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scenari

Il mestiere di pensare e il ruolo pubblico della filosofia

di Andrea Zhok

the salt of the earthRecentemente è uscito in libreria un volumetto di Diego Marconi dall’impegnativo titolo: Il mestiere di pensare. Il testo pone alcune domande cruciali per chiunque abbia a cuore la filosofia come pratica, storia e vocazione. Marconi è un filosofo analitico di valore, ma nonostante l’indubbia qualità della scrittura e della riflessione le sue tesi risultano piuttosto controverse. Di seguito ne forniremo un resoconto critico.

 

1. Diagnosi e ricette

Marconi pone una questione importante, concernente la natura pubblica del filosofare. Egli ritiene che la filosofia accademica sia oggi assai meno comunicativa verso il pubblico colto di quanto fosse in altri periodi storici, anche recenti (p. 6), e che la filosofia sia di fatto “in buona parte sparita dall’orizzonte delle persone colte” (p. 8).

La diagnosi che viene fornita di questo processo è la seguente: secondo l’autore si tratterebbe di un’evoluzione obbligata, dovuta al naturale processo di specializzazione accademica. Il crescere di una letteratura specialistica sarebbe parte costitutiva della rispettabilità dell’odierno lavoro accademico e sarebbe inevitabile il crearsi di una produzione filosofica sempre più numerosa, tecnica e circoscritta.

Marconi afferma che lo specialismo è inevitabile, giacché oggi sarebbe “già difficile (…) produrre ricerca di prima qualità in un’area limitata della filosofia. (p. 13)”. E dopo tutto, questo processo corre in parallelo a quanto accaduto in altri ambiti: “occuparsi ‘di filosofia’ è oggi semplicemente impossibile: sarebbe come occuparsi di fisica o di biologia. Nessuno si occupa di fisica, se non nel senso che si occupa di un’area di ricerca specifica che rientra nella fisica” (p. 15) e questo perché l’ampiezza del materiale da dominare nella fisica tutta è fuori dalla portata di qualunque singolo individuo.

In quest’ottica Marconi ricorda al lettore le virtù dello specialismo, in cui la divisione del lavoro consentirebbe a studiosi normali (non geni) di “fare un lavoro di ricerca onesto e sensato”, limitando “la propria ricerca a un piccolo settore di una disciplina”, dove “la letteratura pertinente è dominabile” (p. 15), e pervenendo così ad un sapere cumulativo che progredisce per piccoli incrementi verso la verità (p. 112-113).

Marconi reputa che a tali condizioni storiche risponderebbe in modo appropriato la ‘filosofia analitica’, e questo perché essa permetterebbe al singolo studioso di operare in modo specialistico, e perciò rispettabile, proprio come le scienze naturali (p. 87). La filosofia analitica sarebbe dunque per così dire la filosofia appropriata alla contemporaneità.

Tuttavia qualcosa nel suo resoconto sembra ancora fare resistenza. Qualcuno infatti potrebbe credere che la filosofia non possa permettersi la specializzazione (p. 28), e la connessa riduzione di impatto pubblico. Questa difficoltà appare particolarmente seria agli occhi dell’autore proprio perché sembra colpire prevalentemente la filosofia analitica. Si può comprendere meglio, in quest’ottica, cosa spinga Marconi a redigere il presente testo: si tratta essenzialmente di legittimare la filosofia analitica a fronte di potenziali critiche relative al ruolo pubblico del filosofare. Egli cerca di mostrare le virtù del suo stile filosofico favorito in contrasto con altre modalità di fare filosofia, che egli nomina rispettivamente come ‘storico-filosofica’, ‘tradizionalista’ e ‘continentale’.

Alla ‘storia della filosofia’ egli rimprovera fondamentalmente di essere storia e non filosofia, e dunque di non trattare e risolvere problemi filosofici, ma di limitarsi ad esaminare il “senso storico-culturale” dei problemi (p. 23).

