Complessità e sinistra
di Pierluigi Fagan
Parte prima
Mi aveva incuriosito il titolo dell’ultimo libro di D. Losurdo “La sinistra assente”1. Ho allora cercato di saperne un po’ di più su Internet e la curiosità è stata rinvigorita da alcuni commenti e da alcune finestre sul testo, tra cui una intervista all’autore. Ho allora scritto un articolo-recensione che poi si allargava a considerazioni personali su quell’assenza denunciata da Losurdo, considerazioni basate anche su un riferimento che l’autore aveva fatto al concetto del vero dell’intero (Hegel) nell’intervista, un concetto a me caro, dal momento che mi occupo di filosofia della complessità. Ero piuttosto soddisfatto dell’articolo e stavo per pubblicarlo quando i guardiani interni dell’etica del discorso mi hanno presentato l’ammonimento: non puoi parlare di ciò che non hai veramente letto. Mi ero cautelato scrivendo che le mie considerazioni prendevano spunto dal testo di Losurdo e non ne erano una diretta conseguenza ma i guardiani non hanno abboccato ed inflessibili mi hanno spedito in libreria a comprare ciò di cui volevo, anche se di rimbalzo, parlare. Ora ho quasi finito il libro, anticipando i capitoli finali che sono poi quelli più direttamente volti a contestare questa assenza ma mi rimane una mancanza.
La mancanza, che è una assenza, è che sapendo che l’autore è un filosofo, docente (emerito) di filosofia, mi ero immaginato che il titolo completo, il titolo concettuale, in realtà fosse: la sinistra assente, perché? Invece nel libro c’è sicuramente una interessante analisi – denuncia sull’assenza di presenza politica della sinistra su alcuni temi e su una immane confusione percettiva e categoriale, ma non c’è affatto quella interrogazione finale. C’è una indagine sull’effetto, ma non sulle cause di quell’assenza. Debbo quindi ritornare su ciò che avevo pensato di pubblicare per ragionare sull’assenza di quell’assenza poiché forse è proprio l’assenza di quella interrogazione riflessiva che spiega l’assenza principale.
Caso vuole che contemporaneamente stia leggendo “Storia critica del marxismo” dell’eretico Costanzo Preve2, da poco scomparso. Sebbene non condivida l’hegelismo-fichtiano di Preve, tolto ciò, mi trovo (molto) spesso del tutto d’accordo con i suoi non banali punti di vista. A pagina 33 della Premessa del suo libro, con la consueta franchezza e chiarezza, Preve, a proposito del sistema di idee del marxismo e ricordando che egli ha dedicato una vita allo studio non solo del marxismo ma anche della filosofia occidentale (e che era filosofo lui stesso), dice: “…non mi sono quasi mai imbattuto in sistemi di pensiero meno critici, e cioè più incapaci di introspezione. Al confronto le teologie prodotte dai francescani, dai domenicani e dagli stessi gesuiti appaiono modelli di capacità introspettiva”. Quell’assenza del perché diagnostico dell’assenza della sinistra, è figlio di questa paralisi alla riflessione introspettiva del marxismo su se stesso?
Per la verità Losurdo conclude il suo libro dicendo che ogni svolta storica impone un profondo ripensamento, una adeguazione alle mutate condizioni, solo che il soggetto a cui è indirizzato il saggio ammonimento sono le “forze politiche” non le “forze intellettuali” che operano nel campo del pensiero a cui si ispirano le forze politiche. Non è ben chiaro come Losurdo pensi debbano essere i rapporti tra il pensiero e l’azione anche se a pagina 271, a chiusura di una sferzante critica che coinvolge dalla Camusso alla Rossanda, da Hardt e Negri a Žižek, da Latouche a Foucault, passando per Bobbio, Habermas ed Harvey, in un caso sporadico è coinvolto anche Agamben, cita il passo di una lettera di Marx3. In questa, un Marx venticinquenne, cinque anni distante ancora dai primi passi del Manifesto, dice che ogni progetto di trasformazione non può anteporre dei principi astratti alle lotte concrete. Per la verità, mi sembra che il passo di Marx dica che il “noi” che dovrebbe riguardare i promotori di un pensiero consapevole ed emancipante, dovrebbe affiancarsi a quelle lotte concrete e reali che sono l’energia del cambiamento e aiutare quei soggetti a prendere una coscienza più ampia e strategica del contro cosa e per che cosa lottano. Ricostruire la coscienza dell’intero appunto. Non dettare l’agenda quindi ma l’interpretazione delle contraddizioni. Si presume che questa interpretazione si fondi comunque su dei principi, no? Le svolte storiche comportano la revisione anche dei principi o i principi sono senza tempo? E fino a che punto di astrazione / concretezza lo sono?
Il momento del’autocoscienza è di per sé un movimento riflessivo, ma di nuovo, sembra che la prescrizione terapeutica valga solo dal pensiero all’azione perché questa pensi se stessa e le sue ragioni più ampie, non sia necessaria per il pensiero rispetto a se stesso, magari proprio dopo aver effettuato metà del circuito che dal pensiero porta all’azione, che debba tornare a ripensare se stesso dopo aver fatto il bagno nel reale. Sarebbe invece opportuno (e qui molti si scandalizzeranno, non forse per il contenuto ma per il nome del pensatore) un circuito popperiano per il quale il tentativo di pensiero, alla verifica dell’errore nelle prassi o meglio nell’analisi dei risultati che le prassi danno come stato del reale e della loro capacità di modificarlo, torni su se stesso, auto-modificandosi. Questo circuito cibernetico che qualcuno potrà anche chiamare dialettico o autocosciente, il suo secondo tratto, il tornare criticamente su se stesso dopo aver verificato le conseguenze delle sue disposizioni, sembra sostanzialmente mancare nella tradizione marxista4.
Quello che in effetti lascia interdetti, ogni volta che si ha a che fare con molti marxisti, è questo loro strano atteggiamento nei confronti di Marx, lo stesso atteggiamento che i musulmani hanno nei confronti di Maometto, l’atteggiamento che fa spesso del Capitale e del Manifesto una shari’a, del marxismo una religione del libro, i virgolettati degli hadit. Lo stesso Losurdo sembra teneramente compiaciuto nel sottolineare quanta genialità dovesse concentrarsi nella sfolgorante mente del pensatore di Treviri, se egli già venticinque anni, diceva tali “verità”. Questo culto della fonte originaria che poi si esprime nella storia di questa famiglia di pensiero con aspre lotte tra cleri che si disputano l’ermeneutica “vera” del testo scritto e di ciò che l’autore non ha scritto ma pensava, che è arrivata a produrre ostracismi dei diversamente interpretanti ritenuti più nemici dei nemici veri, che ha prodotto anche qualche innovatore come Lukacs (Korsch), Bloch, Gramsci, Althusser, i francofortesi, Arrighi ma sempre nella funzione di specificatori, di piccola modifica, di non esplicita conseguenza esplicitata, di sfumatura meglio precisata, di “avete capito male ed applicato peggio” quasi a salvare la Verità Testuale dalla corruzione applicativa, che ha condannato all’inferno Engels quasi fosse la sorella di Nietzsche5, non ha pari. Imbarazzanti i casi di critica poi ritirata in autocritica di Lukacs ed Althusser. Insomma, molti marxisti sembrano caduti in un imperturbabile sonno dogmatico. Nessuno più si riferisce così fideisticamente ad un testo, né i darwinisti con Darwin, né i liberali con Smith, né i fisici con Newton o Galilei, né gli psicoanalisti con Freud, né più i cattolici con i Vangeli. Chi lo fa è, a ragione, detto fondamentalista (gli hanbaliti nella tradizione islamica, i neo-protestanti della Bible-Belt americana) il ché non è una bella compagnia per i seguaci di quella che è, per quanto eccezionale ed innovativa, “solo” una teoria critica powered by dialectic.
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Ma andiamo con ordine e ripartiamo dall’analisi di Losurdo che denuncia la grave assenza della sinistra, una sinistra tra l’altro non meglio precisata tra radicale e normale, italiana o europea o occidentale. La tesi principale, sintetizzata dallo stesso autore è che la sinistra dovrebbe fare due cose: 1) contrastare le diseguaglianze nella distribuzione dei redditi e dei diritti all’interno delle singole società nazionali; 2) favorire la redistribuzione dei redditi che per altro sta avvenendo per propria dinamica, tra paesi di prima industrializzazione (Occidente) e paesi emergenti provenienti per lo più da una rivoluzione anticoloniale. Sul primo e sul secondo punto, soprattutto sul secondo, Losurdo registra una allarmante incosciente introiezione di schemi di pensiero neoliberale o semplicemente “occidentale” da parte di certa sinistra e non solo quella “normale” che sembra avviata verso un disgraziato posizionamento neo-liberale ed imperiale, cosciente e felice di esserlo ma anche di quella che si ritiene radicale. Perché di questo oblubinamento forse è da ricercare in quella nuova potenza delle classi dominanti che non hanno più solo il monopolio dell’ideologia, verso la quale dovrebbe comunque esser omeopatica la capacità critica che ogni marxista ha in dotazione genetica ma anche il nuovo monopolio delle emozioni che la sofisticata macchina della società dello spettacolo dà loro. Quell’industria della menzogna che opera non stop come terrorismo dell’indignazione in regime di monopolio delle emozioni. A questa macchina pervasiva ed infernale, alcune menti di sinistra non resistono per mancanza di tempo negli approfondimenti, mancanza di lucidità, cedimento emotivo, confusione categoriale, debolezza in quell’autocontrollo che salvò Ulisse dalle sirene. Ne viene fuori la perversa introiezione di una mistica della libertà astratta che confonde Tienanmen con Robespierre, la teologia dei diritti umani con Toussaint Louverture, la democrazia delle élite con quella della Comune, la rivolta anti-fiscale con l’anarchismo generico, il dissidente filo-occidentale, filo-capitalista, filo-neo-liberale con l’eroe delle barricate d’Ottobre, le portaerei che stavano per bombardare Damasco con la Potemkin, Hayek con Bakunin, il pauperismo di certo conservatorismo religioso e medioevaleggiante con la decrescita, lo Stato sociale col Leviatano, il Dalai Lama e Deng Xiaoping con Davide e Golia, la globalizzazione con le moltitudini insorgenti. E se nel frullatore del confondimento cascano da Harvey a Foucault, figuriamoci gli altri.
La sinistra occidentale, si mostra acriticamente prima occidentale e poi sinistra (talvolta) mentre dovrebbe riaffermarsi sinistra e basta. Sembra del tutto sfuggire la matrice imperial-coloniale dell’Occidente, una matrice che non è un accessorio, un epifenomeno come i pennacchi di San Marco, ma un costituente ontologico di necessaria funzionalità per il sistema. La lotta di classe sembra esser stata assorbita dalla lotta tra le nazioni, in omaggio ai principi della competizione planetaria e financo di una certa subliminale retorica dello scontro di civilizzazioni. Un femminismo asimmetrico simpatizza per le Femen e non s’avvede degli stupri etnici dei liberatori dei vari dittatori. Si confondono i Trattati di libero scambio come un omaggio a gli interessi delle multinazionali quando sono la formazione di un accoppiamento strutturale tipo NATO economica, operazione di ben più gravide conseguenze quali la difficile reversibilità. Non ci si avvede dei pericoli concreti di un terzo conflitto mondiale, magari atomico e sebbene motivi per riprendere e serrare le fila dei movimenti per la pace abbondino anche più di quanto si verificò con la guerra irachena, si palesa una inquietante “sinistra imperiale” che gioisce per la Libia, la Siria e chissà se anche per l’Ucraina. Paralizzati dalla paura di vedersi contrati dall’accusa di comunismo e sovietismo con tutto ciò che questo comporta per la sensibilità della libertà, della giustizia, della democrazia, del pluralismo, ormai valori introiettai in quanto “occidentali”, certa sinistra si fa più realista del re, perde il coraggio dell’autonomia, diventa succube del titillamento emotivo manicheo e semplificante che i bombardieri multimediali del Grande Fratello dei Valori, ammanniscono h24. Proprio cadere vittime di semplificazioni è forse il dato più grave, poiché come nota intelligentemente qui Freccero, mano a mano il mondo si fa più complesso, la narrazione pubblica mainstream si fa mano a mano sempre più sincopata, manichea, impressiva, ultra-semplificata. Va de se che in questa divergenza “l’intero” si strappa in coriandoli di senso e di conseguenza il “vero” perde ogni condizione di possibilità.
