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filosofiaitaliana 

Italian Theory – una riflessione critica1

di Augusto Illuminati

Utilità e pericoli della “rivoluzione passiva”. Pericolo di disfattismo storico, perché l’impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo, ecc.: ma ala concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigentemente. Dunque non teoria della “rivoluzione passiva” come programma […] ma come criterio di interpretazione in assenza di altri elementi attivi in modo dominante (A. Gramsci, Q 14 (1932-1935)2.

09clt f01Ogni traduzione riuscita sedimenta una parte nella lingua. La Germania non ci ha regalato la rivoluzione fra Settecento e Ottocento, ma almeno Aufklärung e Idealismus sì. Per contro, trapela subito un filo di fretta e di approssimazione nell’essere invalso un termine che unisce i vantaggi della voga internazionale a una povera presa sull’originaria realtà generativa. Diciamola tutta: che arriva quando la suddetta realtà si sta facendo sterile di fatti e idee, così da accentuare l’altrimenti perdonabile provincialismo della denominazione, sorta in ambito accademico anglosassone e un po’ troppo baldanzosamente importata. Benintenzionato ma isolato appare il distinguo terminologico di R. Esposito, che preferisce scandire la deterritorializzazione del pensiero europeo in tre fasi: German Philosophy (scuola di Francoforte emigrata in Usa e poi rientrata), French Theory (riadattata e arricchita dal passaggio nei dipartimenti statunitensi di Cultural Studies) e Italian Thought (pensiero della prassi e pratica di pensiero). La configurazione Thought si è rivelata desueta rispetto all’immediato mimetismo competitivo con i transalpini, ma non è questo il problema. Non si può non registrare il dettaglio singolare che tutti e tre i termini siano espressi in inglese, ovvero in un lessico che, non radicato in nessuno dei tre filoni, è proprio piuttosto della teoria analitica (egemone nell’accademia) o, più semplicemente, agisce da lingua veicolare universale e omologante. Nessun problema, se si diffida del nazionalismo filosofico, tuttavia anche il cosmopolitismo subalterno e immotivato non è una risposta adeguata. Software mi va bene (manco più lo corsivo) e pure pole dance, ma theory per sedimentazione locale del theoreîn mi pare inappropriato. Inoltre vi è ben poco di Italian, ma questo è un altro discorso.

Volgiamoci però dalle spie linguistiche al contenuto, chiedendoci se esista una categoria storiografica plausibile che corrisponda a quell’etichetta e quale sia la sua estensione verticale nel tempo e orizzontale nella contemporaneità3. La prima impressione è che nel cubico container stiano stipate troppe merci eterogenee – dagli angeli necessari all’immunizzazione, dall’ermeneutica teologica alla rivoluzione, dalla lotta di classe alla contemplazione del tramonto, dal potere costituente all’inoperosità. Il trasporto oltre Atlantico e ritorno è facilitato, ma al momento dello spacchettamento si fa confusione. Questo per la gamma delle domande e delle soluzioni affastellate nell’accezione corrente del termine (lo stesso argomento vale per la French Theory).

Quanto alla profondità temporale, se ci rifacciamo alla definizione germinale e più strutturata, quale esposta nel Pensiero vivente di R. Esposito4, l’elemento di coesione di quei filoni disparati consisterebbe nell’essere la differenza italiana una relazione di lunga durata con la vita e con l’insopprimibilità del conflitto, partendo da Machiavelli e Bruno, passando per Vico e Leopardi, abbracciando Gramsci e infine spalmandosi sulle molteplici articolazioni del dibattito fra togliattismo e dellavolpismo, operaismo, post-operaismo e autonomia del politico. Fuori, chiaramente, dai paradigmi canonici della modernizzazione nel segno della sovranità.

