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consecutio temporum

L’umanesimo socratico. Note su Francesco Fistetti

Mariannina Failla

Il Novecento nello specchio dei filosofi. Linguaggi, immagini del mondo, paradigmi, D’Anna Editore, Firenze-Messina 2013.

Salgado-DigaIl complesso lavoro di Francesco Fistetti può essere considerato l’espressione di un umanesimo dialettico le cui radici affondano nel pensiero socratico. Alludo alla dialettica socratica non solo per l’interessante rimando dell’autore alla filosofia di Jaspers esempio della missione politica del filosofare in quanto tale: «Si tratta della connotazione squisitamente socratica del filosofare che Jaspers recupera pienamente, il dialogo socratico di se con se stessi, rivolto verso l’interno, teso a trovare la verità del proprio io più autentico, e la comunicazione dei propri pensieri agli altri in uno spazio comune, questi sono due aspetti di un unico processo che è quello del filosofare. La verità esistenziale non è un possesso privato, ma ha [...] conseguenze pubbliche» (ivi, p. 61).

Hannah Arendt, sostiene acutamente F. Fistetti, sottolineerà che «uno dei nuclei più fecondi della filosofia di Jaspers è proprio la comunicazione perché essa è la forma stessa dell’apertura filosofica che fa della filosofia un filosofare in comune in cui non si bada ai risultati, ma alla chiarificazione dell’esistenza» e porta alla convinzione che «non c’è grande filosofia senza pensiero politico». Pur molto stimolanti le riflessioni sul rapporto filosofia-politica, qui indicate, utili anche nella valutazione delle implicazioni della filosofia di Heidegger con la politica nichilista del nazional-socialismo hitleriano – l’ uma­nesimo socratico cui penso intende riferirsi all’uso del verbo epago­ghein, fondamentale per la stessa dialettica socratica.

L’epagoghè è il procedimento con cui Socrate porta l’interlocutore ad accorgersi delle contraddizioni interne alle proprie posizioni ed ha un duplice rimando: attivo e passivo. Nella forma passiva il verbo epagoghein significa condurre l’altro “fuori da”. Ed è quello che fa Socrate: conduce l’inter­locutore fuori dalle proprie contraddizioni. Nella forma attiva epago­ghein significa addurre esempi singoli allo scopo “di portare fuori os­sia rendere chiari” gli universali.

Se noi applichiamo il duplice movimento attivo e passivo del verbo epaghoghein al rapporto filosofia-vita, che sembra essere l’asse portante del lavoro di Fistetti – avremo da un lato che la filosofia – nel rapporto con il suo interlocutore, ossia la vita – progressivamente “tira fuori”, induce la vita stessa a spogliarsi dei propri veli, direbbe Nietz­sche, e a mostrare le proprie contraddizioni e conflitti, e dall’altro, pro­prio i complessi processi di formazione delle istanze vitali, diventano il momento in cui la filosofia può giungere alla definizione dei propri compiti. La filosofia induce la vita alla consapevolezza delle proprie i­stanze e complessità, la vita dal canto suo, con i propri conflitti e contraddizioni, conduce la filosofia verso la definizione di sé come come pluralità di pratiche e compiti di trasformazione della vita stessa. Guadagniamo così, socraticamente, un concetto di universale (la filosofia) che non può essere mai un universale astratto, ma sempre concreto e determinato perché si dà solo nella differenza delle condizioni storico-culturali, nella differenza delle loro interpretazioni e trasformazioni filosofiche

L’ipotesi di utilizzare l’epagoghein socratico per dar conto di almeno un aspetto dell’andamento del libro riecheggia anche alcune convin­zioni di uno degli ultimi socratici del ’900, alludo a Theodor Wiesen­grund Adorno, quando sostiene che libertà di pensiero significa adesio­ne ai fatti (apertura alla prassi politica sociale culturale) per opporvi resistenza; libertà di pensiero significa così adesione non acquiescente alla realtà, sua penetrazione critica volta a mettere in atto una prassi trasformatrice.

Il libro inizia con un rimando dialettico al nulla, interpretato come categoria filosofica e politica che attraversa l’intero Novecento.