C’è da dire che Losurdo è un finissimo conoscitore della mentalità liberale6 il che, lo dico per esperienza diretta, è un titolo di merito assoluto. La fatica emotiva che compie lo studioso nel doversi sorbire pagine e pagine di teorizzazioni provenienti da menti aliene così come capita quando si deve leggere da B.Constant ad F.Hayek, per non parlare degli anglosassoni che ad un certo punto sono anche divertenti tanto quanto sono talvolta assurdi, è un prezzo che si paga alla necessità di compenetrarsi nell’altrui logica, nella conoscenza approfondita dell’Altro. A questa conoscenza senza dubbio sofisticata, Losurdo ha accoppiato una non meno brillante conoscenza della nuova comunicazione, della psicologia argomentativa delle nuove tecniche di persuasione, della nuova capacità di colonizzare non solo l’immaginario come afferma Castoriadis, ma l’inconscio, la sala macchine da cui le emozioni dirigono i confini della ragione e la cifra dei giudizi. E questo secondo merito è per altro cosa abbastanza rara nella tradizione marxista contemporanea anche se è presente in altre impostazioni di pensiero.
Concludo questa seconda parte del nostro discorso dicendo che personalmente concordo più o meno con quasi tutto ciò che qui abbiamo riportato come contenuto della fatica editoriale del nostro e manifesto anche un certo entusiasmo per tesi che non è facile reperire nel dibattito pubblico come l’indignazione per gli stati canaglia del Golfo o la perplessità per come si analizza e giudica la Cina in certi ambienti di pensiero che dovrebbero essere un po’ più accorti nel parlare di cose che forse non si conoscono così bene come l’assertività di certi giudizi pretenderebbe. Un certo “occidentalismo” aleggia anche in menti insospettabili7. Il libro è per lo più una ragionata analisi critica dello stato del potere imperiale e neocoloniale a guida americana in cui si fa emergere l’assurdità di una sinistra spesso embedded il flusso dei giudizi mainstream, più a destra di molte fonti giornalistiche e teoriche che di sinistra non sono. Una sinistra arruolata in questo nuovo monoteismo dei valori che è il corpo portante di un’occidentalità assediata, un’occidentalità che diviene sempre più rabbiosa, rissosa e canaglia viepiù perde le condizioni di possibilità che ne hanno fatto il successo degli ultimi due secoli.
Detto ciò, però, riprenderei l’interrogazione principale: perché tutto ciò? Perché proprio qui, nel fatidico spazio – tempo in cui una sinistra dovrebbe trovare le sue migliori condizioni di possibilità, si manifesta invece un buco ontologico, una assenza?
A questo interrogativo cercheremo risposte nella prossima parte.
Parte seconda
Nella prima parte della nostra analisi, ci siamo mossi paralleli al libro di D. Losurdo “La sinistra assente”, constatando una ampia e ragionata descrizione di questa assenza, assenza tanto più enigmatica quanto più voluminosa e rumorosa è l’ingiustizia, l’ineguaglianza, la violenza, la malafede, l’egoismo e la protervia che scaturisce dal e nel, sistema occidentale. Ci è rimasto inevaso il perché di questo paradosso ed a caccia di questa mancanza che forse sottende quell’enigmatica assenza, ci muoviamo in queste due ulteriori parti.
IL PESO POLITICO DELLA SINISTRA OCCIDENTALE
Quanto a critica dell’assenza della sinistra, si dovrebbe intendere il testo di Losurdo come una critica rivolta alla sinistra intellettuale che non è la sinistra politica. Se si fosse dovuto analizzare l’assenza della sinistra politica, forse sarebbe stato necessario un secondo volume o anche più. Noi procederemo quindi analizzando un punto solo della sinistra politica, un punto che però riflette come una piccola porzione di frattale, tutto il resto. Prendendo la dimensione europea (elezioni per il Parlamento europeo) come sistema di riferimento, l’insieme della sola sinistra radicale, dal picco raggiunto alle prime elezioni del 1979 in cui superò di poco il 10% dei suffragi è scesa fino a dimezzarsi nel 1994 (risentendo della liquefazione sovietica) per poi oscillare tra questo pavimento e un poco più, poco meno, del 7%. Si noti che nelle ultime elezioni europee del 2014, aggiornando i dati alle informazioni che ci danno sondaggi recenti, le due colonne dello schieramento, Podemos in Spagna e Syriza in Grecia, ancorché manifestarsi in salute proprio laddove più aspre ed evidenti sono le condizioni fallimentari del sistema economico-politico dominante, colettano una varietà di soggetti estremamente eterogenea: comunisti, socialisti, indipendentisti, femministe, ecologisti e benicomunitari, nonché una certa parte della sfuggente entità “movimenti” . Nel gruppo parlamentare GUE/NGL, la componente “verde” è ben forte per tutte le realtà del Nord Europa e si trovano anche non meglio precisati “democratici”, anti EU, laburisti non britannici e ben due partiti animalisti. La frammentarietà di questi soggetti e della coalizione a cui danno vita è semanticamente sottolineata dall’abbondanza di: fronte, blocco, unione, alleanza, movimento, coalizione, plurale come nomi dei singoli progetti politici. Questi nomi e le forme sottostanti, dicono di un atteggiamento che più spesso è difensivo, resistenziale, oppositivo, una fusione di resistenti “contro” che avrebbe più di un imbarazzo a confrontarsi al suo interno per decidere un “per”. L’intera sinistra radicale europea, è stata per trentacinque anni di poco (in alcuni casi “non di poco”) inferiore come dimensione complessiva, rispetto allo schieramento ideologico che si definisce schiettamente “liberale”. In pratica sinistra radicale sta a liberali (i primi essendo meno dei secondi) come socialdemocratici stanno a popolari (i primi essendo meno dei secondi) stante che socialdemocratici sono da tre a sei volte, più grandi della sinistra radicale. Questo dato di minoranza è aggravata dal computo delle altre posizioni: conservatori, destre, eterogenei inclassificabili ed un residuo non indifferente di “non votanti”. La sinistra normale, la demo-socialdemocrazia , dal 1979 al 2014, è stata più spesso sotto il 30% dei suffragi complessivi, che non sopra. Con approssimazione (generosa) possiamo stimare in 2% la sinistra non votante (antagonisti, anarchici, rivoluzionari duri e puri etc.).
“Sinistra” in Europa, negli ultimi trentacinque anni, ha complessivamente pesato intorno ad un 40% (più spesso meno che di più), stante l’estrema eterogeneità di una categoria che tale si può definire ben a fatica considerando da un lato un black block tedesco e dall’altra i prossimi confluenti di Scelta Civica nel PD italiano. L’ 80% di questa frammentata ed eterogenea minoranza, è data prevalentemente da socialisti francesi e democratici italiani che quanto a fiancheggiamento imperial-coloniale e neo-liberismo ben temperato non sono secondi a nessuno e da laburisti e socialdemocratici che seguono a ruota stretta. L’analisi della tristissima situazione della sinistra italiana, il caso macroscopico dello smottamento centrista del PD e quello microscopico che somma Vendola-Ferrero e il vasto giardino delle particelle sub-atomiche la cui resistente ontologia è un mistero tanto impenetrabile, quanto insignificante, ce la risparmiamo. Si potrebbe ed anzi si dovrebbe a questo punto fare anche una analisi dei movimenti, dei fermenti, delle lotte concrete, ma questo non è un trattato di analisi politica. Ad occhio però, non ci sembra che questo sottostante sia poi molto più ampio della forma politica delegata e dove lo è o è stato, ci sembra che in tempi rapidi la forma politica delegata vi abbia corrisposto. Infine come nota metodologica, trentacinque anni, sono in range temporale affidabile per considerare un fenomeno politico nella sua sostanza dinamica.
Cosa ha portato la sinistra socialdemocratica sempre più verso il centro, la sinistra radicale ad essere pulviscolare e complessivamente assai leggera e condizionata oltretutto da una eterogeneità che si tiene in piedi solo per generosa addizione di vaghe scontentezze e cosa ha portato la sinistra di movimento a non avere sorte migliore che non un episodico e discontinuo pullulare qui e lì, su una non meno eterogenea lista di temi sulla quale ha registrato più sconfitte che vittorie ? Perché questa parte politica di minoranza tale è rimasta per più di trent’anni e soprattutto in tempi più recenti ove la teoria di mondo alla quale corrisponde la parte politica maggioritaria si sia manifestata fallace, stante la sequenza di crolli sistemici verificatisi dal 2008-2009 ad oggi?
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TESI
La nostra tesi è sostanzialmente che la sinistra non ha una teoria di mondo. Non ce l’ha nel senso che quella che ha non è adeguata al mondo che ha in oggetto. Non avere una teoria di mondo significa non avere un preciso ed efficace sistema analitico, non aver un obiettivo strategico e da ciò non poter dedurre una sequenza progressiva di obiettivi tattici. In sostanza, la sinistra è assente perché è il pensiero che guida l’azione, l’azione dovrebbe modificare ed affinare il pensiero che la orienta, tale pensiero dovrebbe avere un obiettivo chiaro e concreto (strategia) da cui dedurre la sequenza degli obiettivi intermedi (tattica), inclusi modi ed alleanze per seguire la rotta per giungere lì dove si voleva arrivare. Dagli sbandamenti ideologici segnalati da Losurdo, all’inconsistenza numerica della sinistra radicale, fino alla sudditanza mentale della sinistra normale8, la nostra diagnosi è che un pensiero confuso porta ad una politica inconcludente. Quella della sinistra è una crisi ontologica segnalata dall’impossibilità di rispondere convintamente e concretamente alle tre domande critiche: come spieghiamo il mondo? in cosa possiamo sperare? cosa dobbiamo fare?9
Non avendo una teoria di mondo alternativa ed esistendone nell’offerta politica un’ unica versione, la versione dominante che possiamo dire capitalista, demo-liberale, neo-liberale, econo-utilitaristica, versione che è teoria e prassi, struttura e storia, versione che finisce con l’identificarsi con l’occidentalità in quanto tale (pur essendo visibilmente e per lo più di matrice anglosassone), non si può andare oltre qualche confuso mormorio critico, qualche improvviso sprazzo di lucidità analitica, qualche contraddittorio essere contro ma anche a favore. L’essere associato nel mondo ha bisogno di una struttura e questa riflette e si riflette in una teoria10, se vogliamo sostituire questa struttura con un’altra, occorre una teoria adeguata. Una sinistra smarrita, afasica e confusa non catalizza certo la fiducia e l’attenzione di tutte le sue potenziali componenti molecolari e non partendo il processo di catalisi, pur esistendo una sinistra “in potenza”, non esiste una sinistra “in atto” ma una sinistra impotente e frigida, il che si converrà, è assai poco sexy, cioè non attraente.
