Print Friendly, PDF & Email

il rasoio di occam

Riconoscimento reciproco o disaccordo politico?

Axel Honneth e Jacques Rancière a confronto 

di Giorgio Fazio

Ne “Il Rasoio di Occam” si è già discusso a lungo delle ultime pubblicazioni del filosofo tedesco Axel Honneth. Completiamo ora la ricognizione della ultime fasi del suo pensiero, prendendo in considerazione il dibattito che egli ha recentemente ingaggiato con un altro protagonista della scena filosofica mondiale, Jacques Rancière

edward hopper 010 summer eveningNel momento in cui in Italia sono uscite, a poca distanza una dall’altra, le ottime traduzioni dei due libri di Axel Honneth Il diritto della libertà e L’idea di socialismo[1] - riaccendendo i riflettori sulla proposta teorica di uno dei protagonisti della scena filosofica contemporanea - è stato pubblicato negli Stati Uniti, nella serie “New Directions in Critical Theory“ della Columbia University Press, un interessante volume intitolato Recognition or Disagreement.[2] Si tratta della trascrizione di un dialogo, tenutosi nel 2009 presso il prestigioso Istituto di Scienze Sociali di Francoforte, che ha visto protagonisti lo stesso Axel Honneth e il filosofo francese Jacques Rancière. Oltre a questo dialogo, nel volume sono riportati anche altri contributi dei due filosofi: due testi che aprono il libro, in cui Honneth e Rancière provano a mettere a fuoco quali sono, dal loro punto di vista, i problemi e i limiti degli approcci del proprio interlocutore, e altri due articoli, che chiudono il volume, a cui viene affidato il compito di chiarire in positivo il cuore delle loro diverse posizioni. Si tratta nel complesso, quindi, di un testo estremamente interessante e ricco di spunti teorici, che offre l’occasione per ritornare su molte delle questioni che stanno emergendo nel dibattito suscitato in Italia dalla recente pubblicazione dei due volumi di Honneth a cui si è appena fatto riferimento. Mettendo a confronto due esponenti di spicco del pensiero critico contemporaneo, appartenenti per di più a due aree culturali diverse - la filosofia tedesca e la filosofia francese - questo testo offre anche la possibilità di svolgere alcune riflessioni sulla questione più complessiva dei compiti e delle sfide cui è messa di fronte oggi una teoria critica della società.

Volendo intendere qui con questa denominazione ogni approccio teorico che, facendo interagire diversi ambiti disciplinari, tenta di offrire strumenti di analisi dei principali meccanismi di ingiustizia, di esclusione e di dominio delle nostre società tardo o iper-moderne, contrassegnate dal dominio economico e culturale del „neoliberalismo“; e d’altra parte, cerca di concettualizzare in maniera riflessiva l’agenda dei movimenti di emancipazione del proprio tempo, lavorando in vista della realizzazione dei loro obiettivi. Teoria critica della società vuol dire, quindi, allo stesso tempo e necessariamente teoria e prassi: in questione è un approccio che, comunque sia declinato, se tenta di mettere a fuoco i meccanismi sistematici di ingiustizia che permeano le nostre società, non può esimirsi dal porsi in relazione, e in qualche modo al „servizio“, dei movimenti sociali che lottano per l’emancipazone, ossia per la rimozione di ogni ostacolo alla piena realizzazione della libertà e dell’eguaglianza di tutti gli individui.

Il titolo del volume che ospita il confronto tra Honneth e Rancière – Riconoscimento o Disaccordo – pone da subito efficamente in tensione i due concetti-cardine attorno a cui ruotano le diverse strategie seguite dai due pensatori per dare corpo al programma di una teoria critica e, in qualche modo, per rispondere alla sfida più spinosa di fronte a cui essa oggi si vede messa di fronte: come ripensare il tema dell’emancipazione e come, da qui, acquisire criteri capaci di valutare la qualità dei movimenti e delle lotte sociali, offrendo loro anche una prospettiva e un orizzonte di ampio respiro. Sotto i titoli di «reciproco riconoscimento» - o, secondo la terminologia più recente di Honneth, di «libertà sociale» - e di «disaccordo», Honneth e Rancière hanno tentato, infatti, ciascuno partendo dal proprio punto di vista, di rimettere mano all’idea di «emancipazione universale» che animava al fondo il pensiero marxista, e lo hanno fatto sotto la pressione di istanze per molti versi accostabili. E per entrambi, ripensare il tema dell’emancipazione ha significato innanzitutto svincolarlo da quelle premesse che, come ha efficamente ricostruito lo stesso Honneth nel suo ultimo testo, L’idea del socialismo, animavano la teoria socialista dell’Ottocento, anche nella sua versione marxiana: la centralità del proletariato, il determinismo storico, l’economicismo.

