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Il militante filosofo

di Felice Mometti

filosofiaÈ sempre difficile risalire ai motivi che stanno alla base di una ripresa di interesse per il pensiero teorico e politico di un autore che ha svolto un ruolo non secondario nel campo del marxismo critico. Probabilmente sono sempre un insieme di coincidenze e necessità. A sei anni dalla morte di Daniel Bensaïd nel giro di pochi mesi, in Francia, sono usciti alcuni importanti contributi: la ripubblicazione di Stratégie et parti, che risale alla metà degli anni ’80, con una lunga introduzione e altrettanto lunga postfazione di Ugo Palheta e Julien Salingue(1) e il numero monografico, dedicato a Bensaïd, di Cahiers critiques de philosophie dal titolo Le militant philosophe(2). Ed è stata anche annunciata l’uscita, entro quest’anno, di un altro dossier monografico a cura questa volta della rivista Historical Materialism.

 

Un bilancio incerto

La prima pubblicazione di Stratégie et parti, nel 1987, era stata preceduta da un lungo contributo su Critique Communiste(3) in cui si esplicitava senza mezzi termini la profonda crisi che stava attraversando la Ligue Communiste Révolutionnaire (Lcr), l’organizzazione in cui militava, e venivano avanzate alcune ipotesi sul cambiamento radicale di fase politica dopo le lotte del decennio precedente.

Per Bensaïd ci si stava avviando verso la conclusione di un ciclo storico del movimento operaio e l’esperienza dell’opposizione di sinistra allo stalinismo degli anni ’30 non era un punto di riferimento utile per affrontare la crisi. Il processo di politicizzazione avvenuto nel ’68 e dintorni – pur con tutte le sue contraddizioni – costituiva una cesura rispetto al passato e le «avventure dell’unificazione del movimento troskista» non erano durate che «il tempo di una stagione... e di una scissione». È in questo contesto che in Bensaïd matura la convinzione della necessità di una riflessione più articolata su cosa significhi avere una strategia politica e sulla “forma-contenuto” di un partito che si vuole rivoluzionario.

Una riflessione complicata e difficile, segnata da una continua oscillazione tra l’urgenza di avere delle risposte immediate per affrontare la crisi e il bisogno di una ricognizione storica sulle trasformazioni dei concetti di strategia e di partito di classe. In prima battuta la strategia è individuata come il progetto di rovesciamento del potere politico borghese, perché le rivoluzioni non sono inscritte nell’ordine delle cose e della storia. Un agire strategico è quindi variabile e incide sui modi di concepire gli sviluppi dei movimenti sociali e sulle ricadute interne alle organizzazioni politiche. È, nel migliore dei casi, un’illusione quella di pensare che si possa necessariamente passare da un’accumulazione sindacale o parlamentare di forze a quella politica. In mezzo ci sta sempre una crisi, sociale o addirittura rivoluzionaria, che rimette in discussione i tempi e le forme di un’organizzazione possibile. Aver chiaro cosa significhi una crisi rivoluzionaria, ma anche sociale, politica, economica, diventa l’elemento chiave per una comprensione strategica della realtà. Tuttavia nessuna nozione di crisi ha un valore strategico intrinseco. Il suo contenuto è definito per il modo in cui si inscrive in un campo politico concreto.

Le due grandi ipotesi strategiche prese in considerazione da Bensaïd, la guerra rivoluzionaria prolungata e lo sciopero insurrezionale, sono analizzate politicamente e storicamente facendo riferimento ad alcuni esempi particolarmente significativi: la rivoluzione russa, quella cinese, le giornate di Barcellona del 1937, il maggio francese, la crisi portoghese del 1974/75. Per sfuggire al «radicalismo passivo dell’ortodossia», sempre teso alla ricerca di una riproduzione astratta di un modello di crisi storicamente mai esistito, Bensaïd cerca di allargare il campo delle argomentazioni indagando le mutazioni politiche dei concetti di fronte unico e di egemonia. Ma la crisi della Lcr incombe e necessita di risposte immediate che non possono completamente fuoriuscire da una certa tradizione trotskista, seppur rinnovata, pena l’aggravarsi della crisi stessa.