L’ampiezza temporale fa problema. In nessuno degli altri casi abbiamo un filone che metta insieme, se non per remota contrapposizione, Cartesio e Foucault, oppure Fichte e Adorno. Il motivo è presto detto. Si tratterebbe di un dispositivo scontato di storia della filosofia: la linearità evolutiva interna di un sistema di idee non intersecato e interrotto dalle fratture della storia. Nel nostro caso, è suggestivo pensare che vi sia un rapporto fra Machiavelli e Gramsci o fra Vico e Croce, ma sempre appunto un rapporto sezionale, che taglia la storia della filosofia e unisce due percorsi a esclusione o almeno a distanza da altri, insomma che vi siano autori “citabili” con un processo di attualizzazione e reinterpretazione, ma circoscritto e tendenzioso. Si può saltare da Platone e Badiou, ma non leggere un’intera evoluzione nazionale come continuità in sé omogenea e autopropulsiva. Scartiamo pure questo sospetto e vediamo se funziona meglio la solidarietà di contenuto, magari tenendo conto della particolarità della storia italiana, il cui ritardo nel costituirsi come Stato è netto rispetto a Inghilterra e Francia, ma non così rispetto alla Germania. Essa si risolverebbe, infatti, nell’aver fatto leva su quel ritardo per suggerire delle alternative al mainstream sovranista vincente: la repubblica tumultuaria, l’immanentismo, l’egemonia costituente.

Discorso in parte persuasivo, ma che allora implica la necessità di qualche precisazione, di un’individuazione esatta delle faglie, della determinazione delle forze in campo. Per Machiavelli – un Machiavelli “citato”, preso nella sua “solitudine” e non nella persistenza di una storia o di una storia della filosofia italiana – fu la repubblica dell’universale (che pure aveva restrizioni assai) contro l’oligarchia di banchieri e mercanti e la sua successiva capitolazione al principato mediceo. Per l’Italia moderna la frattura, con anticipi e code, si spalancò nel ciclo di lotte strutturali e sovrastrutturali che va dal 1962 al 1977 ovvero, in termini teorici sommari, nell’operaismo e nella complementare ricezione di altri momenti dell’ideologia rivoluzionaria contemporanea (Marcuse, Krahl, Foucault, Althusser, Deleuze) e di riscoperte (il Marx dei Grundrisse, Benjamin). Una potente prassi di soggettivazione che – al di là dell’agonizzante ideologia lavorista e partitica e dell’incipiente rilancio dell’individualismo liberale – trovava un referente nei movimenti e un limite nella loro sconfitta. Da questo punto di vista furono precoci tanto la rottura teorica di M. Tronti nel 1966 quanto la sua rapida involuzione successiva con il rientro nel Pci, a dimostrazione della volubilità delle idee nella loro articolazione con la prassi – fragilità meravigliosa nella coincidenza, miserabile nel declino. Fra Machiavelli e i «Quaderni rossi» (come fra Thomas Müntzer e Vladimir Il'ič) non intercorre continuità né di pensiero né di prassi, ma citabilità, amicizia stellare nella distanza. Il potere costituente è una traccia che permane nell’azzeramento della memoria del passato immediato: altrimenti è concordia umanistica, la quiete dello storicismo. L’operoso lavorìo della trasformazione incessante delle cose.

R. Esposito elenca giustamente, dentro quell’implausibile costanza del pensiero italiano, l’intreccio con la prassi e la contaminazione con altre tradizioni, un’attitudine all’ibridazione connessa al suo rapporto con la realtà esterna, e vi aggiunge la categoria di vita come orizzonte semantico. Machiavelli, Leonardo e Bruno, of course. Dunque: non filosofia della coscienza (Francia), non metafisica o vitalismo (Germania), non analitica anglosassone del linguaggio, ma «un sapere della vita, del corpo e del mondo». Non il negativo della German Philosophy, né il neutro della decostruttiva French Theory, bensì l’affermazione, il comportarsi in modo attivo e non reattivo, biopolitico, a rovescio di ogni teologia politica. Programma eccellente, però inadeguato a dar conto dell’unitarietà di un indirizzo complessivo che invece comprende ingombranti elementi di teologia catecontica (Cacciari) o di biopotere (il Tronti dell’autonomia del politico) o di svuotamento della storia (Agamben). Macchina e kénosis. Se vogliamo tenerli tutti insieme (e in una storia della filosofia italiana contemporanea è un criterio obbligato), allora dobbiamo lasciar cadere l’affermatività biopolitica e specificare meglio cosa si intende per vita. La dimensione orizzontale, sincronica, ci presenta insomma le stesse difficoltà di quella verticale, diacronica. Privilegiando le somiglianze generiche sulle differenze specifiche si smorzano e pacificano proprio gli elementi di attrito e novità. In realtà, i singoli autori sussunti nel canone e gli stessi curatori dell’operazione, presi uno per uno, hanno molte cose da dire e, a volte, sono stati attori importanti sulla scena politico-culturale. Non convince e li sminuisce proprio lo stiparli in un canone. La cui “italianità” è del resto dubbia, proprio per il loro fecondo collocarsi in tensione con altri autori “stranieri”: ciò che li rende inassimilabili a denominazioni di origine controllata.

