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Italian Theory?

di Lorenzo Chiesa

schiele122Che cos’è la cosiddetta “Italian Theory”? Per quali ragioni è diventata di recente così centrale in una serie di dibattiti ontologici e politici, soprattutto nel mondo anglofono, dibattiti che coinvolgono non soltanto la filosofia ma anche le scienze sociali? E anche: da dove proviene la sua spesso elusiva prossimità alla biopolitica, una politica per la quale, seguendo la definizione di Giorgio Agamben, “il potere non ha di fronte a sé che la pura vita biologica senza alcuna mediazione”?

In questo intervento intendo sondare criticamente il successo, ma anche i limiti, di tale fenomeno teorico e sociologico (significativamente denominato “Italian Theory” anche in italiano). Da un lato l’espressione “Italian Theory” rimane altamente problematica nonostante una serie di recenti tentativi di chiarimento (penso in primis al lavoro ammirevole di Roberto Esposito): è sia troppo generica, cercando di raggruppare sotto questa etichetta un’ampia gamma di posizioni che rimangono per lo più incompatibili, che troppo specifica, dato il connesso rischio di essere associata al tentativo di far risorgere un’idea, francamente datata, di filosofia “nazionale”. Dall’altro lato, è fuori dubbio che nel corso degli ultimi due decenni un numero crescente di pensatori italiani provenienti sia dalla filosofia che dalle scienze sociali sono diventati a ragione molto popolari all’estero.

Come spiegare questa inaspettata notorietà su scala globale? Si tratta forse di una specifica capacità nostrana di sperimentare nella pratica politica le filosofie della differenza originate in Francia nella seconda metà del ventesimo secolo? O di una secolare propensione italica alla lotta intellettuale contro il potere costituito? O forse ancora, più modestamente, di una nostra maggiore dimestichezza con lo stato di crisi che ormai sembra investire l’intero pianeta?

Questo mio breve prologo marcatamente scettico rispetto all’“Italian Theory" non è affatto volto a prevenire una messa a fuoco di questo oggetto tanto teoretico quanto sociologico. Proviamo allora a chiederci: su cosa possiamo essere d'accordo quando parliamo della x etichettata sempre più frequentemente con il nome di “Italian Theory” – un nome che a mia volta adotterò almeno provvisoriamente in questo seminario. Credo si possano circoscrivere almeno quattro tematiche o questioni generali che accomunano l’“Italian Theory”; si tratta a mio avviso di quattro punti non controversi e difficilmente oppugnabili:

1. La dimensione temporale di questo fenomeno, e in particolare la data del suo inizio, che identificherei approssimativamente con gli ultimi anni ’90. Azzarderei in questo contesto anche un collegamento più specifico con la pubblicazione di due libri: Homo sacer di Giorgio Agamben, uscito in Italia nel 1995 e tradotto in inglese nel 1998, e Empire di Antonio Negri e Michael Hardt, uscito in inglese nel 2000 e subito tradotto in italiano.

È un banale dato di fatto, ma vale la pena ricordarlo, che nei decenni precedenti la filosofia cosiddetta continentale nonché la teoria critica europea erano senza dubbio dominate dalla cosiddetta – anch’essa in inglese – “French Theory”. Per essere minimamente più precisi, basti rammemorare en passant il successo dello strutturalismo, del post-strutturalismo, e della decostruzione francese. In parole povere tra gli anni ’60 e gli anni ’90 non vi sono stati pensatori italiani che abbiano goduto la fama internazionale di un Foucault, di un Derrida, o di un Lyotard, o che, d’altra parte, hanno attratto le critiche, a volte anche denigratorie, che essi attraevano.

A partire dall’inizio del nuovo secolo e millennio abbiamo invece assistito alla pubblicazione, soprattutto in lingua inglese, di una pletora di monografie e volumi collettanei – per non parlare di traduzioni – dedicati al pensiero italiano contemporaneo. Basti menzionare tra le altre rinomate case editrici quali Stanford, Routledge, Chicago e riviste ugualmente prestigiose quali Diacritics, Angelaki, Paragraph, Law, Culture and the Humanities.

2. Secondo punto a mio vedere non controverso. L’aspetto geografico di questo fenomeno: l’“Italian Theory” ha dagli inizi acquisito una dimensione spiccatamente internazionale. Va tuttavia notato che tale interesse globale (o, se vogliamo, imperiale) ha avuto origine negli Stati Uniti d’America, specialmente grazie a dibattiti vertenti proprio su Empire di Negri e Hardt, è stato poi “esportato” in altri paesi anglofoni, e solo successivamente in Europa, Italia inclusa. Come osservavo già prima, sintomaticamente, anche in Italia ci si riferisce all’“Italian Theory” in inglese. Vi è in questo senso un peculiare aspetto sociologico di tale fenomeno, sul quale tornerò a breve.

