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la citta futura

Le radici storico-antropologiche della nozione di feticismo

di Alessandra Ciattini

La nozione di feticismo nasce all'interno della riflessione sulla “religiosità primitiva” ma da questa è trasferita ad altri ambiti culturali. Contiene in sé una prospettiva critica che consente di scomporre i nostri “feticci” nel sistema di relazioni che in essi si cristallizzano 

portafortuna 16In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno. Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da Hegel, Marx, Comte, Freud per citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza - per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due punti: 1) cosa suscita l'interesse per le forme religiose extra-occidentali ? 2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni elementi costitutivi della propria società e cultura?

L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al concetto di tabù - reso noto da James Cook nei suoi diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”. Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato, altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale, la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non fosse stato scoperto. Nell'analisi freudiana tale processo, contrassegnato dalla contraddizione tra l'impulso a realizzare un desiderio proibito e il terrore di cedere ad esso, conduce all'insorgere del senso di colpa e alla creazione di pratiche ossessive che soddisfano in qualche maniera la pulsione proibita. Ma torniamo al feticismo e a colui che ha elaborato questo termine, ossia Charles de Brosses (1709- 1777).

Questi era presidente del Parlamento di Borgogna, un illuminista di provincia che coltivava numerosi interessi che vanno dallo studio delle nuove forme di vita sociale e culturale scoperte fino a quel momento, dalla storia comparativa delle religioni al problema dell'origine del linguaggio. È anche noto per le brillanti lettere che scrisse durante un viaggio in Italia, esperienza fondamentale degli intellettuali europei interessati alla scoperta degli antichi monumenti e al godimento delle opere d'arte presenti nel nostro paese (Viaggio in Italia, Bari 1992).

Benché in un opera precedente egli già menzioni il termine feticismo, a questa nozione dedica una ricerca specifica intitolata Sul culto degli dei feticci o parallelo dell'antica religione egiziana con la religione attuale della Nigrizia, parola con la quale si intende l'Africa subsahariana. Questo libro, il cui scopo principale è polemizzare con le credenze e le pratiche religiose del tempo, viene pubblicato anonimo a Ginevra nel 1760, perché de Brosses non voleva rischiare la Bastiglia, e successivamente viene ripubblicato durante la Rivoluzione Francese. Non esisteva di esso una versione italiana, fino a quando nel 2000 è uscita l'edizione curata da Stefano Garroni e da me con l'aggiunta di un'introduzione e di un apparato di note (Bulzoni, Roma 2000), il cui scopo è quello di identificare tutti gli autori (antichi e moderni) che de Brosses cita e che hanno dato un significativo contributo alla millenaria riflessione sulla religione.

Marx aveva letto il libro di de Brosses, giacché cita nel suo articolo uscito nel 1842 nella Gazzetta renana, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, episodi presenti nel trattato sul feticismo [2]. E inoltre, nei quaderni di appunti, scritti a Bonn nel 1841, compaiono passaggi tratti dall'edizione tedesca anonima pubblicata nel 1785 del libro del presidente.

Nel libro di de Brosses sono presenti aspetti di grande rilevanza teorica, tra i quali menziono la centralità della religione e sulle sue diverse forme all'interno della riflessione europea a partire dall'epoca classica, l'esplicito intento comparativo tra pratiche e credenze proprie di contesti assai lontani nello spazio e nel tempo volto a cogliere gli elementi invarianti della “natura umana” e dello “Stato sociale”, la battaglia contro l'insensatezza e l'irragionevolezza di molti modi di agire e di pensare dell'uomo, che pure sono altamente rispettati sino al punto di essere sacralizzati. Soffermandoci su questi punti, possiamo già ricavare una considerazione importante che smentisce tutti coloro che, criticando l'ipotizzato progressismo del pensiero moderno, hanno attribuito ad esso la convinzione che la società industriale moderna si sarebbe avviata verso un inarrestabile processo di secolarizzazione, smentito dal revival religioso degli ultimi decenni e salutato con favore da alcuni sociologi della religione [3].