I casi più evidenti di dissenso interpretativo sono quelli di M. Tronti, dopo il rientro nel Pci e la teorizzazione dell’autonomia del politico, e della nuda vita di G. Agamben, su cui nel citato libro si sono trattenuti rispettivamente A. Negri e J. Revel, sottolineando il primo che detta autonomia è un riflesso dell’effettività della ragion di Stato (l’opposto speculare della verità effettuale e della ragione repubblicana di Machiavelli quanto del marxismo in ogni variante rivoluzionaria), la seconda che la biopolitica si esaurisce in un vuoto di potere e che, anzi, la “vita” (o l’immanenza) svolge il ruolo di coprire la doppia espulsione della storicità e dell’antagonismo, riducendosi a posta in gioco della governamentalità sull’esistenza biologica messa al lavoro. Entrambi concludono che l’Italian Theory, se presa in continuità tematica, è uno schema storiografico “debole”, che neutralizza le determinazioni temporali e locali del corso storico, per di più disattendendo la soggettivazione a favore di un individualismo della volontà e dell’interesse conforme alle pratiche neo-liberali. La stessa tonalità affermativa, svincolata dalla produzione e segnata dalla riduzione della soggettivazione alla mancanza costitutiva che iscrive il negativo-privativo nella positività, rischia di spegnersi nell’esaltazione dell’impersonale, della terza persona, nell’equiparazione dell’essere-soggetto con l’essere attraversati da rapporti di potere. Nuda vita (zoé) e immunitas, ancor più la paura aleggiante sul kathechon, riconducono all’individuo reattivo, non alla singolarità nutrita dal comune.

S. Chignola, che distingue piuttosto nettamente dalla presente raccolta un più precoce tentativo di definizione di un pensiero radicale in Italia (più che “italiano”), cui lo scrivente ebbe la ventura di partecipare, Radical Thought in Italy, A Potential Politics, a cura di P. Virno e M. Hardt5, riscontra infatti in esso soprattutto una determinata attitudine sperimentale al lavoro intellettuale, come pratica politica e militanza rivoluzionaria legata a una fase specifica (non a una lunga “tradizione”) e solo tardivamente e irregolarmente sedimentata in dipartimenti di filosofia o altra denominazione di fantasia. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo – sconnesso dalla “piccola durata” che vorrebbe incollare, dal 1966 al 2015, il Tronti di Operai e capitale e quello dell’autonomia del politico, della deriva ratzingeriana e del voto favorevole al JobsAct – è letto allora in primo luogo come capacità di moltiplicare, al di là dell’operaio-massa, le figure del lavoro vivo e la loro resistenza ai dispositivi di estrazione del plusvalore, della soggettivazione come composizione di molteplicità, agencement, macchina da guerra nel lessico di Deleuze e Guattari. La moltitudine, che ne è segno e parola d’ordine, non è identità ma stipulazione, da costruire di volta in volta e ricavata da un processo costituente e dall’ibridazione. Qui, come nel testo di S. Mezzadra, che dissolve gli asfittici confini italiani e al contempo recupera le categorie gramsciane di “subalterno” e “traduzione”, è palese l’impatto con gli studi post-coloniali, assenti in altri rami della presunta Italian Theory, trans-secolare o novecentesca che sia, e con la corrente internazionale femminista.