L’enorme successo commerciale di Empire, che ha venduto più di 40,000 copie in un solo anno, ha innescato a sua volta un’inaspettata, e molto spesso de-storicizzata, attenzione per il pensiero politico italiano degli anni ’60 e ’70, centrata soprattutto sul marxismo eterodosso italiano di quel periodo, e in particolare sull’operaismo (di cui Negri è stato una delle figure emblematiche).

Al contempo, vi è stata una riscoperta, o meglio una vera e propria scoperta, delle opere precedenti dei maggiori pensatori dell’“Italian Theory”, sia all’estero che in Italia, e specialmente da parte delle nuove generazioni. Agamben e Negri erano ovviamente attivi e prolifici ben prima degli anni ’90.

3. Terzo minimo comun denominatore dell’“Italian Theory”, anch’esso, credo, piuttosto pacifico. L’“Italian Theory” presenta in genere un orientamento politico di “sinistra” che rimane però molto difficile da definire. I pensatori in questione condividono esclusivamente un rifiuto più o meno categorico dell’esperienza storica del socialismo reale e una connessa richiesta – e scommessa – di ripensare la politica (di sinistra) daccapo.

In questo senso, Categorie dell’impolitico di Esposito, pubblicato nel lontano 1988, rimane particolarmente significativo: in poche parole, già allora, Esposito riteneva che le categorie politiche principali della modernità (rappresentazione; Stato; rivoluzione; eccettera) avessero ormai perso il loro significato. Esposito rinveniva la causa di tale perdita nel fatto che queste categorie fossero divenute una consunta teologia secolare. Esposito spiegava inoltre in questo modo il declino della partecipazione politica attiva e la crisi delle ideologie. Si trattava quindi per lui, già alla fine degli anni ‘80 e prima ancora della caduta del Muro di Berlino e del regime sovietico, di ripensare la politica attraverso l’“im-politica”. In modo apparentemente paradossale, rifondare la politica (di sinistra) implicava – come scrive – “considerare la politica dal suo bordo esterno”, quello impolitico. Proporrei che nonostante le loro differenze, tale motto valga per tutta la cosiddetta “Italian Theory”: da Esposito ad Agamben, da Negri a Virno, da Cacciari a Lazzarato, mutatis mutandis ripensare la politica (di sinistra) oggi implica pensare “la politica vista dal suo bordo esterno”. Ovviamente si tratta di un programma alquanto ambizioso ma anche vago.

4. Quarta caratteristica base dell’“Italian Theory”. Nel ripensare la politica daccapo, con tutte le difficoltà e le ambiguità connesse a questo sforzo sisifico, gran parte se non tutta l’“Italian Theory” resta molto specificamente influenzata da un singolo pensatore (non italiano): Michel Foucault.

Per Agamben, Negri, Esposito (e molti altri) il Foucault che equivale a un punto fermo è quello della biopolitica come tratteggiata da lui in La volontà di sapere e nei successivi corsi degli ultimi anni ’70 al Collège de France (e non quello, per esempio, dell’archeologia del sapere o della cura di sé). Il collegamento tra teoria italiana e pensiero della biopolitica non può essere sopravvalutato.

È noto che Foucault definisce la biopolitica come il tipo di governo che regola le popolazioni attraverso il “biopotere” – ovvero attraverso l’applicazione e l’impatto del potere politico su tutti gli aspetti della vita umana, attraverso, per esempio, pratiche di sanità pubblica, regolazione dell’eredità, e regolazione del rischio. Il biopotere si riferisce quindi in generale ai meccanismi e alle tecnologie di controllo che organizzano un gruppo di persone, e in fondo un popolo in quanto popolazione, in maniere più o meno direttamente connesse alla salute fisica di tale popolazione.