Dovremmo ora giustificare la nostra diagnosi. Poiché il problema è sia grosso, che complesso, che storico (cioè di medio-lunga durata) il coraggioso lettore, dovrà considerare che l’autore del ragionamento non potrà andare oltre una sequenza di punti assai condensati. Proveremo cioè a dipanare la struttura delle principali ragion per cui diciamo ciò che abbiamo detto, ma sarà un tentativo di struttura ed una struttura per lo più nuda. Ne conseguiranno possibili arbitrarietà, imprecisioni e (spero solo apparenti) superficialità. Si fa un passo alla volta, sperando che questo possa essere un primo passo e non un passo falso.
LA TEORIA DI MONDO DELLA SINISTRA ASSENTE
Una teoria di mondo, nella sinistra assente, certo esiste ed è quella di Marx. Da qui partono tre linee, il pensiero di Marx (marxiano), le linee di pensiero da esso derivate (marxiste), una costellazione esterna di temi non originariamente trattati né da Marx, né -per lo più- dai marxisti ma sopravvenienti nei tempi successivi. Parallelamente dovremo intersecare questi tre filoni con le nostre tre domande sulle finalità che implicano una comprensione ed una azione nel mondo, per segnalare come e dove si siano formate mancanze, fraintendimenti, insufficienze affinché la diagnosi critica sia rivelatrice di questo disallineamento tra teoria ed il suo oggetto: i rapporti sociali tra gli uomini che danno vita a sistemi immersi in un mondo comune. Condurremo l’analisi attraverso una revisione di singoli punti critici per formulare le risposte alle nostre tre domande.
Come spieghiamo il mondo ?
Una revisione dei capisaldi costruttivi la nostra teoria di mondo dovrebbe re-impostare la nostra definizione di mondo nelle sue coordinate spazio-temporali, quella di uomo e il metodo generale che usiamo per le nostre analisi e le nostre sintesi.
Il “nostro” mondo non può che non essere l’Occidente nell’età moderna stante che l’Occidente è particolare e non è un universale, così il “moderno”. In Marx ci sono conoscenze e considerazioni che avrebbero anche potuto portare ad ulteriori specificazioni, quella che corre tra continentali e “inglesi”, oggi anglosassoni, e quella che intercorre tra continentali latini e nordici, ma il nostro mondo, che non è più quello di Marx, è fatto da un altro Occidente. Un Occidente che vede gli Stati Uniti, in parte assimilabili ai britannici nella categoria “anglo-sassone”, a guida di una civilizzazione europea in senso euro-continentale, greco-latina nell’origine specifica. Gli strappi che si sono prodotti tra questa origine greco-latina, la successiva trasformazione euro-continentale, la successiva trasformazione anglo-europea e quella finale forma anglosassone-continentale che è oggi la sostanza del termine “Occidente”, esistono nella sostanza reale ma non sono visibili nelle teorie di mondo. Né in quella critico-marxista (capitalismo generico), né in quella dominante-liberale (democrazie di mercato generiche). Il concetto di capitalismo, finisce così col diventare un po’ astratto in quanto il suo concreto è la forma intera del modello e della sua attualizzazione in specifici e differenti costrutti geo-storici. Esiste una differenza storicamente rilevante tra l’Occidente anglosassone e quello continentale, differenza che si riverbera nei diversi sistemi socio-economici a matrice liberal-anglosassone, renana-scandinava, franco-italiana (stante che esiste poi anche una differenza geostorica significativa tra il sistema francese e quello italiano), giapponese. Non dettagliare il concetto nelle sue versioni geostoriche, comporta una genericità che fallisce nella descrizione e quindi nelle diagnosi di parti di mondo che sono differenti giungendo così ad una prima semplificazione11. Poiché un problema centrale che più volte rileveremo in questa veloce analisi è proprio un difetto di complessità tra mondo e sua teoria, queste semplificazioni vanno sottolineate soprattutto nelle loro conseguenze. Una prima conseguenza ad esempio, è anche quella di ritenere “capitalismo” una forma disincarnata dai concreti contesti, nel senso che le economie capitaliste hanno certo qualche cosa in comune ma anche molte differenze e che queste differenze riflettono paesi piccoli e grandi, costieri o dell’entroterra, isolati o continentali, dotati o meno di energia, dotati o meno di materie prime, con questa o quella cultura e tradizione, paesi capitalistici che controllano altri paesi capitalistici limitandone lo sviluppo, agricolo-industriali o basati su i servizi, etc. . Così non si vede anche che la prima opportunità del cambiamento sarebbe quella di separare ciò che le élite capitalistiche (che in parte non hanno differenze ed in parte le hanno ma non ne sono consapevoli ) tendono a considerare un unico, il far emergere la prima frattura, quella tra Occidente anglosassone ed Occidente euro-continentale12. L’Occidente anglosassone è irriformabile. Se cambierà lo dovranno cambiare gli anglosassoni, facendo i conti con vari strati del loro passato che affonda le radici nell’antichità dei popoli barbari pre-romani13. L’Occidente continentale ha invece non meno problemi ma più possibilità, poiché è proprio la sua radice continentale che ne determina non solo la differenza ma le future condizioni di cambiamento. E questa divisione degli occidenti, non solo darà ai continentali maggiori possibilità di cambiamento, non solo formerà le migliori condizioni per un pianeta multipolare ma aiuterà anche gli anglosassoni a fare i conti con la propria storia ed il proprio futuro, una volta che rimarranno riquadrati all’interno del loro specifico. La divergenza degli interessi tra Europa continentale ed ambiente anglosassone si manifesta oggi in molti modi: dall’Ucraina, alle relazioni con Russia-Cina, con i BRICS, con il Sud America, con l’Africa, con il problema medio-orientale, con le presunte convenienze del trattato TTIP, con una differente confidenza e propensione nell’uso della guerra. Un istituto come la NATO mantiene un accoppiamento strutturale (via sottosistema militare) che condiziona la libertà di tutti gli altri sotto-sistemi. La stessa “sinistra” è un concetto che, per quanto malconcio, esiste qui e non esiste lì.
Una seconda conseguenza di questa definizione astratta di capitalismo è che non si rendono sempre evidenti le dipendenze strutturali che il capitalismo occidentale ha col resto del mondo, da cui la secolare storia coloniale, schiavistica ed imperiale, proprio quel tema che Losurdo denuncia come luogo in cui la sinistra è assente cognitivamente e politicamente. Osservare questa dipendenza strutturale renderebbe poi immediatamente chiaro quali sono i problemi di imput ovvero l’assurda pretesa di questo sistema-macchina di incrementare la fornitura di imput di energia e materia al crescere della sua produttività e del sistema umano a cui si riferisce. La popolazione occidentale, ai tempi di Marx, era di 300 milioni e rappresentava un 25% del mondo, quarto che era incomparabilmente più sviluppato e quindi più “forte” del resto del mondo che doveva/voleva controllare per assicurarsi gli imput e relativi mercati. Oggi assomma a 1200 milioni14 (ha cioè un incremento relativo rispetto a se stessa di un fattore quattro (a cui si dovrebbero aggiungere gli incrementi di produttività e consumo) che però è diventato un poco più di un 15% (in realtà è anche meno) di mondo e non ha più quel controllo dominante sul suo esterno. Il sistema-macchina occidentale quindi richiede più imput in forme geometriche stante che il suo peso nel mondo si è ridotto e si è ridotta la distanza competitiva con le economie non occidentali. Basterebbero queste considerazioni a reimpostare molte analisi sulla crisi attuale, sulla sua genesi, sulle sue ragioni. Purtroppo, sia l’economia teorica dominante che da questione di filosofia morale è diventa una fisica degli scambi, sia quella critica che continua a ritenere il capitalismo un sistema che non ha entrate ed uscite, luoghi e tempi concreti (alla faccia del suo vantato “materialismo”), congiurano a tenere questo ente, in un limbo meta-fisico. La lotta tra i mondi, Occidente vs Resto del Mondo, interessi anglosassoni vs interessi continentali, quelle del continente settentrionale vs quelli di quello meridionale da cui la spaccatura oggettiva dell’Europa-euro, Impero vs emancipazione dal neo-colonialismo, guerre, Est vs Ovest e Nord vs Sud, ecologia vs sviluppo, imperialismo culturale e multiculturalismo, geopolitica, guerra delle valute e tante altre cose che animano le nostre cronache, diventano così difficilmente inquadrabili e comprensibili, cioè spiegabili dentro una teoria di mondo. In termini teorici, il capitalismo occidentale è un ente non sufficientemente dettagliato, di cui non si notano le contraddizioni interne di composizione e gerarchia, non geolocalizzato, osservato sempre e solo al suo interno come se non avesse una dipendenza strutturale col suo esterno. Dare per omogeneo un ente (sopprimendone la costituzione in parti) ed eliminare le sue dipendenze esterne (tagliandone le linee di interrelazione strutturale) è il modo migliore per semplificare qualcosa di altrimenti assai meno definito, ed assai più problematico, qualcosa di assai “più complesso”.
Sempre all’interno della definizione spazio – temporale, oltre alle incertezze sulle coordinate spaziali, ci sono poi quelle sulle coordinate temporali. Qui, la questione centrale è data dalla definizione che diamo delconcetto di modernità. In ambito dell’immagine di mondo liberal-marxista, la modernità è quella del XIX° secolo, ciò che è prima ne è una preparazione, ciò che è dopo ne è uno sviluppo conseguente. I contributi provenienti soprattutto dall’analisi storica della scuola francese, (Scuola degli Annales, F. Braudel), ci hanno reso chiaro che modernità inizia in realtà nel XV° secolo ed è una forma che assolve, mentre dissolve quella medioevale. Questo passaggio epocale non ha niente di rivoluzionario, in realtà è una lunga dissolvenza incrociata tra vecchio e nuovo che durerà dai due/tre (Inghilterra), quattro (Francia e molto dopo Italia e Germania) secoli. Quando ci saranno le rivoluzioni borghesi (che sono solo due, quella inglese e quella francese di un secolo successiva), queste non faranno altro che far saltare un tappo, stante che la fermentazione che aveva creato la pressione tra il contenitore ed il contenuto, ha lavorato per decenni prima di giungere al suo esito così rumoroso e romantico. Qual è l’origine, la tempistica, la complessa dinamica di questo epocale cambiamento? La borghesia è la popolazione dei borghi, ma i borghi si affermano in Italia nell’anno 1000, perché questa borghesia comincia ad affermarsi strutturalmente quattro secoli dopo e solo dopo altrettanti, giunge a conformarsi come sistema dominante, andando a coincidere per altro con una ben specifica classe che non è più la generica popolazione dei borghi? Molti guai derivano dalla compressione di questi processi di lunga durata in un istante storico (la rivoluzione), tra cui la convinzione che il cambiamento è nell’istante storico e non nei complessi processi di lunga durata. In una parola, è il tipo di teoria del cambiamento che rende fallace quelle teoria di mondo che ospita la rivoluzione come marcatore del cambiamento stesso. Le forze del cambiamento si accumulano secondo una logica che è la stessa dei quanti e del potenziale d’azione nei neuroni e di molti fenomeni naturali ed umani (scienza normale e rivoluzionaria nell’epistemologia di T. Kuhn ad esempio) che oggi conosciamo molto meglio di un secolo e mezzo fa, queste forze procedono progressivamente e cumulativamente. L’esplosione del cambiamento ci sembra “improvviso” ma ha una preparazione in realtà molto lunga. Non ha senso quindi la storica diatriba tra cambiamento progressivo e cambiamento saltazionista poiché è il lungo lavoro del primo che porta al secondo.