Quindi sia sul fronte unico che sull’egemonia più che portare a fondo la riflessione, passando criticamente a contropelo le teorie soggiacenti, viene proposto una sorta di elenco di avvertenze con lo scopo di limitare i possibili danni organizzativi. Certo, il fronte unico non ha un valore in sé e non si riduce ad un’unità indipendentemente dai suoi scopi e contenuti e l’egemonia non coincide con la conquista della direzione del movimento operaio come se bastasse «sostituire la testa bacata di un corpo immutato». Bensaïd, in Strategie et parti, non va oltre, scontando pure la contraddizione di aver fatto intravvedere alcuni percorsi diversi possibili senza però portarli a compimento. È una contraddizione che attraversa tutto il libro e che si manifesta anche sul tema del partito.

Dopo una puntuale ricostruzione della discussione a distanza sul partito tra Luxemburg, Trotskij e Lenin sembra che l’approdo di Bensaïd, sulla scia di Lenin, vada verso una concezione del partito che per essere rivoluzionario deve continuamente rivoluzionare se stesso. In cui le contraddizioni sociali e economiche si esprimono politicamente in modo deformato, trasformato, «condensato e spostato». Il partito deve avere la capacità di decifrare nella vita politica anche gli aspetti più inattesi. Il concetto di partito oltre ad essere storicamente determinato rifugge da ogni relazione di equivalenza con la classe e con lo Stato. Qui, in Bensaïd, c’è quasi il timore di aver superato i confini di una certa “tradizione consolidata”. A questo punto si ferma e riprende alcune vecchie diatribe, sul centrismo e sull’entrismo, che hanno profondamente segnato e diviso il movimento trotskista. Non lo fa distribuendo torti e ragioni ma cercando di vederne le connessioni con la natura e le forme organizzate di un movimento operaio internazionale e dei partiti comunisti usciti dalla seconda guerra mondiale. Il giudizio finale è senza appello: la categoria di entrismo, da Trotskij in poi, non è mai riuscita a interpretare la realtà dei partiti che oscillavano tra riforme e rivoluzioni, ma solo a descriverla. E il possibile senso politico dell’entrismo si è esaurito negli anni ’30, in una situazione di accentuata instabilità delle forze politiche in cui sviluppare una tattica entrista. Il problema irrisolto dell’entrismo negli anni ‘50 e ’60, in vari paesi, è sempre stato non come entrare ma come e quando uscire dai partiti scelti per l’intervento politico.

A metà degli anni ’80, per Bensaïd, parlare di partito significa fare i conti con una realtà politica e sociale eterogenea di una classe operaia non ridotta alla sola fabbrica, con una forma dello Stato e del sistema di rappresentanza politica in trasformazione, se non si vuole continuare con la «ginnastica delle intenzioni» presente in molti testi politici del periodo. Il bilancio che si ricava da Strategie et parti è incerto. C’è il tentativo, si può dire l’ultimo, di Bensaïd di rinnovare anche forzando – perché non più adeguati – i classici schemi di analisi trotskista introducendo punti di vista e argomenti che si discostano dalla “tradizione” di riferimento senza tuttavia mai superarla del tutto. Cosa che invece farà pochi anni più tardi con la pubblicazione di Marx l’intempestif e La discordance des temps(4). Dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenimenti da festeggiare per Bensaïd con una bottiglia di champagne ma subito dopo prendendo una buona dose di Alka Seltzer, perché i loro effetti sarebbero ricaduti anche sul marxismo della sinistra di matrice antistalinista. E il solo modo per salvare questo “marxismo critico” dal diluvio che lo ha investito è quello di sottoporre a critica le sue contraddizioni e la sua routine ideologica.

 

Una continuità ritrovata?