Il nulla di cui ci parla l’autore, non è il nulla semplice, immediato astratto del cominciamento hegeliano, il nulla, ovvero il nichilismo, di cui si vuole dar conto, è tale soltanto nelle sue determinazioni e differenziazioni materiali, politiche, morali e filosofiche. Il nulla che attraversa il Novecento si determina storicamente come depaupera­mento delle risorse materiali di vita, radicale effetto della filosofia prometeica dell’uomo faber, ormai divenuto uomo tecnologico. Ed ancora quel nulla si determina come annientamento dei valori – esito di una doppia dinamica filosofico-esistenziale evidenziata da Nietz­sche: la secolarizzazione della cristianità tramite la priorità della filo­sofia morale, messa in atto dall’idealismo tedesco da Kant ad Hegel da un lato e la sentenza della morte di Dio dall’altro, che porta con sé proprio il conseguente annientamento di tutti i valori cristiano-morali secolarizzati. Il nichilismo filosoficamente determinato diventa a sua volta la base per una specifica forma politica del Novecento: la brutale strategia nazista dell’annientamento, ma in fondo anche la base di ogni forma novecentesca di totalitarismo. Da qui all’acuta individuazione in alcuni presupposti filosofici di Martin Heidegger di motivi interni alla politica nazional-socialista il passo è breve. Acuta tale individuazione perché misurata, teoreticamente fondata e lontana dalla pamphletistica francese sull’argomento.

Il legame della filosofia heideggeriana con la politica nazional-socialista sembra basarsi da un lato sul concetto di scienza intesa come realtà residuale della storia dell’Essere, resto inautentico, dimensione secondaria derivata, mentre l’autentica filosofia rimanda ad una dimensione ontologica fondativa, dall’altro sul modo in cui Heidegger finisce per intendere l’Essere stesso. Posto al di là di ogni differen­ziazione ontica, l’Essere si rivela un astratto indeterminato e in questa dimensione originaria le uniche figure filosofico-esistenziali che gua­dagnano spazio sono figure eroiche elitarie, che lottano per l’autentici­tà, come i poeti, che si appropriano dell’essere lasciandosi espropriare da esso.

Gli “eroi in lotta” incarnano quella figura filosofica gonfia di conseguenze politiche se si prende «[...] sul serio un’indicazione di lettura di Hannah Arendt». Così facendo si scopre che le componenti “organicistiche” e “comunitarie” «disseminate in Essere e Tempo (e non solo) sono l’altra faccia della metafisica del Dasein, della sua finitezza e del suo essere un progetto gettato nel mondo. Arendt suggerisce di interpretare la ricerca del proprio Sé autentico da parte del Dasein, proteso verso la conquista della trasparenza della propria ipseità come una spoliticizzazione/neutralizzazione del dialogo che Socrate conduceva sulla piazza pubblica di Atene con i suoi interlocutori. […]. La virtù politica la phronesis aristotelica, viene assunta da Heidegger come qualcosa che ha a che fare solo con la ricerca e la scoperta del proprio sé autentico, tipiche non di Socrate, ma della tradizione del socratismo, cioé di un Socrate senza polis, ridefinito come modello di saggezza impolitica» (ivi, p. 37).

Un’ontologia, quella di Heidegger che, con «un colpo di rasoio» (ivi, p. 27) recide il legame della filosofia con «l’enciclopedia delle scienze nel loro sviluppo» (ivi, p. 29), opponendosi così totalmente al programma cassireriano che vedeva nel processo di giustificazione del simbolico la possibilità di dare oggettività alle produzioni culturali, linguistiche e storiche dello spirito moderno. Progetto quello cassireriano che l’autore mette in relazione con alcuni esponenti del neo-positivismo logico quali Otto Neurath, sottolineando la sinergia fra neo-kantismo e filosofia della scienza ancora oggi interessante oggetto d’indagine.

Proprio perché vede fronteggiarsi due diverse e divergenti visioni del rapporto filosofia-scienza-esistenza, la disputa di Davos fra Heidegger e Cassirer è anche l’inizio della differenziazione storico-filosofica fra analitici e continentali. Tale differenziazione – che nell’articolazione del libro troverà un suo superamento in quella corrente contemporanea che dà luogo alla rinascita del pragmatismo (ivi, pp. 113 e ss.) – introduce tuttavia un termine nuovo nella dialettica di reciprocità fra filosofia e vita, ossia il termine scienza; esso amplia la prospettiva che il libro ci offre perché non solo la filosofia, ma anche l’epistemologia con i suoi linguaggi, le sue regole sintattiche, deve essere vagliata in base alla sua capacità o non capacità di essere “specchio”, come indica il titolo del libro, delle dinamiche esistenziali e politiche.