Insomma, dovremmo forse rivedere le nostre categorie analitiche con le quali definiamo lo spazio ed il tempo dell’oggetto – mondo di cui tentiamo la comprensione al fine di offrire una spiegazione come parte di una teoria mondo in grado di orientare la presa di coscienza e la conseguente azione trasformatrice. Tale revisione profonda, andrà ad intaccare la struttura semplificata e semplificante dello stesso materialismo storico. I fatti geostorici che abbiamo segnalato sono tutti fatti materiali, lo sono gli stati-nazione, le dinamiche dei loro interessi materiali che li portano a competere in parte senza guerra, in parte con la guerra, l’energia e la materia (la prima virtualmente infinita se si accede a quella solare, la seconda invece finita) che deve alimentare la macchina di produzione e scambio, gli output ovvero i rifiuti e l’entropia, l’aggressione ambientale e gli effetti di retroazione, la numerica della popolazione che chiamiamo demografia (censurata dai marxisti ab origine, convinti che la dimensione del sistema non sia un problema e lo sia solo perché il capitalismo agisce in logica di scarsità, cosa abbastanza vera sul pianeta di un secolo e mezzo fa, molto meno vera oggi), sono tutti fatti ultra-materiali che non si trovano né nel materialismo storico, né nella teoria liberale. E non è un caso, perché questi condizionamenti materiali, nella metà dell’800 non si avvertivano e poiché la teoria di mondo è parte dell’apprendimento del proprio tempo col pensiero, a tempi determinati in un modo corrispondono pensieri determinati in quel senso, cambiano i tempi, dovrebbero cambiare anche i pensieri, soprattutto la struttura o sistema che li connette in una architettura del pensiero. Comparando teorie del 1100 e fatti del 1250 per attenerci al solo fatto temporale, cioè avrebbe un significato, se la facessimo su teorie del 1500 e fatti del 1650, questo scarto sarebbe più sensibile. A nostro avviso, per la natura quanti-qualitativa dei cambiamenti occorsi nel mondo tra 1850 e 2000, questo disallineamento diventa drammatico. Curioso che questa implicita credenza nell’intemporalità delle idee si mostri nel sistema di pensiero (il marx-ismo) che più di ogni altro ha assunto la Storia ed il divenire, come propria componente analitica.
Dopo lo spazio-tempo con cui definiamo l’oggetto Mondo, dovremmo anche indagare la nostra descrizione dell’oggetto uomo che poi è un soggetto. Nell’approssimato ed inconcluso sistema marxiano, c’è una convinzione antropologica forte e c’è anche una rimarchevole sensibilità sull’antropologia, stante che pare che negli ultimi anni di vita, Marx venne rapito dalle indagini di Morgan e Maine, più che non curare il perfezionamento del secondo e terzo libro del Capitale che infatti vennero pubblicati postumi. Ma certo è che la successiva antropologia economica di K.Polany, quella di Malinowski-Mauss sul dono e la reciprocità, quella strutturale di Lévi-Strauss, quella anarcoide di Marshall Sahlins15, ma più in generale tutto lo sviluppo novecentesco della materia16, molto hanno cambiato delle nostre concezioni su noi stessi. I punti di crisi sulla faccenda, sinteticamente sono tre: 1) ruolo dell’economia nella strutturazione e dinamica delle società umane; 2) ruolo delle strutture e delle sovrastrutture soprattutto la relazione tra questi due momenti nell’ordinamento del sistema sociale; 3) fuoriuscire dalla dialettica stereotipata dell’uomo individuale vs uomo sociale dal momento che pare incontestabile che l’uomo sia un individuo sociale, cioè sia individuale, sia sociale e che tra i due ordini non esista armonia prestabilita. Il primo punto si riflette a base di un certo economicismo che si fa fatica ad addebitare esclusivamente a gli epigoni di Marx. Tale economicismo è stato falsificato tra l’altro dagli studi di K. Polanyi che sono alla base della più generale falsificazione dell’homo oeconomicus la cui versione utilitarista è criticata ma resa come simmetrico contrario in versione “sociale”, da Marx stesso. Questo genere “homo” ha ricevuto nell’ultimo secolo e mezzo, dozzine di diversi attributi: credente, abile, simbolico, sapiente, creativo-distruttivo, aggressivo e bellicista, egoista, empatico, altruista, spirituale, materiale, contemplativo, poietico e poetico, involucro per la riproduzione genetica, linguistica, epistemica, eretto, autocosciente-intenzionale, egalitario – gerarchico, parlante, sacro e via così. Facciamo pace con questa pluralità ed assumiamola come costitutiva della nostra complessità intrinseca, complessità che si mostra in diverse configurazioni a seconda delle lenti gnoseologiche che adottiamo, a seconda del frame di realtà e di tempo che indaghiamo. Così per l’ intero che è la società, dotata di regolamenti immateriali e materiali, di strutture economiche che però sono anche politiche e di sovrastrutture di sistemi di pensiero e concezioni del mondo e dell’oltremondo, stante che abbiamo anche quel “piccolo problemino” di esser l’unica specie che sa della sua certa morte. E così anche per quella nostra “insocievole socievolezza”, quel “disagio della civiltà”17 di un genere che vagava a gruppetti di 10-12 in una area poco più grande del Molise e dopo qualche decina di migliaia di anni, si trova in quella stessa area a vivere in più di venti milioni come a Singapore. Periodo che tra l’altro non è sufficiente, neanche in teoria, a presupporre una cambiamento bio-genetico della nostra struttura interna, tale da postulare una perfetto adattamento psico-biologico alle mutate condizioni del mondo in cui siamo immersi. Così Grozio, Hobbes, Locke, Marx, Bentham sono elementi interessanti per una genealogia del sapere ma per favore, non scambiamo questa proto-antropologia filosofica con la ricchezza del nostro sapere contemporaneo, che poi è sempre una frazione di quel fantasma imprendibile che è la Verità della cosa in sé. Insomma c’è da mettere mano pesantemente alle nostre idee su Io (uomo) e Mondo, nonché sulle loro inestricabili interrelazioni. Quindi sulla struttura stessa di ciò che fa una teoria di mondo.
Manca ancora un punto al nostro critico elenco delle revisioni: come pensiamo. Non solo come pensiamo le parti e le interrelazioni dell’oggetto principale che è il contenuto della teoria di mondo, ma il “come pensiamo” nelle sue forme. Uno degli scandali meno notati della ricezione del pensiero di Marx è che colui che criticava la divisione del lavoro non poteva che implicitamente ribellarsi anche a quella dei saperi. Ci sono diversi aspetti nel pensiero di Marx, c’è antropologia prima che questa diventasse una disciplina affermata, c’è sociologia che egli stesso ha contribuito decisivamente a fondare, c’è storia che segue le orme di Hegel ma non solo, c’è economia politica, c’è un abbozzo di quello che poi diverrà teoria delle idee, c’è molta politica, considerazioni giuridiche implicite ed esplicite, c’è sensibilità filosofica e giornalistica. Tutto questo è fuso nel suo -Io penso- ed è il motore della sua innovazione teorica con ambizioni di trasformazione pratica di ciò che interpretava. Dov’è il cuore di questo approccio in ciò che è seguito? Semplicemente non c’è! C’è una sequenza di dotta ignoranza mono-disciplinare che ha introiettato il modello smithiano – liberale (si ricordi che la divisione dei saperi è teorizzata da A. Smith a seguire la descrizione di quella del lavoro resa nella celebre apertura della Ricchezza delle nazioni sul case-history della fabbrica degli spilli) della separazione, della frammentazione, della riduzione, della semplificazione ultra determinista. Da questo caleidoscopio panoptico in cui i punti di vista sono nelle celle e il guardiano centrale è dato dalla resa produttiva specialistica del pensiero unico ordinato dall’economico, si ripetono da decenni stanche analisi in linguaggi incomprensibili che si perdono in pezzetti di pezzetti, nel contrario esatto del “il vero è il tutto” che non è il “tutto è il falso”18 di Adorno ma il “vero è la parte”. Meglio se piccola, non interrelata, priva di traiettoria temporale.
La ragione di questa mancanza che una volta tanto, non è in Marx ma nei marxisti, così come in tutte le altre forme di sistemica delle idee dell’Occidente (e non solo) sono diverse e complicate. Molte attengono alla storia del pensiero (filosofia) ed alla sequenza – scuola del sospetto – diaspora delle nascenti scienze umane fine ‘800-primi ‘900 – iperspecializzazione delle scienze dure. Specializzazioni scientifiche che allacciate alle tecniche hanno ricevuto una impressionante sequenza di feedback di successo concreto (l’enorme mole di innovazioni materiali degli ultimi due-tre secoli) tanto da diventare il paradigma del concetto stesso di verità, che l’Occidente cerca di possedere dai tempi di Socrate. Addirittura si è arrivati ad incolpare Hegel del fatto che l’idea che il pensiero è sistema19 (idea per altro già presente in Kant20) portasse in conseguenza ai totalitarismi novecenteschi, giudizio che sebbene proferito da cultori della scientificità (si pensi a Popper ma anche ad Hayek) ha in sé una forte componente “magica”21. Purtroppo, questa autentica corbelleria è stata introiettata anche da certa sinistra post-moderna, oltre che dalla lunga stagione di una filosofia rapita dal linguaggio nel mentre in Occidente e poco fuori si sono prodotti il 95% dei morti di tutte le guerre degli ultimi tre secoli, tra i cento ed i centocinquanta milioni di esseri umani come me e te22. Il nostro unico e primo imperativo è biologico: vivi il più a lungo possibile, la seconda parte: ed al meglio possibile si pone solo dopo soddisfazione della prima. Centocinquanta milioni di fallimenti, originati dal cuore della civiltà occidentale il secolo scorso, come li giustifichiamo? E dopo il post-moderno e la filosofia del linguaggio, si noti la logica, la filosofia analitica e quella estetica come uniche o prevalenti forme di pensiero riflessivo lungo l’ultimo secolo. Nel Novecento ci siamo sostanzialmente ammazzati nel mentre il pensiero si dilettava di analisi formali. Complimenti! Il fallimento adattativo che l’Occidente rischia oggi che si manifesta la fine della Modernità e l’inizio della Grande Complessità, è stato lungamente preparato nell’ultimo secolo. Pensiamoci prima che la tragedia si ripeti nella farsa del pensiero ma anche nella catastrofe della realtà.
Quindi, capitalismo è un ente vago che legge un fatto economico che è però anche politico, culturale e storico con dettagliate differenze tra aree stato-nazionali. Capitalismo occidentale è una macchina la cui sopravvivenza è dipendente da un’area molto più grande, che gli è esterna. Questo sistema è diventato un modo di stare al mondo in un percorso secolare e da allora, si è trasformato diverse volte. Le condizioni del suo sviluppo passato oggi non ci sono più o stanno rapidamente svanendo. La sua critica necessita una diversa antropologia e una diversa impostazione metodologica che possa portare ad un modello alternativo. Se la parte interpretativa della nostra immagine di mondo, la parte che ci dovrebbe spiegare ed aiutare a spiegare ai nostri simili il mondo che viviamo ha i suoi problemi, anche le altre due, quella che dovrebbe contenere la nostra speranza e quella che dovrebbe guidare l’azione che è il ponte tra la diagnosi e la prognosi, ne ha. Li vedremo nell’ultima parte, la prossima.