Nei due saggi di Palheta e Salingue, che accompagnano la ripubblicazione di Strategie et parti, da una parte si sostiene l’esistenza di una continuità di fondo del pensiero strategico di Bensaïd dal ’68 agli ultimi scritti e dall’altra si riconosce una cesura di metodo, modo di esporre, bibliografia di riferimento, in Marx l’intempestif, rispetto alla tradizione trotskista. Come se la riflessione di Bensaïd su Marx fosse stata quasi una parentesi. Una posizione difficilmente sostenibile alla luce degli scritti successivi tra i quali la raccolta La politique comme art stratégique(5) in cui la strategia non è ridotta a mero progetto di conquista del potere politico ma si articola in una pluralità di tempi e spazi e combina la storia con l’evento, l’atto e il processo, la presa del potere e la marxiana “rivoluzione in permanenza”. Tutte le questioni che riguardano le temporalità politiche, le biforcazioni sociali che rimandano a un concetto di classe che si forma e diventa soggetto nella lotta, che si determina nel corso di un processo che investe sia i rapporti di produzione che le rappresentazioni simboliche e i discorsi ideologici, che non esiste a prescindere come teorizza una certa sociologia determinista, vengono bypassate per riproporre un rigido schema a matrioska fatto di epoche, periodi e congiunture. Oggi secondo i due autori, saremmo nell’epoca del tardo-capitalismo, nel periodo neoliberista e nella congiuntura dell’impasse delle soluzioni alla crisi. In questo modo, ben che vada, si rimane sul piano descrittivo del capitalismo contemporaneo con il rischio di irreggimentare ancor di più il modello mediante l’individuazione di obiettivi epocali, del periodo e della congiuntura. Si dissociano, anziché articolare, l’evento e la storia, il necessario e il contingente, il sociale e il politico che sono stati al centro della riflessione di Bensaïd dall’inizio degli anni ’90 in poi.

Palheta e Salingue hanno ben presente la crisi di rappresentanza e più in generale di credibilità che attraversano le formazioni politiche della sinistra radicale in Francia e in tutta Europa e giudicano assurda la contrapposizione tra una supposta autenticità della lotta di classe in confronto alle lotte antirazziste, femministe, degli “indignati”. Tuttavia queste ultime sono viste solo come dei detonatori che aprono uno spazio sociale da superare con la costituzione di un partito che politicizzi «tutti gli antagonismi inerenti alla società capitalista». Un partito multiforme che sia un educatore in grado di formare politicamente i suoi membri, un intellettuale che elabori collettivamente una comprensione comune del mondo sociale, uno sperimentatore capace di prendere decisioni non scontate, un catalizzatore che superi la dispersione della sinistra e dei movimenti sociali con nuove sintesi militanti e politiche, un partito-stratega che giochi un ruolo decisivo nelle situazioni di crisi politica e di biforcazioni storiche. Questa concezione del partito, dovremmo dire dell’organizzazione politica, da parte dei due autori pare troppo anche per il miglior partito possibile e troppo poco guardando ai processi di soggettivazione al tempo della fine del movimento operaio così come si è conosciuto da un secolo e mezzo a questa parte. Estendere la superficie di contatto dell’organizzazione politica con i fenomeni, gli antagonismi, le soggettività sociali non affronta la questione cruciale delle forme e dei contenuti del rapporto tra rappresentanza politica e autorganizzazione sociale conflittuale. A meno di non rimanere imbrigliati in un’idea di organizzazione politica che evochi lo spirito assoluto di hegeliana memoria.

 

La filosofia non è il supplemento dell’anima

Gli anni ’80 del secolo scorso sono stati gli anni grigi, gli “anni d’inverno” per riprendere una definizione di Felix Guattari spesso citata da Bensaïd. Gli anni in cui una «diaspora filosofante di esìli ed esodi»(6) di una dozzina di nazionalità diverse frequenta i seminari di Bensaïd, al dipartimento di filosofia dell’Università di Paris VIII, sulla rilettura e la discussione del Capitale, dei Grundrisse e delle Teorie del Plusvalore di Marx alla luce anche degli scritti di Benjamin.

L’ultimo numero della rivista Cahiers critiques de philosophie dedica una serie di contributi e di interviste al pensiero politico e filosofico di Bensaïd. Viene ripubblicata anche una sua lunga intervista, del 1991, alla rivista Philosophie, philosophie. Nel pensiero politico-filosofico di Bensaïd, secondo Michael Löwy, avviene una svolta negli anni 1988-89, appena prima e a cavallo del crollo dei paesi del “socialismo reale”. La pubblicazione di Moi la revolution(7) e successivamente del libro su Benjamin(8) aprono un periodo di riflessione in cui il marxismo di Bensaïd viene progressivamente alleggerito del peso positivista, scientista e di quelle trappole deterministe che avevano caratterizzato, e che tuttora caratterizzano, larga parte della piccola costellazione trotskista internazionale.