In questo complesso di critiche e di riserve, a fianco di un’opposizione di principio alla “lunga durata”, emerge un dissenso più specifico sull’assunzione, come collante fra operaismo e post-operaismo (ma tale da riverberarsi sull’intero complesso dell’Italian Theory) dell’intero percorso trontiano – ciò che neutralizza e rende equivoci i vari contributi e lo stesso riferimento all’operaismo. Tronti è stata una figura per molti aspetti decisiva per l’operaismo fra il 1963 e il 1967, iniziando la polarizzazione dei «Quaderni rossi» di R. Panzieri, ma non esaurisce certo quella stagione. Se invece lo si assume a canone, non solo si offre una ricostruzione storica scorretta dell’operaismo, ma – cosa politicamente più grave – si legittima per post-operaismo qualsiasi variazione sul tema. Di conseguenza, la presunta tradizione italiana coincidente con quel percorso saliente (operaismo + post-operaismo, entrambi a dominanza trontiana) oscilla fra un nuovo e malefico “primato morale e civile degli italiani” e la sublimazione metafisica di un processo politico mancato – avvenga ciò come katechon apocalittico o messianica inoperosità. Un unico ciclo omologa una serie di linee divergenti corrispondenti a tappe diverse della battaglia politica, in cui qualcuno ha vinto e qualcuno ha perso e tutti hanno finito per scrivere libri, chi in carcere, chi a casa, chi in cattedra.

Il rischio di un surrogato in ritardo rispetto a esiti rivoluzionari (una teoria ben ordinata dopo una sconfitta politica) è quello di svolgere una funzione non solo consolatoria ma anche attivamente integrativa. Per dirla nei termini di una costante (questa sì!) della storia italiana, l’Italian Theory potrebbe configurarsi quale rivoluzione passiva corrispondente a una gestione neo-liberale di sinistra, ben oltre il semplice packaging per l’esportazione estera di materiali disomogenei locali, come fu il “pensiero debole” su cui ormai è sceso un misericordioso oblìo. Verrebbe quasi la tentazione di parlare di renzismo intellettuale, nel senso di un collateralismo colto a un’operazione di per sé tutta politichese e neppure del tutto condivisa. Dentro un orizzonte sigillato il contro legittima la riuscita locale o, peggio, la sua inane attesa. La rivoluzione passiva diventa, da constatazione in assenza di “un’antitesi vigorosa”, un programma di convivenza con la flessibilità neo-liberale. Con annessa razionalizzazione della funzione connettiva e di ricambio degli intellettuali. Operazione già sperimentata negli anni Ottanta con il parziale accesso del Pci al potere e la sfacciata traduzione degli Apparati Ideologici di Stato di L. Althusser in una teoria dell’autonomia del politico e degli “specialismi”. Allora AIS ed egemonia furono bonsaizzati in occupazione di settori strategici della scuola, università e magistratura. Oggi, però, i margini di gestione si sono alquanto ridotti e anzi l’anti-intellettualismo la fa da padrone sul mercato, rendendo superflua una legittimazione ideologica. La stessa dialettica fra partito strategico e governamentalità tecnica è annientata dalla scomparsa del primo termine.

Torniamo ora sull’esposizione positiva che ne fa D. Gentili, uno dei curatori dei convegni e dell’antologia prima citati. Tracciando una genealogia di lungo periodo che culmina nella biopolitica, egli individuava il tratto radicale del pensiero italiano nella coincidenza (linguisticamente inedita) fra sinistra e sinisteritas, la “parte maledetta”, l’“errore”, la “deviazione”, rispetto alla parte destra, rappresentante invece la rettitudine, la giustezza, la norma. La sinisteritas riconosce il primato del conflitto, implica ab origine la necessità di pensare un agente antagonista, ben prima della collocazione casuale della “sinistra” sugli scranni parlamentari. Dopo il crollo del campo socialista e il trionfo della globalizzazione, dopo l’Ottantanove, l’Italian Theory cerca di pensare la possibilità di essere contro senza più un fuori e un altrove, ovvero senza un’alternativa esterna al modello capitalistico-liberale.