Parte terza
Giungeremo qui, alle ultime due domande: In cosa possiamo sperare? Come dobbiamo agire per procedere verso la nostra speranza? dopo esser partiti dalla “sinistra assente” di Losurdo ed esser passati per una revisione critica della capacità che la sinistra ha/non ha di rispondere alla prima domanda: come spieghiamo il mondo? Affrontando le due ultime domande, concludiamo un più ampio processo di revisione della teoria di mondo, la cui attuale fallacia ed incompletezza, a nostro avviso, pregiudica la presenza di quella sinistra, che risulta assente.
Prima di addentrarci nelle nostre due domande o meglio nelle loro rispettive ricerche di risposte, occorre una riflessione aggiuntiva sull’impianto di pensiero marxiano che costituisce oggi la base della teoria di mondo della sinistra. Se valgono le precedenti note critica su un materialismo limitato al solo fatto economico, la presunzione che il sistema sia auto consistente quando invece è ontologicamente dipendente da entrate ed uscite ben precise, i disguidi interpretativi su i rapporti tra pensiero ed azione e quella sull’approccio all’intero che mosse Marx ad una indagine multidisciplinare mai più ripetuta, se valgono le considerazioni di medio buonsenso sul fatto che una teoria di centocinquanta anni fa ha lo stesso tempo di ritardo su una realtà che non vi corrisponde più e quelle su i tempi lunghi delle trasformazioni strutturali epocali, altri due punti bisogna ancora sottolineare, la dialettica ed il modo di intendere il capitalismo.
Dialettica
Marx pensava si dovesse mettere la dialettica di Hegel a testa in su, non già fondata sulle idee ma su i fatti sociali ed economici. Detto ciò, però, non v’è dubbio che Marx assunse la logica dialettica, come un paradigma interpretativo centrale. Marx ne inverte il contenuto ma ne adotta, in parte23, la forma. La dialettica delle forme storiche, dei rapporti di produzione, delle classi, diventa una sorta di teoria della gravitazione newtoniana infallibile e certa per diagnosticare la fisica sociale e storica. Si forma così un ideale asse di corrispondenza tra mente umana, storia umana sociale ed economica, natura, che risponde ad una identica logica che prende le forme di un meccanismo monoscopico di verità che cerca di possedere la metafisica del divenire.
Questo meccanismo dialettico è anche responsabile del gigantesco fraintendimento di quella fisica sociale che prevede i Molti, talvolta ad esser descritti genericamente come tutti coloro che non hanno i mezzi di produzione (e di converso i Pochi come coloro che li hanno), altre volte come proletari, un termine che in abbinata al suo opposto dialettico borghese (servo-padrone, nella hegeliana in Fenomenologia dello Spirito) ha forse una qualche pertinenza nella Londra del 1860 (Londra, neanche l’Inghilterra, ancor meno nel continente), ma è impossibile da usare come bi-partizione categoriale per capire l’Occidente del 2015.
La fede nel meccanismo dialettico e l’impostazione fondamentalmente “critica” del pensiero di Marx hanno fondato la base del suo approccio. Questo approccio si è riprodotto nel tempo nell’ambito culturale di una sinistra molto agguerrita nella critica, assai poco chiara nella costruzione24. Pensare che dalla sola critica, dall’opposizione, dalla lotta per i diritti e la redistribuzione, dall’esercizio della funzione antitetica che fa perno sulla classe più sfruttata, potesse scaturire magicamente un positivo, il “superamento”, è il guaio della fede nella dialettica come meccanismo che intesse il mondo e la sua storia. La sinistra radicale , collezione di scontentezze, è figlia di questo atteggiamento, un atteggiamento in fondo non molto coraggioso nel volersi prendere la responsabilità di costruire il mondo secondo una propria visione, una grave mancanza di autonomia del pensiero. L’eterogeneità delle realizzazioni pratiche della supposta teoria di mondo derivata da Marx, dall’URSS alla socialdemocrazia europea, tutte assai insufficienti come dimostra lo stato dell’Occidente contemporaneo, è figlia di questa indeterminazione. Purtroppo, questa diagnosi combacia col fatto che la sinistra ebbe il suo massimo sviluppo numerico del dopoguerra, in quegli anni ’50-’60 in parte ’70, in cui il sistema in fondo era forte e funzionante, quasi che così potesse permettersi un grillo parlante che censurasse i suoi eccessi. Quando ci si rese conto di ciò che già si sapeva e cioè che il tentativo di comunismo realizzato era imbarazzante, si registrò una pesante flessione proprio nel mentre il sistema stava per avvitarsi nella sua ultima trasformazione, quella del dominio banco-finanziario i cui effetti vediamo e viviamo nell’oggi. Questa trasformazione non venne letta in diretta, l’inflazione di analisi critiche che sono state pubblicate negli ultimi anni, ha letto cosa è successo dal Nixon shock del ’71 con almeno venticinque anni di ritardo. Quando poi il sistema ha cominciato a mostrare le crepe della sua crisi sistemica ovvero strutturale, la sinistra è caduta in una crisi ancorpiù profonda, quasi che la perdita di portanza del positivo (il sistema), portasse per simpatia ad una crisi nel negativo (la negazione del sistema). Laddove il sistema ci pone davanti alla concreta possibilità che esso non funzioni più, nessuno ha più la pallida idea di cosa proporre come alternativa poiché la fede nella dialettica si aspetta che il superamento sgorghi spontaneamente dal processo di corrosione che l’antitesi produce sulla tesi. Così i liberali sono finiti come la mosca intrappolata nella bottiglia a sbattere la testa contro il vetro con sempre maggior ed inutile forza, questo è il neo-liberismo, una estremizzazione dei principi del sistema che mostra la sua difficoltà a sfuggire alla sua crisi ontologica e s’intestardisce in un ritorno ai “fondamentali”, diventando un fondamentalismo. La sinistra normale è corsa in soccorso del paziente diventando liberal-sociale in teoria, liberale pura nei fatti, nella doppia illusione possa esistere un modo di far funzionare un sistema che non funziona più e che possa esserci una gestione più giusta di un sistema che basandosi su differenze è la quintessenza dell’ineguaglianza. La sinistra radicale è rimasta da sola a specchiarsi nella sua eterogeneità critica che rispecchia l’eterogeneità della complessità del mondo attuale, senza una sintesi, senza una idea guida, senza un concreto progetto alternativo che proprio ora sarebbe il momento di proporre sul tavolo delle opzioni.
La dialettica è una metafisica del divenire solo che: a) tra metafisica e fisica i rapporti sono sempre di perdita di risoluzione, il concetto permette l’apprensione del reale perché la mente non può ospitarne la complessità se non riducendola e perdendo quindi di verità, la verità estratta non collima con quella concreta come il dado col brodo (manca infatti l’acqua); b) dialettica si dice in molti modi e sono tutti utili al pensiero, essa è una logica delle relazioni stante che l’ontologia della metafisica occidentale ne è priva; c) la dialettica, in qualunque forma la s’intenda è solo una delle forme logiche ed ontologiche che si possono dare all’essere in relazione, essa non ha l’esclusiva di verità sul suo dominio concettuale. Una teoria di mondo adeguata alla complessità deve sviluppare una logica plurale che non la logica della dialettica in versione hegelo-marxiana.
Capitalismo
Quello che dice il materialismo storico, in parte, è quello che dice K. Polanyi25 ma mentre Marx ne fa una legge della storia, K. Polanyi avverte che questa è solo la forma che chiamiamo modernità o capitalismo occidentale. Polanyi dice che questa forma presenta per la prima volta nello spazio-tempo umano, l’economia disembedded dalla società. Disembedded sta per “scorporata” e si relaziona all’opposta categoria per la quale, ovunque si guardi nello spazio-tempo storico umano, l’economia è intessuta nella società assieme ai fatti politici, etnici, anagrafici, di genere, religiosi, culturali, militari etc. (embedded = incorporata) . Scorporata quindi significa che non ha dipendenze ma che è dominante in senso assoluto, l’economia (il mercato, il capitale, lo scambio etc.) è l’ordinatore della società invece che esserne un ordinato. L’Occidente moderno è fatto di società in cui l’economia ordina, sia nel senso che dà ordine, sia nel senso che dà ordini a come si debbono strutturare tutte le altre componenti. Posizione e differenza di classe, cultura alta e bassa, financo ruolo e pratiche religiose, fatto militare e naturalmente fatti politici e sociali sono tutti messi in ordine in sé e tra loro, nonché disposizionati (forniti di imprescrittibili disposizioni) per riprodurre appunto il sistema e la sua struttura portante: l’economia a governo delle società umane. La proprietà privata esiste da molto e molto tempo prima del capitalismo, la moneta anche, l’accumulazione pure, il mercato figuriamoci, persino la divisione del lavoro, lo sfruttamento, la potenza tecnica anche. Anche componenti più moderne, le banche, la finanza, il credito-debito, le multinazionali, la borsa, le assicurazioni compaiono tutte prima del XVII° secolo tra Italia ed Olanda, ma non fanno ancora “il sistema”26. La differenza è nel come queste cose si sono tra loro saldate nella modernità, a partire dall’Inghilterra del XVII° secolo e soprattutto nel ruolo che il sistema ha preso rispetto a gli altri sistemi che formano la società. L’economia assoluta prese il posto della monarchia divina, un processo per cui una classe di riferimento ha preso il posto di un’altra classe legata ad un processo non più sostenibile (l’ordine medioevale) per la dimensione e le necessità di competizione tra le società europee dal XVII° secolo in poi.
Se questa è la versione moderna dei Pochi vs i Molti, stante che questi Pochi sono comunque di più di quanto fossero gli aristocratici, le monarchie, i vertici del clero, i senatori romani ed i generali, i latifondisti, i re, tiranni, oligarchi greci, i faraoni coi loro sacerdoti etc. , occorre promuovere una ulteriore fase, quella in cui i Pochi verranno inglobati nei Molti, affinché siano questi che si autogovernano. Autogoverno significa che saranno i Molti a decidere e non il mercato, ma neanche dio o la grandezza di Roma o l’Olimpo e le élite di Sparta o Atene o le SS o il partito o la massoneria o la classe redentrice o il complesso militar-tecno-scientifico o chissà quale altra minoranza che riproduca lo schema fondamentale.
Se è con la storica gerarchia Pochi vs Molti che abbiamo a che fare, allora il nostro progetto-speranza, non potrà che essere il continuato tentativo di superamento di questa gerarchia. L’annullamento di questa forma che impedisce da molto tempo l’emancipazione umana non è in una forma-sogno perché non è in questa o quella forma di sistema sociale o economica il problema, il problema è in ciò che produce tale gerarchia. Certo non è il possesso dei mezzi di produzione ciò che produce questa gerarchia perché questa spiegazione non resiste alla domanda: cosa diversifica gli uomini in modo da dotarli asimmetricamente del possesso dei mezzi di produzione? Né alla constatazione che nella storia non è stato sempre il possesso dei mezzi di produzione il motore del formarsi gerarchico anche se poi è stato proprio di ogni élite impossessarsi del timone dei timoni e quindi anche del potere economico. In un partito politico ad esempio, non esiste il problema dei mezzi di produzione, a meno che con questa espressione non s’intenda l’asimmetrica distribuzione delle conoscenze, delle facoltà di pensiero e della competenza linguistica, “mezzi” per produrre una quanti-qualità di “valore” politico che è poi quello che assicura ai Pochi di prendere la leadership dei Molti, riproducendo lo schema fondamentale anche nel più a sinistra dei partiti di sinistra.
