapeutica delle nevrosi, Freud diventa nella lettura di Derrida testimone profondo di un senso che già sempre ci abita, un senso che invoca la presenza dell’Altro. L’inconscio ne riconosce i segni, seppur dolorosi, nel dipanarsi esperienziale della propria vicenda.