Come essere dentro e, al contempo, contro? Insomma, come pensare il conflitto dentro la globalizzazione, da cui sarebbe ormai velleitario auspicare una fuoriuscita? Sulla scorta di una tradizione di pensiero che risale appunto fino a Machiavelli, la filosofia italiana ha potuto offrire al dibattito internazionale una riflessione sulla politica alternativa a quella che aveva salutato e accompagnato l’imporsi della globalizzazione, che, nel ricondurre l’agire politico a quello etico, ne intendeva neutralizzare proprio il carattere conflittuale. Non solo, dunque, certa parte della politica italiana si è trovata in sintonia con un rinnovato bisogno di politica, ma vi ha colto in particolare l’esigenza di una concezione della politica in quanto conflitto, una politica cioè in grado di valorizzare la potenzialità d’innovazione del conflitto6.

D’altra parte, tutto questo si è svolto nel segno della “perdita”, della scomparsa della vecchia divisione in partiti “etici”, che accompagna la presa di coscienza del fatto che le contraddizioni e le crisi di sistema si producono esclusivamente dentro di esso. Resta però, retaggio della sinisteritas, la sua posizione nel cangiante teatro delle poste in gioco politiche: la fabbrica, la società, lo Stato, oggi la vita. Sul terreno della fabbrica fordista si determina la prima rottura, quella di Tronti nel 1966 con la dialettica storicista, cui da subito si aggiunge la centralità della crisi e della soggettività non sintetica (come il popolo gramsciano) bensì antitetica, “maledetta”. Ne saranno legittimi eredi, trasmutate le forme del lavoro nel post-fordismo, la donna, la nuda vita, la moltitudine – le figure dell’assoggettamento foucauldiano. Viene così ricostruita un’unità ontologica (a nostro parere, invece, alquanto politicista) dell’evoluzione intellettuale di Tronti, facendone il paradigma dell’intera Italian Theory, i cui altri filoni (per es. M. Cacciari e perfino G. Vattimo) sono ricondotti a varianti oppositive o interpretative di quella maledizione. Nell’incontornabile globalizzazione le parti sono ormai senza Partito, abbandonate alla loro parzialità, la vita è rimessa alla sua nudità e ogni forma di soggettivazione incarna la parte maledetta, irriducibile all’ordine della rappresentanza. La stessa crisi non è più occasione di decisione, ma diventa “arte di governo”, che non lascia alternative. Decisionisti, nostalgici, differenzialisti sono accomunati nello stesso destino. Che difficilmente contempla la possibilità di dispiegarsi fuori dall’attuale piano di consistenza, una volta declinata ogni dimensione di ulteriorità ed esternità. La soggettività può essere destituente, mai costituente.

In questa accezione, il richiamo esplicito di D. Gentili alle tesi di R. Esposito su comunità e immunità è ben fondato: se si applica all’insieme della politica la figura della vita o, per dirla con Esposito, se si cessa di «pensare la vita in funzione della politica» ma piuttosto si vuole «pensare la politica nella forma stessa della vita» e non più come sua direzione esterna, allora immunitas e communitas non sono più pensabili fuori del dono (munus) dentro e contro cui si muovono7. La prima voce (immunitas), com’è noto, trasferisce nella scienza giuridica e sociale un concetto di origine medica, la protezione nei confronti di una malattia infettiva, che diventa nel lessico giuridico una sorta di intoccabilità di qualcuno da parte della legge comune, dunque il rovescio della comunità, che invece lega e coinvolge. Se i membri della comunità sono segnati da un obbligo donativo, l’immunità implica invece l’esenzione o la deroga da tale condizione. Entrambi gli aspetti sono necessari alla vita e ognuno di essi, spinto al suo estremo, la distrugge. L’immunizzazione si fa profilassi sanitaria e sociale verso il diverso, protezione xenofoba (contro ogni estraneità), blocca lo sviluppo e iper-privatizza per eccesso di esonero. La communitas deve invece trattenersi al di qua di ogni pretesa di effettuazione storico-empirica, per non comprimere e mettere a repentaglio l’identità individuale dei suoi membri8. Una politica della vita e non sulla vita, che assuma la vita a soggetto e si faccia biopolitica affermativa, assomiglia troppo a uno scenario originario e permanente – è la vita stessa come contaminazione, dal biologico all’informazione, la sovrapposizione integrale di zoé e bios. Lo spazio per la politica e per la storia si contrae fino a scomparire e con esso il conflitto in senso proprio, che si risolve in un pendolo fra esposizione e protezione rispetto all’altro. Troppo e troppo poco per spiegare i singoli eventi.