Un peso che ha fortemente limitato il potenziale sovversivo ed emancipatorio del marxismo stesso, assimilandolo a una sottospecie di fisica newtoniana «assoluta, vera, matematica». Ma per Löwy – come del resto per René Shérer pur da una prospettiva diversa, più interna all’accademia filosofica francese – è nel 1997 con la pubblicazione di Le pari mélancolique, e soprattutto l’ultimo capitolo sui “labirinti della rivoluzione” che avviene il salto qualitativo dal punto di vista filosofico: «il tempo e lo spazio delle rivoluzioni sono eterogenei, kairotici, scanditi da momenti propizi e da opportunità da afferrare. Ma davanti a un incrocio di possibilità, l’ultima decisione comporta una parte irriducibile di sfida»(10). Ed ancora, la «malinconia rivoluzionaria dell’inaccessibile, senza rassegnazione né riconoscimento, si distingue radicalmente dalla tristezza impotente dell’ineluttabile e dai lamenti post-moderni che mancano di finalità con la loro estetizzazione di un mondo disincantato»(11).

 

Il tempo e la storia

Il tempo è uscito dai cardini, fuori di squadro, “the time is out of joint”. Questa frase tratta dall’Amleto di Shakespeare ha costituito spesso l’incipit, più o meno esplicito, dei seminari di Bensaïd all’università. Ed è da qui che inizia anche il contributo di Samy Joshua, che a differenza di Löwy e Shérer individua in Marx l’intempestif e in La discordance des temps il vero cambio di paradigma nel pensiero di Bensaïd. Le nozioni di controtempo e di non contemporaneità, pur non completamente sviluppate, appaiono già nell’introduzione ai Grundrisse di Marx come rapporto ineguale, ad esempio, tra produzione artistica, giuridica e modo di produzione materiale. Bensaïd, per Joshua, riprende questa apertura teorica di Marx per approfondirla e utilizzarla nella lettura della relazione tra sviluppo delle forze produttive e mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici. Una relazione spesso interpretata in maniera meccanicista sulla scorta di alcune formulazioni contenute nella prefazione a Per la critica dell’economia politica di Marx.

Alla supposta e lineare contraddizione tra uno sviluppo delle forze produttive e il mantenimento della gabbia dei rapporti di produzione, Bensaïd – avvicinandosi agli scritti di Raniero Panzieri – parla di relazione d’interiorità tra i due termini. Non c’è sviluppo delle forze produttive che avvenga fuori, esteriormente ai rapporti di produzione, di dominio e sfruttamento. Ciò che entra in collisione sono le diverse temporalità, le loro discordanze che fanno sorgere la possibilità stessa degli eventi politici che si possono discostare dai processi sociali ed economici. I modi di produzione non si evolvono per stadi successivi e necessitati e la storia non è il risultato della “coscienza di sé” che funziona come la versione filosofica della “terra promessa”, del “paradiso in terra”. Pensare che una fase storica ne prepari necessariamente un’altra è, per Bensaïd sulla scorta del Marx dell’Ideologia tedesca, una concezione religiosa.

Stavros Tombazos, che negli anni ‘80 fu uno dei partecipanti di quella «diaspora filosofante» all’Università di Paris VIII, individua nel pensiero di Bensaïd una critica radicale della nozione di progresso lineare della società nella storia fino a parlare di una «non contemporaneità del presente con sé stesso» e di una «politica come punto di incontro tra tempi discordanti». Il tempo, per riprendere una definizione contenuta in Marx l’intempestif è «un rapporto sociale in movimento». Da questo punto di vista gli eventi politici si giocano sempre «nelle interruzioni e nelle intermittenze (...) perché una rivoluzione non viene mai alla sua ora. Troppo presto o troppo tardi. Essa non è mai veramente matura. È sempre una maniera dell’imprudenza»(12).