Alla filosofia ‘tradizionalista’ (termine con cui nomina la dedizione all’esegesi dei ‘grandi autori classici’) egli rimprovera un costitutivo conservatorismo, conservatorismo che invece fu estraneo proprio agli autori cui i ‘tradizionalisti’ si dedicano (p. 81).

È però alla filosofia ‘continentale’ che vengono dedicate le critiche più intense. La filosofia ‘continentale’ non avrebbe tra i suoi parametri né l’esigenza di avanzare tesi sostantive o originali, né l’utilizzo di argomentazioni rigorose, né la chiarezza (p. 72-3). La filosofia ‘continentale’ sarebbe allergica al pensiero scientifico ed i suoi lettori non avrebbero particolare sensibilità per la qualità argomentativa, ma sarebbero attratti “dalle intuizioni folgoranti, dalle formule icastiche, dalle grandi sintesi” (p. 49-50). Proprio questi difetti sarebbero, però, ciò che fornisce una maggiore accessibilità di pubblico ai filosofi continentali.

Quest’ultimo punto ci fa capire perché la critica alla filosofia ‘continentale’ risulti particolarmente pressante: si tratterebbe, per così dire, di porre rimedio a quella che all’autore appare come un’ingiustizia, ovvero al fatto che proprio la filosofia di maggiore qualità (che lui identifica con la filosofia analitica) risulti meno appetibile al grande pubblico, e che questo accada, paradossalmente, proprio per la superiorità dei suoi meriti scientifici.

Esaurito questo breve (e necessariamente selettivo) resoconto delle posizioni espresse da Marconi proviamo ad articolare alcune considerazioni critiche.

 

2. Sulla lotta tribale tra ‘analitici’ e ‘continentali’

Premetto, per quel che conta, che chi scrive è un assiduo lettore di ‘filosofia analitica’, di cui apprezza numerosi autori, e di cui stima, in particolar modo, l’aspirazione alla chiarezza.

Ora, negli ultimi decenni, molti steccati tra tradizioni filosofiche difformi sono caduti o si sono allentati. Si sono creati, e continuano a crearsi, linguaggi ed interazioni nuovi e fecondi. Aree tradizionalmente separate come la fenomenologia, la filosofia analitica della mente e le scienze cognitive hanno fatto proficue prove di dialogo. Autori di tradizione ‘analitica’ hanno accolto come legittimi oggetti di riflessione filosofica elementi una volta considerati intrattabili, come la coscienza vissuta in prima persona, l’immaginazione, la storia, la teoria del valore, la metafisica, persino Dio. Di contro, l’attenzione ai risultati e metodi delle scienze della natura è cresciuta in tradizioni non ‘analitiche’ un tempo ad essi meno sensibili, se non ostili.

Ecco, in questa cornice il testo di Marconi rappresenta uno spiacevole balzo nel passato, con cui si ricreano frontiere tra tribù filosofiche avverse, spesso identificate con stereotipi, fino a rischiarne effetti caricaturali.

Marconi ritiene di dover ritracciare nel modo più netto questi confini, e questo per poter conferire legittimazione unilaterale alla ‘filosofia analitica’ (o, almeno, ad una visione idealizzata di ciò che la filosofia analitica sarebbe). E per portare a compimento questo intento egli fornisce una caratterizzazione del filosofo ‘continentale’ che oscilla tra una vaghezza piuttosto enigmatica e la più schietta diffamazione.