 

Lotte per il riconoscimento. Ripensare il tema dell’emancipazione

All’inizio dei loro itinerari teorici tanto Honneth quanto Rancière sono partiti dalla constatazione che il soggetto della trasformazione sociale non poteva più essere fatto coincidere con un attore collettivo sociologicamente determinato - il proletariato industriale - immaginato come portatore „naturale“ di interessi economici oggettivi e universali, prodotti automaticamente dalla stessa dinamica del capitalismo. Entrambi hanno assunto che il tema dell’emancipazione umana doveva essere depurato da ogni lettura teleologica, lineare e necessitante della storia: dal postulato, cioè, che la «società dell’avvenire» sorge necessariamente dalle contraddizioni del sistema capitalistico; postulato, questo, che finiva per relativizzare lo stesso ruolo della prassi dei soggetti sociali. Ed entrambi, infine, hanno capito che era necessario prendere le distanze dall’economicismo, ossia dall’idea per cui per realizzare una società post-capitalista, bisogna abbattare il sistema economico capitalistico ed è da questo abbattimento che conseguono automaticamente anche le condizioni di una democrazia reale. Tanto per Rancière quanto per Honneth, l’esperienza del socialismo reale ha dimostrato, ad abundantiam, che la questione dei diritti individuali e della democrazia si ripresenta immutata, in tutta la sua irriducibile autonomia e cogenza, anche in una società non o post-capitalistica. In realtà, il confronto critico con l’eredità del marxismo, intrapreso dai due filosofi all’inizio della loro carriera, si lascia accostare anche per qualcosa di piu profondo: ossia per il modo in cui tutte queste esigenze sono precipitate alla fine nell’importanza che entrambi hanno accordato al tema del «riconoscimento». Esiste infatti anche una versione rancèriana della «lotta per il riconoscimento» (Honneth) e, per convincersene, come suggeriscono anche i due curatori del volume, è sufficiente operare uno scavo genealogico sulle sue opere della maturità e, in particolare, su quella che ha dato fama internazionale al filosofo francese, ossia Il Disaccordo (1995).

Come è noto, Rancière prese parte nel 1965 alla compilazione dell'importante volume collettaneo Lire le Capital (Leggere il Capitale), insieme al suo maestro Louis Althusser, a Étienne Balibar, a Roger Establet e a Pierre Macherey. Solo alcuni anni dopo, tuttavia, egli aveva già interrotto il suo sodalizio scientifico con Althusser. Questo distacco fu motivato innnazitutto dai contrasti sorti riguardo alla valutazione politica degli eventi del maggio 1968. Ma alla base di questa diversa valutazione politica c’era un motivo teorico fondamentale. Per Rancière, l’approccio althusseriano tendeva a riprodurre costantemente una forma di «rottura epistemologica» tra il piano scientifico della teoria e quello della vita ordinaria. Il marxismo strutturalista produceva una disgiunzione radicale tra la filosofia – intesa come scienza delle leggi del dominio e dello sfruttamento della società capitalistica, ma anche come scienza degli apparati ideologici che impediscono di riconoscere queste stesse leggi - e la prospettiva della gente ordinaria. È quello che Rancière ha poi denominato il circolo vizioso della «scienza dell’ineguaglianza», a cui egli ha contrapposto poi il «metodo dell’eguaglianza». Da una parte la scienza delle leggi del dominio dimostra che i dominati sono tali perché ignorano le leggi dello sfruttamento e dell’oppressione. D’altra parte, essa dimostra che questa stessa ignoranza è il prodotto del meccanismo del dominio. Il risultato è quindi che coloro che possiedono la scienza sociale sono sempre un passo avanti rispetto alla gente ordinaria, scoprendo ogni volta una nuova forma di soggezione e di ineguaglianza. La teoria critica si chiude in una torre d’avorio e dietro la pretesa di aver raggiunto una comprensione totale del dominio sociale, assume un atteggiamento paternalista nei confronti dei soggetti il cui assoggettamento deve „illuminare“, perdendo di vista, d’altra parte, il terreno delle lotte che si agitano concretamente sul piano della fattualità storica. Per superare questa impostazione, Rancière diede avvio negli anni settanta ad una nuova linea di ricerca. Una delle prime tappe di questa nuova fase fu l’analisi degli archivi dei discorsi della classe operaria (La parole ouvrière, 1976). Dall’analisi di questi discorsi emergeva un dato fondamentale: le battaglie del proletariato, prese in considerazione in queste ricerche, non concernevano soltanto le richieste di aumento del salario o una diversa organizzazione del processo lavorativo, quanto e soprattuto la richiesta dei proletari di vedere «riconosciuta la propria capacità di parlare a nome di se stessi». In queste lotte non era in questione tanto la richiesta di riconoscimento di un’identità sociologicamente e culturalmente definita, quindi, bensì la richiesta di vedere riconosciuta un’«eguale intelligenza». Il disaccordo su specifiche misure sociali ingiuste implicava una più radicale lotta per il riconoscimento della capacità di prendere parte al dissenso. I lavoratori volevano «essere riconosciuti in qualcosa di altro rispetto alla mera forza e al mero vigore delle braccia operaie: volevano mostrare che i lavoratori possono anche asserire ciò che è giusto e ragionevole, che essi devono avere il loro posto».[3] Detto diversamente: le loro lotte non erano finalizzate a dare espressione ad un’oggettiva coscienza di classe ma, paradossalmente, a liberarsi della propria esistenza proletaria, per rigettare l’ordine prestabilito e le posizioni che esso assegna. Le battaglie operaie ruotavano attorno alla «questione della dignità proletaria».