I cosiddetti progressisti, identificati con gli illuministi e con i pensatori vittoriani, non si mostrano mai acriticamente tali, giacché sono fortemente convinti della fragilità umana, tema enfatizzato dalla Riforma, e che si manifesta nella necessità di un sostegno religioso. Infatti, riflettendo sugli antichi egizi, a cui si attribuiva il raggiungimento di un formidabile livello culturale, de Brosses scrive che “la storia ci prova… che, per quanto una nazione potesse essere più civile di un'altra, tuttavia le assurdità non mancavano nei suoi riti: la civiltà non esclude la superstizione (2000, p. 235).

Queste considerazioni sorgono dalla revisione dell'antica tesi, ripresa da autori moderni, secondo la quale ogni popolo ha due religioni: la prima spirituale e raffinata propria dell'uomo colto, identificata con il Teismo, l'altra rozza e materialistica praticata dalla plebe. Già Hume aveva sottolineato che, giacché la religione scaturisce dai sentimenti di inquietudine e di ansietà ineliminabili dall'animo umano, anche il saggio, se tormentato da tali stati psichici, non può non ricadere nelle più assurde credenze. A questo proposito si potrebbe menzionare la credenza nella jettatura descritta e accettata, sia pure con una certa ironia, dall'ambiente illuministico napoletano all'insegna del classico motto “non è vero, ma ci credo” (v. E. De Martino, Sud e magia, Milano 1982).

Ma cos'è il feticismo per de Brosses e da cosa nasce? Questa parola deriva dal termine portoghese feitiço, a sua volta proveniente dal latino facticius (dal verbo facere), che vuol dire artificiale, fabbricato. Con questa parola i navigatori portoghesi, che nel XV secolo cominciarono a costeggiare l'Africa occidentale con lo scopo di conoscere nuove terre e di avviare rapporti commerciali con le popolazioni locali, indicano taluni beni scambiati con queste ultime; beni che in molti casi presentano connotazioni di carattere religioso, giacché funzionano soprattutto come amuleti e talismani. Tale componente religiosa suscita perplessità nel viaggiatore portoghese che non comprende l'incapacità di isolare il valore puramente economico dell'oggetto quale comincia a configurarsi nell'economia mercantile.

A parere di de Brosses, il feticismo sorge nello stadio infantile dello spirito umano, nel quale gli uomini sono dominati dall'esperienza immediata e sulla base delle passioni elementari, quali il timore, l'ammirazione, la sorpresa per gli eventi eccezionali e anomali, finiscono col divinizzare piante, animali, fenomeni naturali e oggetti appositamente costruiti. Sulle orme di Hume, dunque, de Brosses ritiene che le forme religiose primitive, i cui tratti salienti si ritrovano anche nell'Antico Testamento, abbiano un'origine puramente emotiva; aspetto che giustifica la necessità dell'intervento divino per far conoscere ad esseri tanto fragili e inconsistenti - quali sono gli uomini - la vera religione attraverso la rivelazione.

Anche da queste rapide considerazioni possiamo ricavare alcuni elementi utili a rispondere alla prima domanda che ci siamo posti. L'interesse per le forme religiose extra-occidentali, alimentato dalla letteratura di viaggio e dai resoconti dei missionari e dei colonizzatori, del resto accompagnato dalla riflessione sulla religiosità antica, consente di sviluppare un confronto dal quale scaturisce l'assurdità e la bizzarria di talune credenze e pratiche proprie della civiltà occidentale, le quali - come suggerisce Marx nello scritto su citato - appaiono così caratterizzate anche perché viste con gli occhi di chi di essa non fa parte [4]. Se, dunque, il confronto contribuisce alla creazione di un punto di vista critico, d'altra parte lo stesso confronto consente di delineare la psicologia dell'uomo religioso.

Seguendo la riflessione di de Brosses tale psicologia presenta caratteri interessanti, le cui basi si radicano nella dimensione invariante della già menzionata fragilità umana, ma che d'altra parte oscillano e variano a seconda dei contesti storici e culturali in cui l'uomo, tendenzialmente religioso e superstizioso, si trova a vivere e a operare. C'è dunque nell'opera di de Brosses un certo dinamismo, derivatogli anch'esso da Hume, che rende più complessa l'analisi degli stati d'animo da cui germoglia la credenza religiosa. Infatti, egli scrive: “Prima che gli Stati fossero sottoposti a un buon corpo di leggi e a una forma di governo regolare ed articolata, la mancanza di previdenza e di buon ordine rendeva gli uomini ben più sottoposti al caso di quanto non sarebbe poi avvenuto” (2000, p. 230).