 

Tra eventi e spettacoli

Nel 2001 Bensaïd pubblica Résistances. Essai de taupologie générale(13) in cui, usando anche un po’ ironicamente l’assonanza tra topologia e “talpologia”, interloquisce da vicino con il pensiero di Althusser, Badiou, Derrida e Negri. Ivan Segré ricostruisce quella che definisce la “fraternità critica” tra Bensaïd e Badiou, che insegnavano nella stessa Università. Si misurano distanze e vicinanze tra i due su un tema cruciale per entrambi: il concetto di evento. La talpa che scava incessantemente sottoterra per minare la stabilità del sistema di Bensaïd e la grazia della colomba che si libra nel volo staccandosi dalla terra di Badiou. Fuor di metafora il confronto avviene sugli elementi costitutivi di un evento politico. Bensaïd insiste sull’inevitabile rapporto tra evento e processo, mai meccanico sempre da indagare e ricostruire, e Badiou sull’evento come cominciamento assoluto da cui dipende anche il processo.

La posta in gioco è la relazione tra evento politico e processo sociale che Bensaïd riformula all’interno di una dialettica materialista, liberandoli dalle strettoie di un rigido rapporto tra causa ed effetto, ed invece Badiou fonda l’evento su una sorta di “ontologia del vuoto” che non ha antecedenti né conseguenti. L’evento quasi come un “miracolo” a cui rimanere fedeli, questa la critica di Bensaïd. Per Segré siamo davanti a due concezioni che privilegiano l’una la trascendenza dell’incredibile e l’altra l’immanenza del quotidiano. L’astrattezza di un comunismo platonico con venature matematiche di Badiou e la possibile concretezza di un incerto comunismo senza modelli che si fonda sui movimenti delle classi in lotta per Bensaïd.

Sono temi questi che Bensaïd non abbandonerà mai fino alla sua scomparsa. Infatti nel 2011 esce postumo, sotto forma di appunti di lettura e note argomentate, il libro a cui stava lavorando: Le Spectacle, stade ultime du fétichisme de la marchandise(14).

Nelle intenzioni dell’autore doveva essere una ricognizione sul pensiero di Marx, Marcuse, Debord, Lefebvre, Baudrillard alla luce delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo. Francisco Louça partendo dagli appunti di Bensaïd amplia il raggio di analisi argomentando il flusso delle banalità in cui si è immersi come stadio supremo della mercificazione capitalista. Il contributo di Louça si discosta da tutti gli altri contenuti nella rivista in quanto c’è il tentativo non di ricostruire il pensiero di Bensaïd, ma di metterlo in tensione per venire a capo del modo di produzione del senso comune come autoritratto della società. E quindi delle forme della comunicazione come mezzi per la costruzione di una “banalità banale” che veicola una normatività emotiva che sta alla base del marketing emozionale della mercificazione. La banalizzazione della colpa o del consenso (siamo vissuti oltre i nostri mezzi, il mercato è meglio delle politiche pubbliche ecc.) è un argomento potente, non solamente perché facilmente assimilabile, ma anche perché estremamente sofisticato. Ha un’architettura complessa che si costruisce sulle colpe, gli strumenti, gli obiettivi, gli eventi, le soluzioni, il passato e l’avvenire. La ripetizione è il discorso e il discorso necessita di una rete universale di comunicazione per essere inteso. In altri termini è performativo proprio perché banale.

 

Un nuovo lessico per una politica profana

La trascrizione dell’opera teatrale La voix de Daniel Bensaïd di Hervè Dubourjal e le interviste a Sophie Bensaïd sul Daniel Bensaïd nell’intimità e nella quotidianità dopo che nel marzo del 1990 aveva appreso di essere sieropositivo, a Alain Krivine sulla stagione dei grandi rivolgimenti politici e sociali alla fine degli anni ‘60, a Edwy Plenel sull’inquieta amicizia tra i due e a Olivier Besancenot sul Bensaïd politicamente impegnato negli ultimi anni di vita, chiudono il numero speciale di Cahiers critiques de philosophie.

