Se il capitale è l’avanguardia di se stesso
di Marco Dotti
Talvolta sottovalutato, talaltra sopravvalutato, al contributo di Walter Lippmann si deve, tra le tante cose, la nozione di pseudo-ambiente. Lo pseudo-environment è un concetto chiave, non solo per comprendere il “chi” e il “che cosa” di quell’opinione pubblica a cui l’autore americano dedicò nel 1922 un libro capitale per la formazione del pensiero e la strutturazione delle pratiche neoliberali.
Mitocrazia ambientale
La nozione di pseudo-ambiente appare, infatti, fondamentale soprattutto per comprendere il “come”, ossia con quali forze e attraverso quali coordinate, tra complessità vitali e semplificazioni cognitive, un’opinione si costituisca in forma pubblicamente rilevante e determinante, ma proprio in tal modo venga depotenziata e recuperata nel sistema.
È però vero che Lippmann faceva ancora in parte dipendere lo pseudo-ambiente informazionale da una selezione e, in definitiva, da una barriera. Oggi, al contrario, anziché a una barriera bisognerebbe pensare a un filtro o a una membrana porosa: un punto, come scriveva Yves Citton nel suo <>Mythocratie (2010), dove pratiche della narrazione e dispositivi di potere si incontrano, dando luogo a quella pratica di “scenarizzazione” che ha radicalmente esteso lo pseudo-ambiente informazionale.
Per questa ragione, riprendendo l’immagine di Lippmann, a proposito dello “stato del mondo”, il poeta Andrea Zanzotto paragonava lo pseudo-ambiente a una serra. Una serra in cui non si coltivano “opinioni”, ma uomini e, di conseguenza, le loro soggettività, le loro relazioni, le loro “libere condotte”. A guardar bene, il poeta di Pieve di Soligo non faceva che rimarcare come i dispositivi di potere siano in realtà dispositivi di biopotere, capaci di incidere dentro e fuori, ma con modalità spesso poco percepibili – come “l’aria viziata di una serra” che inizialmente può dar fastidio, ma dopo pochi minuti non ci accorgiamo più di respirare – perché, appunto, costitutive dello scenario in cui ci muoviamo.
Manifatture del consenso
Nel corso del XX secolo abbiamo assistito a una manufacture of consent capace di operare sull’hardware della nostra società: è il caso della propaganda, studiata per primo dal nipote di Freud, Edward Bernays, proprio negli anni in cui Lippmann forgiava i suoi concetti. Ma – ed è il caso indagato dallo stesso Lippmann – abbiamo assistito anche al nascere di una fabbrica del consenso che incide sul software grazie a un immenso potere di produrre scenari dentro i quali – come dentro le serre di cui parlava il poeta veneto – si agitano i soggetti. Il declino ipermoderno del discorso pubblico, per dirla con Neil Postman, si è prodotto più nell “aria” viziata di questa libertà che nella manufacture of consent di vecchio tipo.
Questa è una delle ragioni per cui la sua presa è tanto diffusa e molecolare, e la spinge ad incidere più sull’ordine e sul disordine del discorso che sulle manipolazioni ideologiche dirette. È ancora in questi pseudo-ambienti (pensiamo alla nozione di “filter bubbles” usata da Eli Parisier a proposito dell’algoritmo PageRank di Google) che si determinano le forme di vita che li abitano. Ed è ancora e proprio qui che si instaura quel governo dei viventi che, come ben comprese Michel Foucault, è tanto necessario al sistema del capitale quanto la stessa valorizzazione del capitale. Anzi, come si spingeva a scrivere il Foucault de La volonté de savoir – richiamato da Alessandro Simoncini in apertura di questo suo importante e denso lavoro sulle avanguardie del capitale e sulla loro (inevitabile?) scenarizzazione –, gestire l’accumulazione degli uomini e, di conseguenza, la produzione di soggettività individuale e collettiva è la posta in gioco fondamentale del capitalismo.
Se la spirale del capitalismo, inteso come rapporto sociale complesso, si realizza in una colossale poiché efficace messa a valore ogni cosa – la vita, la morte, gli scarti – , nemmeno l’antagonismo e la diserzione linguistica delle avanguardie vi sfuggono. Marx aveva compreso questa doppia capacità di rapina – tanto immateriale, quanto materiale – del capitalismo.
L’accelerazione, la spettacolarizzazione e la biomolecolarizzazione dei processi, ci ricorda Simoncini, hanno conferito intensità inaudita a quello che, nei regimi autoritari o statocentrici del XX secolo, era ancora visibile nella forma di un capitale concentrato.
È sulle maglie temporaneamente rotte, e quasi subito richiuse, di questa continuità che dobbiamo concentrarci. In particolare, la sua attenzione va al recupero operato dal capitale della dimensione linguistica, cognitiva e comunicativa delle avanguardie che, tra surrealismo e dada, fino al situazionismo hanno configurato alcune delle linee critiche più avanzate al capitale stesso.
Fondamentale per questo processo – e Simoncini ha il merito di farcelo cogliere in forme inedite, non solo di ricordarcelo – è la costruzione di livelli di attenzione e di disattenzione modellati su stati affettivi dominati dalla paura e su “porzioni di cervello umano disponibile” (l’espressione è di Patrick Le Lay).