La filosofia ‘continentale’ appare sostanzialmente come una via di mezzo tra cattiva letteratura e negromanzia. Un problema non marginale sorge specialmente quando si tratta di definire cosa propriamente conti come ‘continentale’. In prima battuta, l’autore, senza addurre motivazioni, arruola d’ufficio nelle fila della tradizione analitica (sic) tutta la migliore tradizione filosofica da Platone a Kant (p. 49). Quando poi si tratta di nominare autori caratteristici della tradizione ‘continentale’ troviamo menzionati Lyotard, Deleuze, Lacan, Foucault, Derrida, Habermas e (forse) Horkheimer e Adorno. Questa selezione è quantomeno curiosa. Si potrebbe notare che i due autori plausibilmente più influenti del XX secolo, Edmund Husserl e Ludwig Wittgenstein, non compaiono in nessuna delle ‘tribù’ qui in conflitto. A ben vedere, l’intero pensiero fenomenologico, inclusi Scheler, Heidegger, Merleau-Ponty, Sartre, ecc. non compare affatto, se non in un isolato passaggio, dove se ne lamenta la collocazione “controversa” (p. 70). Particolarmente curioso il caso di Wittgenstein, che appartiene al Pantheon dei fondatori della tradizione analitica, ma di cui Marconi confessa, senza sentire il bisogno di dilungarsi in una spiegazione, che i suoi scritti dopo il Tractatus “non soddisferebbero l’attuale standard analitico” (74). Rimane il dubbio se Wittgenstein dunque sia in ultima istanza un rinnegato, passato nelle abiette fila dei ‘continentali’, un ‘compagno che sbaglia’ o cos’altro.

Ora, francamente, dire che questa classificazione sia altamente idiosincratica è un eufemismo. Le omissioni in questo quadro sono colossali ed inspiegate. Che ce ne facciamo di Peirce, William James, Dewey, Schopenhauer, Bergson, Marx, Marcuse, Cassirer, Hannah Arendt, e via discorrendo? E perché mai dovremmo mettere Platone o Kant nella tribù degli ‘analitici’ ante litteram, a loro insaputa? Tutto ciò sembra semplicemente incomprensibile.

O meglio, c’è un’unica logica che sembra davvero all’opera: i nomi fatti, quanto quelli taciuti, sembrano essere funzionali a creare artificialmente gruppi con stili abbastanza riconoscibili da permettere di proseguire nel gioco delle bande contrapposte. Da una parte la tribù degli scadenti letterati, ignari di scienze e privi di rigore (‘continentali’), e dall’altra i filosofi veri, seri e sobri, che purtroppo pagano la loro acribia con l’impopolarità (‘analitici’).

Invero, ma questa naturalmente non è responsabilità di Marconi, l’utilizzo stesso del termine ‘continentale’ è un’insopportabile falsificazione, storicamente nata come espressione sprezzante, e al limite del razzismo, e priva di ogni unità concettuale. Fa specie che un uso terminologico così sciatto si sia imposto proprio tra i fondatori della ‘filosofia analitica’.

Naturalmente ciascuno è padrone di considerare alcuni stili filosofici di alcuni autori come più o meno efficaci, più o meno intellegibili, più o meno ben argomentati. Ma il fatto, per dire, che il sottoscritto preferisca Donald Davidson a Jacques Derrida, ed Edmund Husserl a Davidson, è uno specifico giudizio su personalità filosofiche, un giudizio che a richiesta potrei motivare, ma che non andrebbe certo ridotto all’iscrizione a ‘scuole’ o ‘forme filosofiche’ di comodo.

 

3. Analiticità e senso della filosofia

La filosofia, sin dalla sua nascita greca, ha sempre avuto un’essenziale componente di analisi. La filosofia è dunque, sin dall’origine, analitica, nel senso specifico che ricorre sistematicamente all’analisi razionale delle parti di un pensiero complesso. Non c’è buon filosofo che non abbia esercitato analisi in questo senso. L’analisi implica osservazioni, descrizioni e ridescrizioni, inferenze e verifiche di coerenza, implica un’attenzione ai concetti, al buon uso delle parole, alle loro connotazioni involontarie, alle esperienze che esse richiamano, ecc. In questo senso hanno esercitato analisi filosofica Platone quanto Foucault, Heidegger quanto Quine.