Se si volge lo sguardo ai primi passi della ricerca di Honneth non si ha difficoltà a riconoscere come anche il suo tentativo di ripensare criticamente il tema dell’«emancipazione», fuori dalle secche del marxismo dogmatico, ha preso le mosse da intuizioni non lontane da quelle che erano state alla base della rottura di Rancière con Althusser. Come Honneth ha dichiarato in molte ricostruzioni retrospettive del suo primo itinerario teorico, ciò che lo spinse ad allontanarsi dall’impostazione teorica della prima scuola di Francoforte, seguendo le orme già tracciate da Jürgen Habermas, fu innanzitutto il proposito di congedarsi dal paternalismo cui metteva capo l’impostazione dei primi francofortesi, Horckheimer e Adorno. Questo paternalismo scaturiva dalla tendenza della teoria critica ad operare una generalizzazione del sospetto contro le forme e le strutture della società borghese, che finiva per squalificare la coscienza dei soggetti, delle persone in carne ed ossa, nei contesti della loro vita ordinaria, integrata nel sistema capitalistico. È per superare questo fossato tra la teoria critica e la vita ordinaria, che anche Honneth avvertì l’esigenza di compiere un supplemento di analisi delle motivazioni che stanno alla base del conflitto sociale. Più o meno nello stesso periodo degli anni settanta in cui Rancière scandagliava gli archivi dei discorsi della classe operaia, l’allievo di Habermas fu attirato dai risultati delle ricerche di storici come E. P. Thompson e Barrington Moore, e dalle loro analisi delle rivendicazioni lavorative delle classi operaie, nell’emergente società capitalistica. Queste ricerche ponevano in evidenza come il motivo dell’opposizione alla disuguaglianza in termini di beni materiali aveva una base motivazionale più profonda. Nel capitalismo emergente e gradualmente predominante, la protesta sociale delle classi più basse aveva come finalità ultima quella del riconoscimento della dignità operaia: si trattava della richiesta, da parte dei lavoratori, di un adeguato riconoscimento e di un’adeguata stima sociale per il ruolo da loro assunto nella conservazione e nella riproduzione della società. Le fonti motivazionali della resistenza e della protesta della classe operaia affondavano, più che nell’insoddisfazione per la propria situazione materiale, nel sentimento di ingiustizia che scaturiva dalla sensazione che le forme di vita e di realizzazione che ai loro occhi sembravano degne di rispetto, non venivano riconosciute dal resto della società. Fu dall’appropriazione critica e dalla generalizzazione teorica dei risultati di questi studi e di altri – oltre alle ricerche sulla resistenza proletaria di Barrington Moore, i vari studi sul significato del danno al rispetto di sè fra le popolazioni colonizzate, la letteratura sul ruolo sociale del disprezzo nelle esperienze femminili di oppressione – che Honneth giunse infine a formulare una tesi fondamentale, destinata a fondare una nuova teoria filosofica: il nucleo di tutte le esperienze di ingiustizia va cercato nel rifiuto del riconoscimento sociale, ossia nei fenomeni di umiliazione e di disprezzo.[4]