Appare in questo breve passo il tema centrale del caso già sviluppato da Hume, la cui riflessione viene menzionata, ma il cui nome non viene citato, limitandosi il presidente a fare riferimento a un “celebre scrittore straniero”. Questi aveva notato – scrive de Brosses – che i marinai e i giocatori, perché maggiormente sottoposti al dominio del caso degli altri uomini, immaginano che “la buona e la cattiva sorte… si lega a tante piccole e futili circostanze, che li tengono in costante inquietudine” (2000, p. 230). Con tale osservazione viene correttamente messa in risalto la relazione tra le concrete condizioni di vita dell'individuo e il grado di intensità e di profondità del suo atteggiamento religioso. Viene anche messa in rilievo la particolare condizione psicologica di chi, assillato da complicate circostanze e angustiato dall'incertezza, interpreta anche gli eventi più minuti come segni del destino, fasto o nefasto, che lo attende.

Forse a questo punto abbiamo indicato alcuni elementi che ci possono aiutare a comprendere il forte interesse per la “religiosità primitiva” presente in autori che si occupano di questioni da essa assai distanti. Osservando dall'esterno la religiosità altrui e i simboli in cui si manifesta, è possibile tracciare una netta distinzione tra il significante (il supporto materiale) e il significato (il senso attribuito dal fedele al primo); distinzione che quest'ultimo non fa né può fare perché i due elementi gli appaiono indissolubilmente e “naturalmente” congiunti. L'analisi di tale intreccio simbolico conduce all'individuazione di meccanismi proiettivi ed entificanti, in base ai quali riverso i miei stati d'animo al di fuori di me, li unifico e li cristallizzo in un'entità, che appare dotata di attività e intenzionalità, perché intesa secondo la logica dell'antropomorfismo. Insomma, troviamo nella “religiosità primitiva”, contro cui si polemizza sin dai tempi di Senofane (570 a. C. - 475 a. C.), tutti quei meccanismi che stanno alla base della visione del reale inteso come luogo, in cui operano forze di carattere personalistico, e da cui scaturiscono entità inconsistenti, se criticamente analizzate, ma saldamente “reali” per chi le ha create.

È questo l'antico sfondo culturale da cui emergono i vari modi di usare il termine “feticismo” da parte di autori tanto diversi ma ugualmente importanti, e da cui deriva anche l'atteggiamento analitico decostruttivo, che smonta i fenomeni sociali e culturali nel sistema di relazioni che legano l'uomo alla società e alla sua stessa dimensione interiore; atteggiamento che costituisce solo il primo passo per il superamento del feticismo, e che taluni hanno voluto attribuire alla postmodernità, quasi fosse una sua esclusiva scoperta. 


Note
 1. L'animismo, che considera animate anche le entità inerti di varia natura, è una nozione di carattere più generale rispetto al feticismo e per questo lo comprende. Carattere specifico del feticismo è attribuire attività e vita anche agli oggetti prodotti dall'attività umana, finendo col divinizzarli. E ciò fa del feticismo qualcosa di paradossale.
2. In particolare, in tale articolo – collegato ad altri due usciti in precedenza - si illustra come, per difendere le prerogative dei proprietari terrieri, la dieta renana trasformi in furto la raccolta di legna secca, non tenendo conto dei bisogni della povera gente che ad essa attingeva. Se avessero contezza di tale decisione – scrive Marx - i nativi cubani avrebbero pensato che per la dieta renana la legna fosse un feticcio, così come l'oro per gli spagnoli che li avevano colonizzati (http://www.nilalienum.it/Sezioni/Marx/Opere/LeggeFL.html).
3. Questi ultimi vedono, infatti, nella religione (cristiana) la sola istituzione che può garantire la permanenza di un elemento solidaristico, in virtù del quale sarebbe possibile attenuare la lotta di tutti contro tutti fattasi ancora più feroce nell'attuale fase capitalistica. 
4. Mettendo in luce il carattere aporetico della società capitalistica, nella quale si scontrano classi con interessi diversi, Marx non avrà bisogno di ricorrere alla comparazione con i “selvaggi” per far emergere un punto di vista critico, giacché esso scaturisce dalla riflessione politicamente orientata sullo stesso funzionamento di quest'ultima.
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