Ciò è del tutto naturale se si riflette sul senso che sin dall’origine ha avuto la pratica filosofica. Ciò che abbiamo imparato a chiamare ‘filosofia’ nasce come il tentativo di soddisfare in modo razionale una funzione che la precede, e che è coessenziale all’esistenza umana: la ricerca di un orientamento dell’uomo nel suo mondo. La filosofia opera sin dall’origine una trasformazione delle forme iniziali (mitologiche, narrative e religiose) in cui tale funzione di orientamento dell’uomo nel cosmo veniva espletata. Rispetto a quelle forme la filosofia esige libertà critica, cerca la coerenza tra gli argomenti, la consistenza tra analisi delle parti e del tutto, la perspicuità delle osservazioni, ecc. In questo senso l’intento analitico è non solo connaturato al filosofare, ma caratterizzante.

E tuttavia questo intento è dotato di senso solo su quello sfondo sintetico. Ciò significa che il filosofare non solo prende le mosse criticando visioni sintetiche (ad esempio le visioni del mondo del senso comune, della religione, della sapienza tradizionale, ecc.), ma anche che in ultima istanza essa aspira a ritornare, ad analisi razionale effettuata, a quel livello di sintesi.

La componente analitica della filosofia è dunque sempre esistita, ma come sussidiaria ad una visione sintetica, visione per lo più (da Aristotele in poi) dispiegatasi nella forma del trattato. Singole analisi di dettaglio si sono sempre svolte. Esse spesso appartenevano ad elaborazioni preparatorie private, che non vedevano la luce come tali. Quando avevano formato pubblico le analisi particolari avevano di norma la forma del commento, che per propria natura aderisce già sempre implicitamente ad una visione sintetica; ed era tale visione a conferire senso all’analisi particolare. Senza dimensione sintetica, implicita o esplicita, semplicemente non c’è filosofia.

È in quest’ottica che si può comprendere meglio il ruolo degli storici della filosofia (se non sono meri filologi) e degli esegeti dei classici: si tratta precisamente di analisi sussidiarie, che accettano (magari pro-tempore) l’adesione allo sfondo sintetico rappresentato da un autore o una scuola. L’unità di pensiero rappresentata dalla riflessione complessiva di Aristotele o Platone, Cartesio o Spinoza, fornisce lo sfondo sintetico su cui analisi particolari acquisiscono senso. Che questa non sia l’unica forma degna di riflessione filosofica è certo, ma diversamente da quanto crede Marconi è non meno certo che si tratti di una forma degna di fare filosofia (non storia, non culto della personalità).

Quando poi, come fa Marconi, si irride al filosofo che aspirerebbe “a ‘dar fondo all’universo’” (25) o all’ottocentesca “moltiplicazione di sistemi del mondo” (18) si fa qualcosa di peggio che un danno alla tradizione filosofica: si dimostra una profonda incomprensione di cosa motivi e giustifichi l’esistenza della filosofia, dalle sue origini ad oggi.

Quanto più oscuro, inesplicito o rimosso è lo sfondo sintetico presupposto, tanto minore diviene il senso e l’intelligibilità di isolate analisi particolari. Un’attività filosofica analitica, condotta nel pieno delle proprie facoltà ed ambizioni, dovrebbe sempre esplicitare e giustificare il quadro sintetico di cui sta operando rielaborazioni locali. A volte tale sfondo è sufficientemente chiaro da consentire comunque l’orientamento del lettore. Altre volte ciò non accade, e qui il rischio del particolarismo irrilevante (simile a certi esiti della Scolastica medievale) è estremamente elevato. Quanto ciò sia un rischio presente presso ciò che oggi si riconosce come ‘filosofia analitica’ lascio ad altri giudicare; ma suggerirei di non sottovalutare la questione.