Simili sono dunque le istanze da cui hanno preso le mosse gli itinerari teorici di Rancière e di Honneth. Analoga è stata l’esigenza di lasciarsi alle spalle l’economicismo e il determinismo storico del marxismo dogmatico. Accostabile è infine il modo in cui, su questo percorso, entrambi hanno incontrato il tema del riconoscimento. E tuttavia, le strade che hanno seguito per dare sviluppo a queste intuizioni iniziali hanno preso direzioni molto diverse. Ed è opportuno approfondire questa divergenza, prima di entrare nel vivo del vero e proprio confronto consegnato alle pagine di Recognition or desagreement?

 

Diverse interpretazioni delle lotte per il riconoscimento

Nel suo testo della maturità - Il disaccordo - Rancière ha conservato intatta l’idea centrale, già elaborata nei suoi primi scritti: ossia che il movente originario del conflitto sociale è sempre il desiderio di emancipazione, inteso come lotta per il riconoscimento della capacità di prendere parte al dissenso. In questo testo, tuttavia, al posto della dicotomia operari/borghesi subentrano quelle di povero/ricco e di intelligenza anonima/intelligenza degli esperti. Inoltre, la categoria di oppressione borghese lascia il posto a quella di „polizia“. Il campo di problemi preso in esame del filosofo è ormai ben più ampio: l’ambizione è quella di fornire strumenti critici in grado di risalire alle logiche essenziali della politica e della democrazia. La tesi che dà avvio alla ricerca è che tutti gli accordi politici si fondano in termini fondamentali su una forma di esclusione. Fin dalla polis antica, e dalla teorizzazione filosofica della politica compiuta da Platone, l’organizzazione politica prevede una fondamentale suddivisione per parti del popolo al suo interno, che nega l’uguaglianza come principio politico. Si tratta, in altri termini, dell’ingiustizia fondamentale che deriva dall’attribuzione di principio dell’uguaglianza e della libertà al demos perché possa accedere alla polis e, al contempo, dalla determinazione di tale partecipazione come calcolo degli “aventi diritto”. Rancière denomina polizia questa logica gerarchizzante che divide il popolo tra chi ha il diritto di partecipare alla comunità politica, in quanto competente a prendere parte alla deliberazione sugli affari comuni, e chi non ha parte, è escluso, in quanto incompetente. Ma se l’organizzazione politica come forma di governo legittimo si fonda sempre sull’esclusione di qualche gruppo di persone dai principi normativi su cui vige l’accordo, è necessario partire dal disaccordo per stare veramente dalla parte della democrazia. Non si può partire dalla ricostruzione dei presupposti di una situazione ideale dall’intesa comunicativa, come aveva fatto Habermas. Solo partendo dal disaccordo è possibile giungere a una forma più esigente di universalismo, capace di corrispondere alla lotta permanente volta ad allargare le forme restrittive in cui lo stesso universalismo è ogni volta concretizzato e particolarizzato storicamente. Ecco quindi la tesi di Rancière: la vera «politica» coincide con quei momenti in cui l’ordine gerarchizzante ed escludente della «polizia» è messo in questione dagli interventi di coloro che non sono contati all’interno dei principi esistenti di legittimazione. Non contati vuol dire che non esiste un linguaggio accettato o categorie per il loro specifico modo di esistenza. Chi può farsi carico di queste rotture è la «parte dei senza parte», ossia il popolo:

Il popolo si identifica con il tutto della comunità in nome del torto arrecatogli dagli altri elementi della comunità. I senza-parte – i poveri dell’antichità, il terzo Stato o il proletariato moderno – non possono in effetti ottenere altro se non il niente o il tutto. Eppure è grazie all’esistenza di questa frazione dei senza-parte, di questo niente che è tutto, che la comunità esiste come comunità politica, ovvero come comunità divisa sulla base di un litigio fondamentale, un litigio che riguarda il calcolo delle sue parti ancor prima di riguardare i loro diritti. Il popolo non è una classe tra le altre.[5]