Democrazia
E’ allora proprio la distribuzione delle conoscenze che è la causa base della bipartizione dei Pochi su Molti. Il pari diritto a decidere sul comune e la sovranità su se stessi sono i due principi che da una parte portano a combattere la gerarchia e dall’altra a promuovere la democrazia. Ma una cosa è il diritto, un’altra la capacità. Solo la capacità può affermare il diritto. Nel suo libro, Losurdo riporta efficacemente a pg. 42, un Hayek che con brutale franchezza dice che la grande massa non possiede la capacità di pensare logicamente, comprendere i problemi piuttosto complicati della vita sociale. Hayek riecheggia l’Anonimo oligarca27, l’autore sconosciuto di un famoso libello antidemocratico del V° secolo a.c. che impietoso, mise in colonna tutti i difetti e le contraddizioni della democrazia ateniese, il testo fondativo dell’anti-democraticismo che non ha tempo, tanto quanto non ne ha la struttura dei Pochi che dominano i Molti28.
Se il compito della sinistra a promuovere l’affermazione del potere aritmetico per il quale i Molti non possono essere subalterni ai Pochi, per il quale i Molti debbono annullare l’esistenza stessa di questa ineguaglianza di base, per il quale i Molti debbono poter decidere formando una volontà generale di tutte le cose che riguardano il proprio vivere associato, per cui si ripristina il potere della politica sull’economia e su ogni altra cosa che riguarda quel vivere associato, allora ciò in cui deve sperare la sinistra, ciò che deve orientare il suo agire non è un eden prefigurato in cui si produce così o colì, in cui si crede in questo dio o in quell’altro o in nessuno, in cui un re-filosofo coadiuvato da occhiuti guardiani armati governa il Bene generale, ma un ben preciso modo di stare al mondo: il modo per il quale i Molti sono in grado di governare se stessi ed il Tutto, la democrazia reale. La diade fondamentale è governo della gerarchia vs autogoverno.
In che cosa speriamo?
Marx subordinò la sua analisi della gerarchia dominanti-dominati al fatto che i primi tali erano per via del possesso dei mezzi di produzione. In base al motore della trasformazione dialettica, ne conseguiva che i secondi avrebbero dovuto impossessarsi di quei mezzi, di modo da dissolvere la ragione del dominio. Questo avrebbe portato ad un mondo senza classi e ad una “fine della storia”, un – eden concreto29 - su cui , il tedesco, è stato assai avaro di specifiche. Da questa vaghezza sono conseguiti due effetti. Il primo è che se non si dettaglia almeno a grandi linee dove devi andare, difficile che ne consegua chiarezza del come andarci ed in quanto tempo. Questo buco del pensiero marxiano è stato successivamente riempito da Lenin col concetto del partito rivoluzionario, gerarchico, guida della classe incaricata di rivoluzionare l’assetto gerarchico. Il secondo è che in questa vaghezza, si sono proiettati una serie di desiderata che né sono canone comune, né son stati verificati almeno nel pensiero, se e quanto compatibili, se e quanto questa utopia concreta è almeno in via teorica “viabile”. Se è cosa che sta i piedi, che funziona, che è possibile anche se in un futuro non immediato. Questo secondo effetto si somma al primo, generando la grande pluralità dei modi d’intendere e praticare la sinistra, una pluralità che solo in parte è “ricchezza” come si dice consolatoriamente in questi casi, più spesso è semplice confusione. Sul piano concreto, questa indeterminazione, ha portato alla sbilenca realizzazione sovietica che, anche se ripudiata, grava come negativo nel patrimonio storico dell’utopia.
Se sostituiamo nell’analisi della gerarchia, il differenziale basato sul possesso dei mezzi di produzione o il possesso della terra o il possesso di una armata o di altra forma di forza materiale (tra cui quella dell’uomo sulla donna) o il possesso di una superiore credibilità investita direttamente da qualche dio o il possesso di più esperienza o il possesso di un diritto di razza o di civiltà auto-riconosciuto con quello di base che è basato sul possesso asimmetrico di conoscenze, l’intero impianto va distrutto e ricostruito da capo. Se ciò che genera la gerarchia è il differenziale delle conoscenze non sono i mezzi di produzione ciò di cui riappropriarsi ma le conoscenze stesse. L’idea ciò possa mai avvenire, balza subito ai confini remoti del tempo umano, la nostra previsione di quando e come accadrà diventa incerta più delle previsioni del tempo, risulta subito ridicola la pretesa di prevedere una fine della storia. Subito dopo, si pone il problema che la mia o la tua visione di “eden concreto” si relativizza nel novero di quel miliardo di versioni che riflettono altrettanti desiderata individuali, miliardo contabilizzato nell’attualità ma da moltiplicare ulteriormente per le varie generazioni che ci seguiranno. Quello allora che ci serve per equalizzare progressivamente e sempre più il differenziale delle conoscenze è una procedura, non un oplà storico per cui: tesi: siamo così – antitesi: dovremmo esser così – sintesi: processo di trasformazione rivoluzionario. Soprattutto, appare evidente che così come la serie di trasformazioni materiali che portò dal Medioevo alla Modernità richiese il corso di diversi secoli, la nostra auspicata trasformazione degli immateriali connessi a materiali (le conoscenze che si riflettono in concrete strutture di mondo), richiederà un non meno lungo processo, un processo di lunga durata. Questo processo di lunga durata di cui dobbiamo trovare la procedura dovrà comunque portare benefici progressivi poiché nessuno impegna la propria vita nel migliorare un mondo il cui godimento è post-posto alla fine dei tempi, ci dovrà cioè essere un circuito rientrante per cui ogni guadagno si reinveste nel processo ma una parte, si gode nel miglioramento del mondo del qui ed ora. Altresì, qualunque natura avrà la forza politica che agisce per questo cambiamento essa dovrà rivolgersi a tutti coloro che aderiscono all’idea di compiere una transizione autocosciente da un sistema ad un altro e tale forza, dovrà usare la stessa procedura del processo che si vuole affermare. Questa alleanza per la trasformazione, non avrà in comune necessariamente l’idea di un risultato finale dettagliato nelle forme specifiche di questa o quella economia, questa o quella cultura, questo o quella o nessuna religione ma solo di una certa forma generale: il dominio della politica su tutto ciò che inerisce l’intero sociale, il dominio della logica democratica sulla politica. In poche parole: il governo dei Molti su se stessi. In due: la democrazia totale30.
Democrazia è ciò che invariabilmente: a) elitisti di tutti i tempi (intellettuali e benpensanti di ogni stagione, aristocratici delle terre e del pensiero, possessori dei mezzi di produzione, della parola e di eserciti armati, gerarchie ecclesiastiche e caporali di giornata, capi di partitini insulsi e grandi banchieri) hanno visto come l’antimateria che annullerebbe immediatamente la loro esistenza; b) è stata giudicata e ritenuta l’utopia più estrema31, oltre i confini della realizzabilità poiché “non siamo tutti uguali” e la storia umana, quella specifica delle società complesse, ha sistematicamente falsificato questa pretesa utopica stabilendo una ipotetica legge (di ferro, bronzo, acciaio o fate voi) che più o meno recita “o si domina o si è dominati”. Si sbaglia se si ritiene la seconda constatazione come condizionata dall’azione nell’egemonia del pensiero, da parte delle élite di ogni tempo e luogo. Esse senz’altro hanno fatto di tutto per mantenere uomini e donne di ogni tempo, in condizioni di minorità, ma non è solo questa pressione che ha impedito ai dominati di iniziare un processo di emancipazione. Fino a Marx e più in generale i primi del XIX° secolo o poco prima32, la gente d’Occidente, non aveva mai avuto la fortuna di avere un intelletto, anche mediocre, che si indignasse per l’ingiustizia. Socrate prima, Platone poi, si misero in cerca del concetto di giustizia ma non s’indignarono certo per l’ingiustizia, se non quella che, secondo loro, compivano i sofisti (che per lo più erano democratici) distribuendo sapere a tutti, sebbene a pagamento. E non è neanche l’assenza precoce di questa autocoscienza, almeno nella forma di pensiero, che può giustificare questa difficoltà. Democrazia è facile da dirsi ma come diceva Brecht, talvolta, è proprio il facile che difficile a farsi. Peccato non sia facile, peccato democrazia non sia reclusa nelle segrete del Palazzo d’Inverno che si possa assaltare per sprigionarne lo Spirito Assoluto, che sia cosa lenta, contraddittoria, difficile e complessa, che molte delle catene e delle ignoranze che ce la rendono lontana siano dentro noi stessi . La democrazia, essendo un regolamento che unisce individui, essendo una matrice di interrelazioni che unisce varietà è di per sé un prototipo di quel processo in grado di sostenere un sistema complesso. Un esempio lo troviamo nella democrazia neurale ovvero nel nostro cervello-mente che è una matrice di interrelazioni (assoni, dendriti, sinapsi in cui viaggiano sostanze chimiche ed impulsi elettrici) che collega varietà (vari tipo di neuroni e sistemi di neuroni). Quella umana è anche più complessa perché i neuroni , singolarmente intesi, non sono autocoscienti. La democrazia è complessa33 ed è per ciò che è il regolamento di gioco ideale per i nuovi tempi complessi ed è per ciò che sino ad oggi, esistendo forme più semplificate di ordinamento sociale (la religione, l’etnia dominante, la forza bruta, l’economia di mercato, il dominio politico dei Pochi in varie forme), non ha avuto un grande pubblico, stante comunque un certo ottundimento mentale generalizzato e stante, ovviamente, che le élite hanno fatto di tutto per evitarne anche la semplice ipotesi.
Se si grigliasse il concetto democrazia (reale) dentro le complesse architetture di una teoria di mondo, si scoprirebbe che l’incantamento magico, il rapimento natalizio con cui grandi e piccini di sinistra sorridono all’evocazione taumaturgica del suo splendido immaginario, richiederebbe altresì ben lunga e complessa riflessione. Come si fa, come funziona, come si preparano le persone che ne fanno parte, ci può esser democrazia della decisione collettiva se non c’è una minima eguaglianza delle conoscenze, quanto tempo umano consuma una pratica diffusamente democratica, quali sono le forme della democrazia produttiva, possiamo sognare solo una democrazia interna o dovremmo piegarci anche ad una democrazia delle relazioni internazionali, quanto grande e resiliente deve essere un sistema politico per potersi permettere gradi progressivi di democrazia senza venir annichilito da qualche impero totalitario, è mai possibile che tutti si occupino di tutto, siamo disposti a piegarci alla dittatura della maggioranza, quanto tempo mai ci metteremo a far evolvere tutte le variabili perché si compi il miracolo, il tutto (e molto altro) seguito da numerosi punti interrogativi ???
Sulla democrazia, dove Marx non ha criticato ha taciuto. Sulla democrazia, il comunismo ed il socialismo reale non solo ha parlato contro ma ha attivamente applicato modelli anti-democratici, cioè elitisti. Che ne facciamo dell’avanguardia leninista, la massoneria rivoluzionaria? Quanta democrazia abbiamo sperimentato nelle formazioni politiche di sinistra sino ad oggi? Che ne facciamo del soggetto rivoluzionario a cui dare coscienza (espressione di un paternalismo imbarazzante) se l’obiettivo debbono essere i Molti autocoscienti? Questi Molti autocoscienti ed in grado di comprendere il mondo nella sua complessità, sono un ente plurale che non risiede originariamente nella teoria di mondo marxiana e marxista, affascinata dal romanticismo rivoluzionario che cambia tutto ma non trasforma niente, dalla meccanica della dialettica oppositiva della lotta di classe da cui chissà come e perché, dovrebbe nascere un nuovo modo di stare al mondo, nella fede che è dal negativo che nasce il positivo, vera e propria prestidigitazione hegeliana che è folle pensar di trasportare –sic et simpliciter – dalla rarefatta astrattezza della Scienza della Logica al Mondo della materie e degli uomini, dei processi e della realtà complessa. Domande queste che comunque colpiscono un ambiente teorico-pratico che almeno si pose il problema dell’ingiustizia e della ribellione alla gerarchia dell’uomo sull’uomo.