Nella parte conclusiva di Bios9 Esposito, riprendendo una persuasiva tesi di G. Canguilhem sul rapporto fra normale e patologico, ricorda che lo stato di normalità biologica non risiede nell’impedire variazioni (non è “immunità”) ma nell’integrarle all’interno di un diverso tessuto normativo, grazie a un’incessante ri-programmazione. La malattia non è più il rischio estremo, ma il rischio di non poterne più affrontare nessuno, l’atrofizzazione della natura umana naturalmente arrischiante. In una sezione storica determinata, che corrisponderebbe a una singola vita secondo tale trasparente metafora, la malattia è una fase di transizione e riadattamento e l’immunizzazione definitiva sarebbe la morte dell’organismo biologico o traslato.

Stiamo e non stiamo sullo stesso livello della terapia che Machiavelli (tanto per muoverci ai due capi del lungo ciclo dell’Italian Theory) suggerisce per risanare i corpi semplici (individui) e composti (formazioni statali), che hanno pari destino lucreziano di aggregazione e disgregazione. Machiavelli pone un piano di intervento esterno (il fondatore o il restauratore di una repubblica, il principe nuovo) che interferisce con la logica naturale, opera negentropicamente organizzando ordini più o meno stabili per invertire, scongiurare o rallentare il degrado, suggerisce condizioni ottimali di gestione e ripristino (l’equalità delle condizioni), adatta i rimedi e i compromessi alla varietà locali, ai costumi dei popoli e ai gradi di corruzione. La politica moderna nasce in questo modo, traendo forza e realismo dalla naturalità per orientarla, mentre la biopolitica “affermativa” tende quasi a ritrarsi dalla prassi politica e a giustificare l’insuperabilità dell’orizzonte (il modo capitalistico di produzione nella sua fase neo-liberale) riassorbendolo nella limitatezza di una sfera organica individuale, dove la dinamica di malattia e immunizzazione si conclude con la morte del singolo organismo e la sua dissoluzione nell’ambiente. La rielaborazione specifica machiavelliana della grande lezione immanentista del De rerum natura consistette invece nell’introdurre un fuori non trascendente, quelle categorie storico-politiche che hanno assegnato una certa aria di famiglia a una postura “partigiana” dell’ideologia italiana, che l’Italian Theory rischia, a volte e certo non intenzionalmente, di estinguere per remissione. Senza altrove il qui non si staglia.

Ripetiamo: il singolo autore non è obbligato a trascendere il suo contesto e a spedire messaggi ma, se (volente o nolente) è inzeppato in una “scuola”, diventa inevitabile domandarsi quale ne sia il programma. E, se lo fosse la rivoluzione passiva, non andrebbe affatto bene. A volte il contenitore promozionale tradisce la ricchezza dei contenuti: o appiattendoli sul massimo comun divisore o stirandoli in una direzione che sembra omogenea solo in base a ipotesi aggiuntive. Disallinearli è salutare e degno di encomio, restituendo una più incisiva varietà ai singoli contributi. Prendiamo fiato invece di classificare.


Note
1 Saggio su invito, ricevuto il 7/01/2016, sottoposto a peer review.
2 Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, III, p. 1827.
3 Per semplicità, nell’abbondante letteratura sul tema, scegliamo di esemplificare le varie posizioni rifacendoci ai contributi presenti in Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, a cura di D. Gentili ed E. Stimilli, DeriveApprodi, Roma 2015, che raccoglie gli atti di due convegni tenuti a Parigi e a Milano nel 2014.
4 R. Esposito, Pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010.
5 Minnesota University Press, Minneapolis 1996. L’antologia si colloca idealmente nella stessa area della rivista «Luogo comune», uscita fra il 1990 e il 1993.
6 D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna 2012, p. 12.
7 R. Esposito, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, pp. XVI-XVII.
8 Ivi, p. 47.
9 Ivi, pp. 210-211.

Comments

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antonio
Thursday, 28 June 2018 18:18
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