La rottura democratica sgorga nel momento in cui gli esseri anonimi della «parte dei senza parte» costituiscono se stessi come soggetti politici. La forza motivazionale che sta dietro questi momenti di rivolta è la lotta per vedere riconosciuta l’eguaglianza. Ricondotta a questo suo nucleo generativo originario, la democrazia non è altro che il «potere di tutti e di ciascuno»: un principio dinamico, che diventa reale nei momenti in cui viene aperta la possibilità per chiunque – per i „non esperti“, per gli „ignoranti“ - di partecipare alla discussione e di qualificare posizioni polemiche. Essa è quindi un movimento privo di origine, di archè, ma quindi anche privo di fine ultimo, di telos.

La teoria del riconoscimento di Honneth, presentata per la prima volta nel testo che uscì nello stesso anno de Il DisaccordoLotta per il riconoscimento (1995)[6] - non condivide la premessa iniziale del ragionamento di Rancière: ossia che tutti gli accordi politici si fondano in termini fondamentali su un universalismo escludente. Accettare questa premessa vorrebbe dire, come fa appunto il filosofo francese, ridurre l’ordine sociale a polizia, ossia all’effetto di dispositivi di governo gestionali, organizzativi, contabili, nonché gerarchizzanti e disciplinanti. Ma il punto è che se si analizza a fondo l’ordine sociale si scopre che, in realtà, le pratiche e le istituzioni che lo costituiscono non sono affatto solo l’effetto di dispositivi di suddivisione, di gerarchizzazione e di disciplinamento. Esse rimandano piuttosto ad un sistema morale di aspettative normative: ad una fragile struttura di progressive relazioni di riconoscimento. Se non fosse così, se cioè i differenti ambiti di azione della società non traessero la loro legittimità anche dalla promessa normativa di assicurare forme di riconoscimento reciproco, non si spiegherebbe perchè gli individui continuerebero a prendervi parte, a riprodurle e a tenerle in vita con le loro stesse azioni. Non si spiegherebbe perchè - detto con Durkheim - l’ordine sociale rimarrebbe in piedi. Non è un caso allora, per Honneth, se ciò che storicamente innesca e provoca le lotte per la trasformazione sociale sono proprio i deficit nella realizzazione dei principi di riconoscimento istituzionalizzati o le asimmetrie strutturali interne ad un sistema di riconoscimento dato. I conflitti sociali scaturiscono di regola dall’esperienza morale di quello che è considerato un disprezzo non fondato, ossia una violazione delle aspettative legittime di riconoscimento. E anche nel caso di quei conflitti rivoluzionari che puntano a far saltare un sistema di norme sociali nel suo complesso – come la rivoluzione francese o la lotta contro la schiavitù – e in cui quindi emergono nuove richieste di riconoscimento e nuovi orizzonti di aspettative morali, in questione è sempre l’obiettivo di istituzionalizzare nuovi principi normativi di riconoscimento reciproco.

La divergenza tra Honneth e Rancière non finisce tuttavia qui. Ciò che allontana il primo dal secondo è anche l’importanza che la sua teoria del riconoscimento assegna alla dimensione etica dei conflitti sociali, alla loro «grammatica morale». Si potrebbe dire che se per Rancière la vera posta in gioco dei conflitti sociali è sempre in primo luogo l’emancipazione politica, ossia la rottura dei dispositivi di governo che suddividono in parti la società, aprendo la possibilità per chiunque di partecipare alla discussione politica, per Honneth, invece, il vero criterio di misura con cui leggere e giudicare i conflitti sociali è in ultima istanza l’emancipazione etica dei soggetti, ossia la conquista delle condizioni di possibilità di una vita libera e pienamente realizzata. Anche la teoria del riconoscimento di Honneth conferisce un ruolo di primo piano alla partecipazione non coercitiva e democratica alla vita pubblica. E tuttavia, questa partecipazione è letta sempre in relazione al contributo che essa dà ai processi di formazione dell’identità personale dei soggetti. «Solo il soggetto che che ha imparato, attraverso le risposte riconosciute da parte del suo ambiente sociale, ad apparire in pubblico senza vergogna, è capace di sviluppare il potenziale per la sua personalità libera da coercizioni, e quindi di costruire un’identità personale».[7] Detto in modo più semplice: è per conquistare un buon rapporto con se stessi, per essere veramente liberi, realizzati e felici, che i soggetti si uniscono in un «noi collettivo» e – come lavoratori, come donne, come gay, come cittadini - lottano nello spazio pubblico affinchè siano rispettate e riconosciute dimensioni negate della loro identità e il significato che queste dimensioni hanno per tutta la società. In queste lotte per il riconoscimento le identità che chiedono riconoscimento prendono forma, si articolano e si trasformano anche dinamicamente, non sono affatto già date. E tuttavia, questo movimento ha sempre, in ultima istanza, un telos: quello appunto di pervenire ad un riconoscimento sociale della propria complessa identità, e per suo tramite ad una vita pienamente realizzata in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue sfaccettate dimensioni.[8]