Leggiamo assieme come Foucault intende il biopotere in uno dei passaggi più chiari ed evocativi del corso Sicurezza, Territorio, Popolazione:

«Ho chiamato […] biopotere […] una serie di fenomeni di un certo rilievo, ovvero l’insieme dei meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana [quali la nascita, la morte, la produzione, la malattia] diventano oggetto di una politica, di una strategia politica, di una strategia generale di potere. In altri termini, si tratta di capire in che modo la società, le società occidentali moderne, a partire dal XVIII secolo, si siano fatte carico dei dati biologici essenziali per cui l’essere umano si costituisce in specie umana»

È fuori dubbio che le figure di maggior spicco dell’“Italian Theory” usano il Foucault biopolitico come un punto di riferimento e un interlocutore privilegiati. In questo senso, balza agli occhi come non vi sia assolutamente nulla di intrinsecamente italiano nell’“Italian Theory”: tale espressione è almeno qui altamente fuorviante.

Possiamo anche constatare che la maggior parte se non tutti gli esponenti dell’“Italian Theory” seguono pure l’approccio genealogico alla biopolitica che Foucault aveva mediato da Nietzsche. Secondo loro – pur anche in maniere diverse e a volte addirittura opposte – è solo attraverso la genealogia che l’im-politica può eventualmente costituirsi in forme di resistanza politica contro il biopotere.

Ma, e si tratta di una specificazione che considero cruciale, ciascuno di questi pensatori sviluppa un proprio Foucault biopolitico. Per quale ragione? Perché, come Esposito ha acutamente osservato in varie occasioni, il filosofo francese ha lasciato aperto il nesso problematico tra biopolitica e sovranità 1 – e quindi a grandi linee tra biopolitica e modernità. Cito Esposito:

«Da un lato [Foucault] ipotizza qualcosa come un ritorno del paradigmo sovrano all’interno dell’orizzonte biopolitico [come attestato dall’autorità suprema del leader nel nazismo]. Dall’altro lato, e contemporaneamente, affaccia l’ipotesi contraria: […] e cioè che sia stata proprio la definitiva scomparsa dell’ordine sovrano a liberare una forza vitale talmente piena da traboccare e rovesciarsi contro se stessa».

Approssimativamente, mi sembra che Agamben si attenga alla prima opzione foucaultiana, e anzi, la radicalizzi: almeno nell’Occidente, la biopolitica e la sovranità vanno da sempre di pari passo, a partire dal diritto arcaico romano, se non addirittura dalla politica e dalla metafisica aristotelica. Vi sono senz’altro delle importanti differenze storiche nell’articolazione di questo nesso tra biopolitica e sovranità (o più tecnicamente, vi è per Agamben una progressiva radicalizzazione del cosiddetto “stato di eccezione”). Ma in ultima istanza la resistenza politica va pensata all’interno di un quadro continuista (e, aggiungerei, heideggerianamente meta-storico).

Al contrario, Negri abbraccia la seconda opzione foucaultiana, portandola anch’egli ai suoi limiti. In breve, il paradigma biopolitico, o meglio il biopotere, non è nient’altro che il superamento della sovranità. O almeno esso equivale alla trasformazione della sovranità in qualcosa di completamente diverso: cioè, un sistema di potere capitalistico non trascendente, denominato Impero. Il paradigma biopolitico ben presto si rivolta contro se stesso – o, per dirla con Esposito, diventa una tanato-politica – ma questo biopotere letale può essere contrastato efficacemente e sconfitto in modo immanente. La potenza della vita – di spinoziana memoria – è per Negri sempre eccedente e sovversiva rispetto al biopotere tanatologico. L’insurrezione anti-capitalistica è possibile precisamente attraverso l’uso della vita e dei corpi come armi – ovvero, a grandi linee, attraverso il nomadismo e l’ibridazione della moltitudine come soggetto politico.

Infine, Esposito crede più prudentemente che le esitazioni di Foucault rispetto al nesso tra biopolitica e sovranità debbano essere preservate come tali e analizzate alla stregua di un sintomo. L’impasse della periodizzazione foucaultiana è per Esposito la conseguenza di un problema filosofico e ontologico molto più profondo: nell’analizzare la biopolitica, il pensatore francese concepirebbe il collegamento tra politica e vita in un modo meramente “esterno”. Sebbene Foucault colga la loro implicazione reciproca, politica e vita rimarrebbero nella sua opera – cito Esposito – «due poli […] chiusi all’interno di orbite separate – collegati solo in modo esterno […] essi stessi indefiniti nel loro contorno e nella loro qualificazione». 


Note
In questo contesto generico, possiamo benissimo attenerci alla definizione approssimativa di sovranità fornita da Negri e Hardt in Empire; per sovranità intendiamo un principio politico che «poggia fondamentalmente sulla trascendenza [o autorità suprema] del sovrano – [sia esso] il principe, lo stato, la nazione o persino il popolo – sul sociale».

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