Interessante a questo proposito è la distinzione, sinteticamente articolata dall’autore, fra la filosofia di Carnap e quella di Neurath riguardo lo statuto e i confini del linguaggio scientifico: «[...] La diva­ricazione fra Neurath e Carnap, che andò approfondendosi negli anni, non è addebitabile soltanto al fatto che il primo affinò sempre più una concezione logico-matematica della scienza, mentre l’altro non si allontanò mai da una visione empiristico pragmatista, c’è qualcosa di più profondo nella divergenza fra Neurath e Carnap che riguarda il modo di intendere il ruolo della scienza nella società moderna e lo stesso rapporto fra scienza e filosofia. Sotto questo profilo la concezione di Neurath di una “scienza unificata” interessata più alla costruzione delle “connessioni trasversali” tra le varie scienze che alla logica della scienza [corsivi nostri], risulta più vicina al progetto cassireriano di far interagire tra loro scienze naturali-matematiche e scienze storiche o umano-sociali e di ricostruire l’evoluzione della coscienza moderna nella varietà e nella ricchezza delle sue forme» (ivi, p. 35).

Con queste parole l’autore sembra non solo indicare la distanza dalle teorie pragmatico-convenzionaliste delle procedure scientifiche di Carnap (principio di tolleranza), ma una sorta di loro pericolosità, la loro incapacità cioè di individuare strutture trasversali fra i vari linguaggi e procedure scientifiche, incapacità che penalizza la nascita di una coscienza filosofica della complessità moderna. Con il ribaltamento dell’adesione alla ricchezza delle varie pratiche scientifiche, rivendicata da ogni convenzionalismo, in un impoveri­mento filosofico sembra di assistere ad un implicito gesto hegeliano: la critica ad ogni forma di empirismo ingenuo. Sembra dunque che il convenzionalismo e pragmatismo di Carnap siano forieri di una coscienza filosofica astratta e acriticamente conservatrice, mentre le concezioni di Neurath possano essere un esempio di scavo filosofico nella prassi scientifica capace di dar conto di relazioni strutturali trasversali fra i vari linguaggi scientifici. Del resto la valutazione positiva dell’opera di Neurath ricorre più volte nel lavoro torna ad esempio in maniera inequivocabile a pagina 133 in cui viene sottolineata la fecondità del positivismo logico che risale a Neurath e in particolare «[all']idea dell’enciclopedismo da lui promulgata», tornado così indirettamente anche sull’interessante tema del terreno comune di neo-kantismo e filosofia della scienza. E tornando probabilmente anche su un’idea portante dell’intero libro ossia: il rapporto filosofia vita vede nell’enciclopedismo (possiamo dire di Neurath e Cassirer e di Dilthey) un’interpretazione feconda della necessità di individuare connessioni strutturali e trasversali fra le varie produzioni spirituali e quelle scientifico-naturali.

Il giudizio negativo sul convenzionalismo pragmatico carnapiano non può che indurre il lettore a cercare nel libro i luoghi in cui l’autore affronta il pragmatismo americano. Colpisce positivamente il fatto che l’autore veda in alcuni nuclei teorico-concettuali del pragmatismo – l’empirismo radicale di W. James, inteso come accordo per così dire funzionale fra verità e realtà (ivi, p. 96), e il procedere ipotetico fallibilista auspicato dalla logica di Ch. S. Peirce (ivi, p. 104) – la possibilità di andare oltre il neo-positivismo. Possibilità che porterà con sé anche quella di sciogliere il conflitto fra analitici e continentali grazie al ritorno novecentesco al pragmatismo americano che arriva fino a Jacques Derrida. A questo proposito sembrano molto significa­tive le parole dell’autore che, sul solco dell’interpretazione di Umberto Eco, mettono in relazione la giovanile Grammatologia di Derrida con la semiosi di Peirce: «Non va nemmeno dimenticato che nel suo capolavoro giovanile La grammatologia Derrida per così dire valorizza Peirce. Peirce con la sua dottrina della semiosi illimitata, infatti fa della significazione un movimento costitutivamente aperto, dove il segno è inserito in un gioco di rinvii che in nessun momento può essere saturato una volta per tutte» (ivi, p. 116).

Se potessimo individuare nella coppia di concetti opposti astratto/concreto un criterio utile per dar conto delle correnti e/o tematiche filosofiche fin qui affrontate si potrebbe sostenere che astratta è l’ontologia e il mito dell’autentico di Heidegger, il principio di tolleranza di Carnap (ivi, p. 73), mentre alla categoria del concreto possono probabilmente rimandare il socratismo politico della Arendt, il costruttivismo simbolico di Cassirer [ibidem], l’enciclopedismo di Neurath, lo storicismo diltheyano e la semiotica pragmatista.

Al rapporto astratto/concreto sembra ricorrere anche la sapiente analisi che l’autore fa del neo-idealismo italiano portata avanti attraverso il teorico e politico che ne ha individuato i presupposti sa­lienti e denunciato i limiti: Antonio Gramsci.