 

Democrazia senza telos o democrazia eticamente orientata?

È possibile a questo punto entrare nel merito del vero e proprio confronto tra Honneth e Rancière. Ed è possibile anche capire su quali punti battono le critiche incrociate che i due filosofi si rivolgono nel corso della loro discussione riportata nel volume Recognition or Desagreement? Non stupisce innanzitutto che, muovendo dalla sua idea di democrazia egualitaria, Rancière prenda di mira il legame che Honneth istituisce nella sua teoria del riconoscimento tra emancipazione e autorealizzazione etica. Il punto della critica è presto detto: se si assume che l’autorealizzazione dei soggetti, ossia la loro «integrità etica», è il motore e il movente ultimo delle lotte per il riconoscimento, ci si deve far carico inevitabilmente anche di una idea teleologica della libertà dei soggetti, nonchè di una idea teleologica della relazione tra i soggetti e del movimento che permette ai soggetti e a questo tipo di relazione di tendere verso un pieno compimento. Ma proprio questi schemi teleologici sono in contraddizione con il carattere di processo aperto, strutturalmente eccedente la totalità, che è proprio della democrazia, in quanto movimento privo di archè e di telos. Ma  le lotte della «parte dei senza parte» non sono volte a vedere riconosciuta un’identità nè a vedere realizzata un’integrità etica. Al contrario, dal momento che i gruppi e gli individui sono già da sempre riconosciuti in identità determinate e gerarchicamente ordinate, i processi di soggettivazione democratica sono processi di dis-identificazione. Se le persone sono identificate in accordo a certe categorie normative e normalizzanti, è solo nei momenti di ribellione e di negazione di queste identità che essi riescono a diventare soggetti. Si dis-identificano, ossia si rendono indipendenti dalle categorie di identificazione che vigono all’interno dell’ordine politico dato e, così facendo, articolano un nuovo tipo di soggettività. L’obiettivo di queste prassi democratico-radicali è quello di riconfigurare politicamente il mondo comune, operando un continuo contrasto alla chiusura dell’ordine dato e alla privatizzazione dell’intelligenza comune. Ma ciò vuol dire, di nuovo, che dal punto di vista di una teoria radicalmente egualitaria e democratica non ci può essere alcuna teleologia, nè alcuna idea di progresso morale inteso come motore della storia. «L’eguaglianza non è un sogno del futuro, essa è piuttosto il potere che è già al lavoro nelle nostre relazioni».