Daniel Bensaïd si è sempre rifiutato di farsi confinare nel cliché dell’intellettuale impegnato. Piuttosto ha sempre visto come fondamentale l’impegno intellettuale non come giustificazione ex post di scelte politiche ma come irriducibile necessità per cambiare il mondo, una «dialettica in azione» scevra di ogni meccanicismo e nostalgia. Nelle condizioni spaziali e temporali dell’azione politica che sono radicalmente cambiate sotto gli effetti contradditori della globalizzazione neoliberista, un nuovo lessico si impone per non essere relegati nella marginalità e nell’irrilevanza. Un lessico che nasce dallo scambio conflittuale delle lingue politiche reali, delle esperienze storiche e sociali. Il capitale ha il suo vocabolario spontaneo: just in time, workfare, net-economy. Ci si può difendere solo in termini di attacco ribaltando il senso delle parole(15). Dove, con il Marx dell’introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, «la critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica». Per Bensaïd la politica profana non è altro che la critica della politica.


Note
1. Daniel Bensaïd, Ugo Palheta, Julien Salingue, Strategie et parti, Les Prairies Ordinaires, 2016
2. Cahiers critiques de philosophie n° 15, Daniel Bensaïd. Le militant philosophe, Hermann, 2016
3. Daniel Bensaïd, Contribution à un débat nécessaire sur la situation politique et notre projet de construction du parti, in Critique Communiste, gennaio 1986
4. Daniel Bensaïd, Marx l’intempestif, Fayard, 1995 (ed.italiana, Marx l’intempestivo, Alegre, 2007); Daniel Bensaïd, La discordance des temps. Essai sur les crises, les classes, l’histoire, Les Editions de la Passion, 1995
5. Daniel Bensaïd, La politique comme art stratégique, Editions Syllepse, 2011
6. Daniel Bensaïd, Une lente impatience, Editions Stock, 2004 (ed.italiana, Una lenta impazienza, Alegre, 2012)
7. Daniel Bensaïd, Moi, la révolution, Gallimard, 1989
8. Daniel Bensaïd, Walter Benjamin, sentinelle messianique, Plon, 1990
9. Daniel Bensaïd, Le pari mélancolique, Fayard, 1997
10. Ibid, p.164-165
11. Ibid, p. 250-254
12. Daniel Bensaïd, Postfazione a Stavros Tombasoz, Les temps du Capital, Société des saisons, 1994
13. Daniel Bensaïd, Résistances - Essai de taupologie générale, Fayard, 2001
14. Daniel Bensaïd, Le Spectacle, stade ultime du fétichisme de la marchandise, Lignes, 2011
15. Daniel Bensaïd, Eloge de la polique profane, Editions Albin Michel, 2008 (ed.italiana, Elogio della politica profana, Alegre, 2013)

Comments

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Claudio
Tuesday, 26 July 2016 17:49
La ringrazio d’avermi portato a conoscenza, seppur in modo molto sommario, di Daniel Bensaïd, un filosofo politico francese veramente impegnato ed interessante, cha ha trattato le problematiche del partito che si pretende rivoluzionario, in modo approfondito e soprattutto in modo critico marxista come conviene. Tali tematiche sono più attuali che mai per le organizzazioni politiche della sinistra che pretendono di rappresentare gli interessi storico/politici operai e proletari. E’ pertanto abbastanza logico, soprattutto in questi ultimi tempi, in cui la crisi ha reso la vita di tali classi sociali sempre più precaria e miserevole, che sia riemerso un marcato interesse per questa illustre figura di compagno, soprattutto in Francia ove egli ha vissuto e lottato, ed a quanto pare vi è stato un notevole confronto su tali tematiche tra i filosofi della sinistra anti istituzionale, e a quanto pare, molto più sviluppato che in Italia. Premesso ciò, mi permetto di fare una riflessione. Tenendo conto che si è sviluppato tale vivace dibattito filosofico/politico, e considerando come sono andate a finire le recenti vivaci e prolungate lotte contro la nuova legge sul lavoro di El Khomri, mi viene da pensare alla famosa constatazione fatta da Marx: “Troppi filosofi hanno interpretato il mondo, è ora di cambiarlo”. Per cui mi viene da porre la più che logica domanda: quand’è che smetteremo di filosofeggiarci attorno e cominceremo per davvero a cercar di cambiarlo questo disgraziatissimo mondo?
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