Astratta viene dichiaratamente definita da Gramsci la teoria crociana dei distinti «La distinzione che Croce mantiene fra società civile e società politica – che gli consente di scongiurare la riduzione della politica a Stato totale e della storia a storia integrale dello stato – rende anche possibile la distinzione tra egemonia e dittatura, fra forza e consenso. Per Gramsci la dialettica della storia è un processo di contrasti e contraddizioni che non si possono risolvere armonisticamente, come si illude di fare il liberalismo, guardata sotto questa angolazione la teoria crociana dei distinti è una soluzione puramente verbale – sostiene Gramsci nei Quaderni dal carcere» (ivi, pp. 51-52). A questa nozione di astratto può essere forse fatta risalire anche la concezione neo-idealista del male inteso come passaggio, errore necessario, destinato a essere superato nello svolgimento della storia nella misura in cui nel concetto di male necessario può nascondersi una visione naturalizzata, automatizzata del negativo: «Ma di fronte alla tragedia della guerra tra le nazioni europee Croce non si limitava a cogliere la manifestazione della vita nei suoi aspetti più spietatamente realistici di forza e potenza. Dinnanzi alla carneficina del primo conflitto mondiale Croce e con lui Gentile, si trovano esposti al problema del male, o meglio di quella peculiare forma di nichilismo che è la devastazione, la distruzione della civiltà, la pulsione di morte o il ritorno della barbarie. […] per Croce e Gentile il male e l’errore sono solo un momento negativo necessario destinato ad essere superato. Anzi per Gentile l’errore non esiste, più che di errore bisogna parlare di spirito erroneo che viene sempre correggendo se stesso. Il male storico del Novecento: il fascismo, il nazismo, la guerra, il totalitarismo sovietico indurrà entrambi a rimeditare il concetto di vita parlando della storia come dramma (Croce) o tornando all’iniziale concezione della filosofia come scienza della vita (Gentile), mettendo in evidenza il nesso fra filosofia e politica anche se in direzioni opposte (Liberalismo per Croce totalitarismo per Gentile)» (ivi, p. 50).

Un altro aspetto interessante del libro è il modo in cui lega le aspirazioni filosofiche novecentesche alle nuove prospettive del terzo millennio espresse prevalentemente dal paradigma della cura e del do­no per le quali forse può ancora essere fatta valere come chiave inter­pretativa la coppia concreto/astratto. Astratta è infatti per la filosofia della cura (Sen e Nussbaum) e per quella del dono (MAUSS) l’idea di una sovranità del soggetto fondata sulla concezione etica kantiana del­la volontà auto legislatrice ed autonoma. L’etica della cura sottolinea la natura bisognosa e pertanto relazionale ed orizzontale del soggetto.

Significative a questo proposito sono le parole di p. 242 del libro: «Ma proprio perché la cura ci restituisce un’immagine di noi stessi come esseri bisognosi, fragili e vulnerabili, essa viene svalutata ed assegnata ad un posto marginale della società. Il bisogno viene percepito come una minaccia all’autonomia: nasce da questo pregiudizio l’ideologia liberale dominante secondo cui chi ha più bisogni e meno autonomo e dunque meno forte e capace. Trattare la dipendenza come una debolezza o come una forma di eteronomia è l’errore capitale categoriale del liberalismo moderno» (ivi, p. 242) di cui Kant sembra essere uno dei più significativi rappresentanti, insieme a J. Mill, ma anche a Berlin e Rawls. Il paradigma della cura e quello del dono condividono l’idea dell’ontologia della vulnerabilità che «presume la possibilità di una reciproca comprensione solidale». Ed è proprio l’idea di una comunità solidale che lega i paradigmi del terzo millennio ai loro presupposti novecenteschi, rappresentati in particola­re dalle teorie honnetthiane del riconoscimento. Ed è su questa con­cezione che ci si vuole in ultimo fermare non solo alludendo alle sue radici storiche – individuate nello Hegel jenese, nell’idea haberma­siana del riconoscimento come conflitto morale, e nella psicologia sociale di Mead – ma indicando anche le implicazioni derivanti dal concetto honnethiano di libertà come vita buona proprio per gli elementi hegeliani e kantiani che l’autore mette bene in evidenza con queste parole: «L’obiettivo è costruire una teoria formale di vita etica capace di riconciliare da un lato l’esigenza hegeliana di una integrazione sociale fondata su valori universalmente condivisi (una concezione comune del bene) e dall’altro l’istanza kantiana dell’auto­nomia individuale o della libertà riflessiva concepita sul modello dell’autolegislazione della ragione pratica e dell’autorealizzazione morale» (ivi, p. 197). Non si nasconde qui un residuo formale-univer­salistico che, pur votato all’idea di comunità solidale, rimane ancora da conciliare pienamente con quell’ontologia della vulnerabilità e del bisogno, basata sul primato dell’eteronomia e delle peculiarità mate­riali e spirituali dei soggetti?

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