 

4. Specialismo e parcellizzazione

Veniamo infine all’esame che Marconi fa dell’evoluzione novecentesca della pratica filosofica. Egli legge la ‘filosofia analitica’ (ciò che lui intende come tale) come la forma di pensiero adeguata al processo storico de facto della crescita della specializzazione. Ora, però, quand’anche questa diagnosi fosse corretta (e non credo lo sia), sarebbe comunque una semplice descrizione fattuale, da cui non è affatto ovvio che debba emergere un giudizio di valore, normativo (“no ought from is”). In sostanza: che l’evoluzione storica alimenti istanze di riconoscibilità accademica, legittimazione e mimetismo verso le scienze naturali non implica che la risposta giusta sia l’atomizzazione della ricerca filosofica in cortiletti senza porte e senza finestre. La metafora che Marconi propone di un filosofo che non costruisce più “cattedrali né progetta città ideali, ma fabbrica armadi e poltrone, scarpe e gioielli, al pari dei tanti altri membri della vasta comunità a cui appartiene” (25) è una visione che può anche fare simpatia, conferendo un aspetto di sobria e artigianale modestia al filosofare, ma che a chi conosce la storia, e vive le motivazioni, della filosofia non può che mettere malinconia.

Il punto essenziale qui è che specializzazione e parcellizzazione non sono affatto sinonimi. La specializzazione, che è giustamente connessa alla professionalizzazione, esige soltanto lo sviluppo di competenze intensive, ma non dice nulla circa forma ed estensione del campo di applicazione di queste competenze. Di fatto il filosofo è sempre stato uno specialista della generalità, estesamente informato in una pluralità di campi diversi e capace, in misura variabile, di fornirne una sintesi. E la tensione (implicita o esplicita) verso la sintesi non è un vezzo idiosincratico del filosofo, ma è ciò che ciascun umano cosciente tenta, in varia misura, di fare, ricercando un orientamento tra passato e futuro, fatti e valori, necessità e speranze. La capacità di effettuare grandi sintesi razionali è una capacità rara, non meno di quanto lo sia quella di formulare teorie innovative nelle scienze della natura. Ma nella quotidianità degli specialisti del filosofico non è la creazione costante di nuove sintesi ad essere richiesta. Ad essere richiesta è solo (ma tassativamente) la capacità di riallacciarsi efficacemente a sintesi esistenti. È in questa cornice che si esprime il lavoro ordinario di disseminazione culturale di chi esercita il ‘mestiere di pensare’.

Giudicare che la divisione del lavoro in lotti sempre più circoscritti sia l’unico modo possibile di procedere della conoscenza è semplicemente una (cattiva) riflessione filosofica sulla natura della conoscenza. Ritenere che l’unica forma rispettabile del sapere sia quella che scava buche sempre più profonde, e non quella che mappa un territorio nella sua estensione articolata, questo è semplicemente un pregiudizio di valore, un’ideologia prefilosofica.

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In conclusione, ritorniamo al punto di partenza dalle considerazioni di Marconi. Che oggi la filosofia abbia davvero un impatto meno esteso sul pubblico colto di quanto accadesse un tempo è asserzione discutibile. Ciò che mi pare certo, invece, è che il bisogno di filosofia cresce in parallelo con la dinamicità sociale. Esso cresce, cioè, con il crescere di fattori disorientanti come rapidi mutamenti nei saperi, nei costumi, nelle forme di produzione. E pochi periodi della storia hanno visto una tale fioritura di fattori cognitivamente e assiologicamente destabilizzanti quanto quella presente. In questo senso, sembra paradossale che proprio oggi la filosofia viva spinte interne all’abbandono di quella che è stata, e rimane, la sua funzione qualificante. La prospettiva che Marconi propone è quella di una ‘normalizzazione accademica’ adeguata allo spirito dei tempi. Ma questo adeguamento allo spirito dei tempi è in effetti una pura e semplice abdicazione ad ogni tentativo di governare razionalmente le visioni del mondo che necessariamente abitiamo. L’esito di questa visione, apparentemente sobria e modesta, consisterebbe nel lasciare volontariamente campo libero a quella pletora di sofisti mediatici, politicanti da bar sport, fondamentalisti religiosi, e profeti armati che permeano lo spazio pubblico. Una ritirata mesta, quanto irresponsabile.

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