Chi lacrima e chi sanguina
In futuro, dichiarava agli inizi del nostro secolo il regista Alberto Grifi, sugli schermi e probabilmente nella vita non ci sarà posto che per chi lacrima e chi sanguina. Declinata nel “mondo 2.0” la riflessione di Grifi prende corpo negli scenari che vedono l’internet di domani composta da pornografia e azzardo gratuiti per tutti e notizie sbagliate a pagamento. Attenzione, se stiamo a questa logica è tutt’uno con addiction: dipendenza.
Ciò a cui abbiamo assistito e ancora assistiamo è la costruzione di un’immensa cassa di risonanza empatica, come – scrive Simoncini – “in un ben riuscito détournement del pensiero di Spinoza”. Gli operatori attivi di questo ribaltamento “hanno perfettamente compreso che ciò a cui si presta attenzione dipende sempre da stati di eccitazione affettiva – paure, desideri, gelosie, speranze, etc. -, i quali non sono altro che emozioni sorte per effetto dell’azione di impressioni esterne, capaci di condizionare i sentimenti interiori e proprio per ciò di orientare la condotta futura”.
Al dispositivo panottico dove l’uno o i pochi guardano i molti si sarebbe sovrapposto il dispositivo sinottico, dove i molti guardano l’uno (modello reality) o i pochi (modello gossip) in modalità empatica e pornografica. D’altronde, non era stato proprio Foucault a scrivere che la cronaca rosa avrebbe avuto un impatto dirompente sul sabotaggio, trasformando la rabbia in rancore e il rancore in devozione, disinnescando così ogni latente pulsione regicida? “Non sappiamo più contrastare il corpo del re”, ebbe a scrivere Foucault, da quando abbiamo iniziato a amarne e condividerne le storie. La caricatura – ma pensiamo a Grosz, che Simoncini affronta nella seconda parte del libro – è stata per lungo tempo il contraltare positivamente critico al neo-cinismo della cronaca rosa e della cronaca tout court (i cosiddetti faits divers), di cui i totalitarismi e gli autoritarismi si sono sempre serviti: ognuno ha la sua Liala e i suoi Pitigrilli, per intenderci.
Nell’ipermodernità – categoria che Simoncini problematizzata a dovere – la compresenza di storytelling, frames narrativi e macchine del consenso hanno costituito un inedito, incredibile dispositivo di cattura che è riuscito a includere tutte o quasi quelle pratiche di sottrazione e sovversione dell’immaginario del potere che da dada in poi avevano problematizzato, e non solo subito, la perdita d’aura. All’opera del disincanto si è dunque sovrapposta una catastrofica attività di reicanto del mondo. Ma con quali strumenti? Qui il discorso di Simoncini coglie nel vivo il dramma e la catastrofe non solo dell’immaginario, ma anche delle pratiche d’avanguardia. Con che cosa agiscono oggi gli operatori e le macchine da guerra del capitale – le corporations – se non con gli strumenti forgiati da correnti, logiche, semiotiche e pratiche antagoniste? Non solo i dipartimenti del marketing e della vendita, ma ogni segmento, dalla ricerca alla progettazione, concorre a questa pratica di reincanto. Qualcosa la approssima a un colonialismo di tipo inedito, che – pur nella permanenza di immense sacche di lavoro taylorizzato – ha di mira frammenti di cervello resi disponibili al consumo e quindi al capitale.
Criteri dell’attenzione
Non a caso il direttore di TF1, Patrick Le Lay, giustamente richiamato da Simoncini, affermava: “perché un messaggio pubblicitario sia percepito bisogna che il cervello del telespettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni hanno per vocazione di renderlo disponibile: cioè di divertirlo, di distenderlo per prepararlo tra due messaggi. Ciò che noi vendiamo a Coca Cola è del tempo di cervello umano disponibile […] Niente è più difficile che ottenere questa disponibilità. È là che si trova il cambiamento permanente. Bisogna cercare in permanenza i programmi che funzionano, seguire i modi, surfare sulle tendenze, in un contesto nel quale l’informazione si accelera, si moltiplica e si banalizza”.
Simoncini insiste molto sui passaggi che contraddistinguono questa economia dell’attenzione. Lo fa perché è precisamente qui che il discorso delle avanguardie si è inceppato. Ma senza un compiuto sguardo critico – quello sguardo di cui Simoncini dà ottima prova nel suo lavoro, davvero decisivo su alcune questioni cruciali, pensiamo ad esempio alla riflessione su Duchamp – non è possibile avanzare di un passo.
Il capitale è già, ormai, avanguardia di se stesso e si troverà sempre un passo avanti a noi. Dinanzi a questi problemi, il premio Nobel per la letteratura Thomas Transtömer scriveva così: “quando la lingua avanza al passo dei carnefici, occorre inventare un’altra lingua”. Il che equivale, in termini deleuziani, a forgiare altri concetti, altri strumenti, altri arnesi di lotta e persino altri ambienti dove mettere all’opera – e non solo in scena – se non la libertà presente quanto meno la diserzione futura.
[questo articolo è apparso, in forma ridotta, sul numero 6/2014 di Critica Marxista]
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