Fuori di questo ambiente, il trionfo della falsa coscienza, quando non l’esercizio della ragione appaltato a questo o quel committente per garantirsi un ruolo sociale ed il soddisfacimento dei bisogni, primari e spesso anche secondari. Il corpo teorico della democrazia è di una povertà imbarazzante. Forse Protagora o Anassagora o Democrito ne pensarono e ne scrissero ma nulla di loro ci è pervenuto. In compenso ci è pervenuto tutto Platone che è costitutivamente anti-democratico ed anche Aristotele in parte, che è un po’ meglio ma la cui Politica non è certo un trattato sull’argomento. Certo non la troviamo in Polibio o Machiavelli o Bodin o Hobbes o Bousset. Quando i liberali affermarono il loro sistema nel XVIII° secolo, un sistema che presuppone il governo parlamentare delle élite impegnate a creare le migliori condizioni per lo sviluppo del sistema economico, in un primo tempo, non lo chiamarono certo democrazia. Fu in parte B. Costant ed in parte l’Illuminismo francese ad operare questa trasformazione di nominare un sistema elitista con il termine della opposta concezione politica. Disguido che rimarrà a base dei sistemi politici occidentali in cui certo si cercò progressivamente di allargare il diritto di voto (si cercò nel senso che fu l’oggetto specifico di una lunga ed aspra lotta in cui si forgiò il concetto di sinistra), ma sempre entro il quadro del sistema rappresentativo e di una “democrazia una volta ogni quattro anni” come diceva Rousseau, l’unico ad aver speso un po’ di energia intellettuale sul difficile argomento. Né andò meglio nel Novecento. Solo di recente, ci si è resi conto che ciò che chiamiamo col nome magico che ci fa vibrare alla lettura del Pericle di Tucidide, non è democrazia ed oltretutto è un sistema in lenta dissoluzione e corruzione. Solo di recente si manifesta una certa agitazione neuronale sul concetto, in qualche avventuroso pensatore ed in qualche isola di pratica politica sud americana o curdo-siriana. Possiamo così domandarci: quanto metodicamente e con la consapevolezza dell’enorme difficoltà di mettere in piedi un sistema assai ambizioso che non è forse ben chiarito dal termine che lo identifica, ci siamo applicati allo sviluppo di una pratica democratica cancellata da dopo Atene classica e contestata anche in quel caso34, dalla storia occidentale, salvo tratti e brevi lampi rivoluzionari di zappatori londinesi, comunardi parigini, cosacchi e consigli sovietici della prima ora? S’intende dunque che qui diciamo democrazia quella di tipo ateniese. La forma delle élite rappresentanti riunite in ceto politico parlamentare è cosa di altra specie, è cosa che meriterebbe altra parola.
A nostro avviso, se sinistra è primato della politica su ogni altra forma e allargamento continuo della partecipazione all’autogestione degli individui sociali, una democrazia totale è ciò in cui dobbiamo sperare.
Come dobbiamo agire per procedere verso la nostra speranza?
La nostra speranza è lì in fondo ai tempi lunghi, lì dove gli esseri umani saranno capaci di autogovernarsi in un regime di uguaglianza delle differenze. Uguaglianza, in questo senso, significa mancanza di una gerarchia fissa, il che non significa per principio mancanza di una gerarchia poiché se il processo generale risulta da una sommatoria di sottoprocessi, questi sono comunque seriali e presuppongono il prima ed il dopo, il di più ed il di meno. La sommatoria dei sottoprocessi mostra una presenza di gerarchia ma nel suo complesso, esso è un regime di gerarchia variabile. Il concetto che esprime questa complessità di gerarchie variabili è l’ad-hoc-crazia, la formazione di gerarchie mobili e contingenti che si formano ad hoc nel contatto con questo o quel contesto, lì dove si formano i vari sottoprocessi di cui è composto un intero-complesso. Nel ciò che è, ciò che assomiglia di più a quanto stiamo dicendo è il cervello-mente umano (non solo umano, ma nell’umano ciò avviene a livelli di complessità massima ed è quindi a questo livello che ci riferiremo), stante che l’analogia è resa imperfetta dal fatto che ogni singolo componente del cervello-mente non è autocosciente, mentre ogni singolo umano-sociale lo è. Complessivamente, il cervello-mente non mostra “una” gerarchia ma una sommatoria di sottoprocessi, ognuno dotato di una sua gerarchia. Il sistema generale, il cervello-mente dell’individuo non mostra “una” gerarchia sola, perché esso è proprio lo strumento più spiccatamente adattativo. Adattativo significa che è il contesto, la situazione, il momento, il compito ad ordinare l’agenda, il cervello-mente-(corpo) individuale si regola e regola il suo ordine e funzionamento interno, in ragione di quella situazione. Ed è in regime adattativo che alterna veglia e sonno, coscienza ed autocoscienza, razionalità ed emotività, conscio ed inconscio, ragione ed istinto. Poiché il mondo umano, la somma degli individui, è fonte di grandi differenze individuali (cioè intrinseche all’individuo ed alle sue potenzialità) questa è ciò che chiamiamo “differenza”. L’uguaglianza delle differenze significa che le differenze non sono piallate ed equalizzate rendendo la molteplicità umana una piatta sequenza di identici, ma mantenute e composte in un funzionamento sociale collettivo in cui ognuno contribuisce in maniera (pressappoco) uguale, in base a quelle che sono le proprie specificità.
Questo presuppone uno sforzo immenso nello sviluppo del potenziale umano. Il primo passo è riconoscere la presenza di questo enorme potenziale umano racchiuso in ogni singolo individuo e diffidare per principio, di ogni teoria di mondo che riduce questo enorme “in potenza” con questo o quel “in atto”. L’uomo quindi non è solo un soggetto produttivo e poietico, non è solo contemplativo e riflessivo, non è solo rapito da ciò che è oltre il mondo, non è solo una macchina biologica, non è solo sociale, né solo individuale, né alcuna altra riduzione a cui questo o quel punto di vista teorico ha cercato di ridurlo. Poiché ognuna di queste teorie definitorie nasce da un umano ed ha per oggetto l’umano, non si sbaglia più di tanto nell’ammettere che esse sono -tutte- false nella loro presunzione di unicità e quindi vere nel cogliere un aspetto concreto del tutto umano, quel “tutto” che è il contenuto di quell’enorme potenziale.
La prima condizione di contesto necessaria per intraprendere il difficile percorso di liberazione di questo potenziale è il tempo, sia sufficiente tempo davanti per dispiegare processi di lunga durata (estrarre queste potenzialità non è facile e veloce come unzippare un file), sia sufficiente tempo intorno all’individuo individual-sociale. Tempo intorno, significa, avere tempo/giorno e tempo/anno, ben bilanciato tra le varie attività esterne/interne all’individuo. Il maggior ingombro per il dispiegarsi di questo contesto aperto è il lavoro. Dal 1919 l’accordo internazionale sul lavoro presuppone la divisione del tempo/giorno nella partizione 8-8-8, tra tempo di lavoro-personale-sonno. Il sonno è un tempo biologico anelastico. Il lavoro oggi è richiesto in misura di molto minore a quanto richiesto un secolo fa. La tendenziale saturazione dei prodotti materiali ancorché mal distribuiti, la presenza di un numero spropositatamente maggiore di produttori nel pianeta rispetto ad un secolo fa (il che sta comportando anche una redistribuzione geografica dei redditi), i costanti aumenti di produttività che hanno aumentato l’output a parità di tempo lavorato, l’incredibile erosione di tempo-lavoro umano da parte delle macchine (tecnologia-automazione-intelligenza artificiale), la nostra necessità di allentare la pressione esercitata sugli stock di materia ed energia per problemi di incipiente scarsità, nonché per problemi di equilibrio ambientale e per problemi di allentamento della competizione tra sistemi-nazione (che in molto casi potrebbe portare a guerre), la nostra volontà di non ridurre l’umano a produttore di cose alienanti in cambio di un pacchetto di fiches da giocare nel gioco della società e di liberare tempo per la partecipazione democratica e per le attività personali (amicali, affettive, ricreative, formative), sono forze che congiurano tutte verso un punto: travasare tempo di lavoro in tempo personale. Politicamente questo si traduce nell’assunto per cui occorre lavorare meno, fatto salvo un reddito commisurato ai bisogni personali. Si badi, questa non è solo una necessità per il nostro progetto-speranza, è una urgente esigenza di adattamento alle mutate condizioni di mondo. La lotta per la redistribuzione dovrebbe esser anche lotta per redistribuire il tempo di lavoro in modo da non avere disoccupati, quindi minor lavoro pro-capite. Noi viviamo “come se” dovesse ritornare il lavoro pieno e distribuito. Non è così perché l’erosione di ore lavorate è una costante degli ultimi cento anni, a prescindere dall’attuale crisi, dalle politiche di austerità e dal dominio dei dogmi neo-liberisti.
La democrazia degli uguali-differenti, presuppone come detto non tacere sul difficile problema per il quale non solo si deve poter decidere su tutto ma bisogna essere anche in grado. Essere in grado significa due cose: formazione ed informazione. Lo sviluppo della lunga marcia per la democrazia quindi, oltre al tempo, ha in agenda due punti imprescindibili: a) la funzione formativa; b) la funzione informativa. La prima significa che la scuola va equiparata ad ogni altra funzione vitale umana. La scuola è necessaria non solo per formare i giovani e tanto meno solo per formarli al lavoro. Primo dovrebbe formare l’individuo sociale e politico come conoscenze generali, capacità critiche, capacità di ragionamento complesso; secondo ciò non è riservato ai giovani poiché davanti all’ignoranza delle tante cose di cui è fatto il mondo, siamo tutti giovani ed inesperti. La formazione e l’auto-formazione dovrebbe diventare un processo continuato e diffuso in modi e tempi da dettagliare, ma nella convinzione condivisa dell’assoluta necessità di averlo come obiettivo cardine. Così per l’informazione. Il sistema gerarchico, non a caso, presidia in forze queste due momenti operando due strozzature: una formazione sempre più limitata, specializzata ed orientata alla collocazione fissa nell’enorme macchina della produzione e scambio; un controllo sempre più stretto su i canali informativi, su i contenuti, le interpretazioni dei fatti, la stessa scelta del palinsesto delle notizie. Menti scotomizzate vengono solleticate da un enorme apparato della notizia confezionata pubblicitariamente ed in ciò si riproducono le condizioni di minorità per cui gli individui sono dipendenti da un sistema-processo impersonale che è poi quello che dona a certe élite il potere che hanno. Tempo, formazione ed informazione sono già tre punti caldi da presidiare costantemente per allargare le condizioni di possibilità di sviluppo del potenziale umano.
Il soggetto di questo processo è al contempo l’oggetto: i Molti. Rimane la lotta che tende ad equalizzare le condizioni materiali, lo sforzo di riduzione delle ineguaglianze materiali (averi, redito, possibilità) e in questo senso, rimane la lotta di classe se la classe è quella dei Molti. Ma questa è solo una metà dello sforzo. L’altra metà è la lotta comune dei Molti contro i Pochi per sovvertire progressivamente i principi del sistema generale, quello che determina il dominio dell’economico sul tutto i resto, quello che genera le élite e la dicotomia base. Questa maggioranza naturale degli individui associati in uno sforzo comune, dovrà comunque trovare lo strumento organizzativo-pratico che possa portare avanti lo sforzo. Che sia movimento, cellula federata, partito, sindacato, gruppo d’azione, comunità territoriale, anagrafica, di genere o di interesse culturale, l’organizzazione politica (meglio se al plurale) dovrà cercare di praticare l’obiettivo per cui si batte. Ciò vuol dire che la lunga marcia per la democrazia delle differenze, presuppone pari impegno esterno ed interno. Ogni organizzazione o comunità e gruppo che si batte per questo obiettivo dovrà cercare di praticare quanta più democrazia interna gli è possibile, nel mentre si batte per creare le condizioni di possibilità al suo esterno. Gli individui politici dovranno essere allevatori di democrazia, produrre condizioni democratiche tanto nella società che si vuole trasformare, quanto nelle stesse organizzazioni impegnate nella promozione di questa trasformazione. La democrazia necessita di un triplice sforzo: interno all’individuo, esterno a lui ma interno alla comunità di individui che si batte per la democrazia generale o per qualche suo aspetto specifico, eterno alla comunità e rivolto alla sua società in senso complessivo. La lunga marcia per la democrazia è anche una faticosa marcia dentro se stessi ed interna alle forme organizzate di chi ha deciso di intraprendere quella marcia. Per cambiare il mondo dobbiamo cambiare noi stessi e chi ci sta attorno, le monde sommes-nous.
Va poi costantemente promossa una democrazia (parziale, dato che scontiamo l’immaturità del processo) economica progressiva, il che non significa rinunciare per principio al mercato, è da migliaia di anni che ci sono i mercati quali luoghi in cui si scambia. Democrazia non di mercato ma con mercato significa che il mercato e le sue logiche sono riportate embedded alla società, che la società ne controlla gli eccessi similmente a quanto promosso dal liberale Keynes e ne cura la logica di modo da avere una funzione sociale e non antisociale. Accanto, si dovranno poi promuovere le forme di proprietà sociale e pubblica ove possibile e necessario, le forme di proprietà condivisa tra gli stessi lavoratori, le forme cooperative. Uscire progressivamente dalla civiltà (inciviltà) di mercato non significa uscire dal mercato ma uscire dall’assetto per cui questo è l’unica forma del sistema economico e per cui questa forma impersonale generatrice di élite, domina ed ordina il tutto35.
Occorre poi fuoriuscire dal ricatto della macchina dialettica per la quale se il nemico attacca un punto allora dobbiamo acriticamente difendere quel punto sino alla morte mostrando, tra l’altro, mancanza di autonomia di pensiero, meccanicismo, sudditanza nel farsi imporre l’agenda del discorso pubblico e finendo col difendere l’indifendibile36. Va precisato il ruolo dello Stato nella nostra idea di mondo perché se non è in discussione la funzione redistributiva, può e deve esser messa in discussione la perversione per la quale la forma Stato produce di per sé élite che si annidano nella sua struttura. Così per il weberiano problema della burocrazia, per il controllo democratico del pubblico che non è più democratico del privato solo perché è pubblico37. In Europa, non si potrà fare a meno di ridiscutere le forme stato nazionali di un subcontinente che con il 10% della popolazione mondiale si fraziona in stati nazione che assommano al 25% del totale planetario. Pensare di ripristinare la perduta sovranità in francobolli accerchiati da potenti strutture economiche, finanziarie, militari concorrenti è pura illusione. Il che non ci porta a pensare al mito di una Europa Unita che è progetto impossibile anche perché non funzionerebbe. Certo è che la nostra speranza democratica va condivisa su base transnazionale anche se non è certo il caso di iniziare pensando in forme planetari, poiché il nostro specifico è e rimane lì dove viviamo e la civiltà a cui apparteniamo. Pensare a quale nuova forma possa e debba prendere il nostro vivere associato è una priorità imprescindibile. La cultura democratica sa che la cellula comunitaria è l’alveo naturale per la vita associata da cui sgorgano interessi comuni e necessità comuni di partecipare al dibattito ed alla scelta del che fare. Questo alveo naturale della democrazia non è lo stato-nazione sia ben chiaro, è molto ma molto più piccolo. Ma poiché non siamo più tribù di cacciatori raccoglitori, questa esigenza naturale di comunità singola, deve fare i conti con l’altrettanto necessaria composizione di una comunità delle comunità associate, federate, unite per compiti che esulano lo specifico locale. Si dovrà riflettere bene sulla questione. Può darsi che le linee di orientamento possano essere due: tornare a costruire comunità locale, connettere le comunità in supersoggetti resilienti (militarmente, economicamente, culturalmente, politicamente) che travalichino lo stesso stato nazione europeo. Si dovrebbe pensare ad una federazione di comunità nell’ambito del difficile, ma del possibile, secondo criteri di prossimità ed omogeneità linguistica, culturale, storica. Da questa riflessione dovrà scaturire anche coscienza sull’imprescindibile centralità della politica e dell’economia internazionale, quali gli amici, quali i nemici, quali gli assetti di mondo più favorevoli allo sviluppo di entità democratiche. Sicuramente un ambiente internazionale multipolare (nel peso politico, nel peso delle valute, nel peso economico, nel peso militare, nel peso delle credenze religiose e culturali) è più consono all’esigenza di formazione e resilienza di entità ambiziosamente democratiche poiché il mondo a guida unica, l’Impero, è l’ambiente più gerarchico ed elitista che si conosca, l’ambiente che immediatamente dissolve come acido ogni tentativo di formazione di sistemi democratici, tentativi già di per se difficili. Così il mondo bipolare che sclerotizza ogni dinamica riportandola alla logica binaria semplificata. L’intelligenza democratica dovrà attentamente riflettere su quali siano le migliori condizioni di possibilità di contesto che favoriscano o impediscano di meno lo svolgersi dell’ambizioso processo.
CONCLUSIONE
Abbiamo dunque tutti i principali elementi per ripristinare una teoria del mondo che possa rendere presente una sinistra assente. Al “cosa possiamo sperare?” possiamo rispondere con una utopia concreta di persone tanto individuali che sociali che si autogovernano ed autogovernano le loro forme territoriali, i rapporti sociali interni e quelli politici esterni, l’economia, l’educazione e la formazione, la manutenzione delle strutture comuni, le delicate questioni dell’uguaglianza dei diritti e delle opportunità, ma anche delle conoscenze e quanto più è possibile anche delle condizioni materiali. Una democrazia che sia il governo degli individui sul proprio essere in società. Al “cosa dobbiamo fare?” possiamo rispondere con una doppia linea strategica e tattica per perseguire la nostra speranza, una strategia di lungo periodo ed una tattica, in cui i circuiti rientranti dell’esperienza concreta, possano modificare, implementare, arricchire i nostri piani d’azione a priori. Si dovrà fare così i conti con l’ingombrante romanticismo rivoluzionario poiché l’insurrezione è l’arma estrema per uscire dal dominio più coatto ma in sé, essa apre solo condizioni di possibilità, di per sé essa non costruisce quello che dovremmo costruire tutti assieme e nel tempo lungo38. Altresì, continuare sulla resistenza su i diritti e nella costante lotta per la redistribuzione, viepiù oggi urgente dati sia gli intollerabili vertici della diseguaglianza raggiunti, sia il fatto che in un sistema in contrazione come quello occidentale la redistribuzione è necessità per mantenere un minimo di equilibrio sistemico. Ma si rende anche altrettanto necessario un costante impegno per la democrazia delle conoscenze e delle informazioni, lavorare meno e studiare tutti di più, scuola aperte non solo ai giovani, forme di formazione democratica, ripresa del confronto politico dal basso, democrazia nei mezzi di comunicazione. L’impegno per la democrazia deve essere prioritario, costante, riflessivo (cioè essere volto a democratizzare la democrazia sempre di più39, sia quella interna a noi, alle nostre organizzazioni, sia quella esterna). Quindi più reddito o prodotti e servizi sociali per non portare al tracollo la nostra condizione materiale. Potremmo anche scoprire che poiché il capitalismo occidentale non funziona più, la sua riforma sostanziale e progressiva, ci competerà anche se in realtà il nostro desiderio sarebbe quello di accedere ad un integralmente nuovo sistema. Dovremmo cioè farci carico della fatica della transizione e della gestione delle inevitabili contraddizioni per cui mentre marciamo verso il nuovo, dobbiamo riparare il vecchio. Ed aprire i nostri occhietti romantici e dirci che queste elenco non si porta avanti in quattro gatti autoproclamatisi “avanguardia della rivoluzione”. In breve, scopriremo che per andare dove vogliamo andare c’è distanza e si richiede tempo e massa critica, cioè la necessità di un piano articolato che si assuma la complessità del quadro da trasformare senza sfasciare perché se nella società crolla la struttura portante, la reazione di irrigidimento (dittatura dei Pochi di vario tipo) verrà chiamata a gran voce anche da molti di coloro che dovranno invece essere nostri compagni di viaggio. Ogni nostro obiettivo sarà un tendere a… , uno stabilire una progressione di stati avanzati successivi, non un pretendere il tutto e subito. Nessuna trasformazione reale agisce nel tutto e subito. Stabilire e praticare il dove andiamo e come ci andiamo, significherà che abbiamo ricostruito un pensiero che guidi l’azione, una teoria di mondo che spieghi a noi stessi ed a tutti coloro con i quali siamo obbligati a collaborare, un “come spieghiamo il mondo?”. Una teoria che si ponga urgentemente la riflessione sulle forme politiche, sulla costruzione comunitaria nel piccolo come nel grande, sulle nostre capacità di pensare l’intero, i rapporti tra individuo e società, che fuoriesca dall’economicismo ma perseguendo concrete alternative plurali al monoteismo di mercato. Chiarite le tre risposte, chiarito il pensiero, conseguirà l’azione e la presenza “dileguerà” l’assenza.
Il mondo è complesso, così l’uomo, le sue relazioni sociali e le relazioni tra società e Mondo. Lo è sempre di più e l’intera mentalità occidentale è disadattata a conviverci provenendo da un passato di privilegio e semplificazione. Lo sono le nostre stesse strutture sociali, politiche, economiche. La destra40 è in agguato e cavalca ogni contraddizione per richiedere più potere, più decisione, più manicheismo per preparare l’assunzione dei propri leader a condottieri dell’Ultima battaglia d’Occidente. Il Grande Centro dei Molti che delegano ai Pochi l’esser condotti per le perigliose acque, permette la reiterazione sempre più spinta di una redistribuzione inversa per cui tutto può cambiare ma non la posizione di vertice e di potere sugli eventi di un manipolo di plutocrati, per altro mai così incapaci. Una sinistra confusa è una sinistra afasica, depressa, assente. Non aspettiamo un altro Messia che non verrà, sediamoci a coorte e facciamoci le domande fondamentali. Tocca a noi salvare questo pezzo di mondo di cui volenti o nolenti facciamo parte, tocca a noi cacciare i mercanti dal tempio e spiegare a gli altri che “…nella nostra lotta difendiamo un valore diverso da quelli che nulla possiedono di tanto prezioso”41: la dignità umana e la sua vera libertà.
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