Cosa risponde Honneth a queste obiezioni? Muovendo dalla sua impostazione, il teorico del riconoscimento ha buon gioco nel rilevare, nelle idee di democrazia egualitaria di Rancière, un eccesso di astrattezza, di indeterminatezza e di a-storicità. L’idea di democrazia radicale di Rancière, osserva Honneth, finisce per circoscrivere e confinare la vera politica soltanto a quei momenti eccezionali che mettono in questione l’ordine politico nella sua totalità, sospendendolo e interrompendolo. Cosa dire allora di tutte quelle lotte democratiche che sono volte a riappropriare e a reinterpretare principi normativi già istituzionalizzati? Sono lotte, queste, che proprio perché si riferiscono a principi normativi condivisi, possono utilizzare il linguaggio della prima persona plurale e possono puntare a convincere la controparte della giustificabilità di una nuova appropriazione o di una nuova interpretazione di un principio normativo già riconosciuto istituzionalmente. Del resto, se la politica fosse solo interruzione e sospensione dell’ordine normativo esistente, essa non potrebbe dare un resoconto positivo di ciò che viene contestato. Dal momento che coloro che sono esclusi non possono far uso di un linguaggio comune, orientato alla comprensione reciproca, questi non possono nemmeno usare il pronome «noi» per articolare i loro interessi o desideri. Dovendo interrompere la logica della mutua comprensione, la «parte dei senza parte» può ricorrere soltanto alla prospettiva della terza persona per nominare l’ingiustizia di essere esclusa. Al più, può utilizzare il linguaggio in termini estetici, tentando di includere nella propria azione un momento di apertura estetica del mondo, capace di incrinare l’ordine esistente del sensibile. Tutto ciò ha però una conseguenza ancora più grave: la democrazia dei «senza parte» di Rancière finisce per tagliare i ponti con il campo del sociale. Proprio per scavare un fossato radicale tra «polizia» e «politica», Rancière non ha più strumenti concettuali per distinguire chiaramente chi sono i soggetti determinati che lottano per la giustizia e quali sono i contenuti concreti e giustificabili delle loro rivendicazioni. Honneth giunge così a rovesciare l’impostazione di Rancière. In realtà, egli afferma, il processo democratico non può essere completamente privo di telos. Per essere veramente tale, esso deve essere qualificato e soggiacere ad una certa «costrizione normativa». Come si legge anche in Il diritto della libertà – dove Honneth si confronta con le teorie della democrazia che si ispirano a Claude Lefort e a Hannah Arendt - il processo democratico «è all’altezza della propria pretesa di libertà solo se, nello stesso tempo, incoraggia e rafforza le aspirazioni alla libertà che si manifestano anche nelle altre due sfere d’azione», ossia le relazioni personali e il mercato.[9] Questo punto spiega anche perché, per Honneth, il referente di una teoria critica volta a rintracciare «le opportunità per il presente della realizzazione della libertà sociale» non possono essere movimenti sociali determinati o intermittenti pratiche di democrazia radicale dal basso, con tutte le loro difficoltà, che si ripresentano ogni volta - basti pensare a questo proposito alla parabola di Occupy - a prendere forma durevole e istituzionale. Per Honneth, la libertà sociale avanza facendo leva su soggettività più astratte: «conquiste istituzionali», «modifiche legislative», consolidati «cambi di opinione» nella sfera pubblica, trasformati «in norme giuridiche vincolanti».

In un giro successivo di discussione, Rancière e Honneth rispondono ciascuno alle obiezioni dell’altro, ma di fatto non fanno che ribadire il cuore dell’irriducibile divergenza dei loro sguardi filosofici sul mondo sociale e politico: l’uno tipicamente francese, si potrebbe dire, addestrato ad una critica del sospetto nei confronti di tutto ciò che è «normativo», e volto a riportare alla luce l’intreccio irrisolvibile tra apparati istituzionali, dispositivi di potere e processi di normalizzazione, di disciplinamento e di soggettivazione; l’altro tipicamente tedesco, si potrebbe dire, animato dalla volontà di difendere e rilanciare il «progetto incompiuto della modernità» (Habermas) e le sue promesse normative di libertà ed emancipazione. Infine, nei due testi che chiudono il volume, vengono enunciate compiutamente le due diverse opzioni teoriche.

Rancière ribadisce che un pensiero critico deve insistere oggi in primo luogo sui temi dell’eguaglianza e della democrazia, o meglio di una democrazia egualitaria. Questo vuol dire accostarsi ai movimenti sociali valutando la loro capacità di produrre conflitto politico, ossia una messa in questione dei dispositivi di governo „normativi“ e normalizzanti che irregimentano e spoliticizzano lo spazio pubblico. Si tratta quindi di porsi al fianco di tutte le pratiche di democrazia radicale che, dal basso, mirano a incrinare, attraverso la presa di parola discorsiva e conflittuale degli esclusi, dei poveri e degli „ignoranti“ del nostro tempo – detto con la formula con cui lo stesso Rancière in più occasioni si è dichiarato sintonico, «la democrazia del 99 per cento» - le logiche escludenti delle istituzioni esistenti, e la loro tendenza a suddividere e a gerarchizzare in esperti e incompetenti, in tecnici e profani, in élite e in sudditi passivi il popolo.

Honneth ribadisce che una teoria critica della società deve ripartire oggi da un ideale a suo dire superiore rispetto a quello dell’eguaglianza, perchè capace di ricomprenderlo in un orizzonte normativo più ampio: l’ideale della libertà, dell’autodeterminazione individuale. Di questo ideale moderno si tratta di riportare alla luce, contro tutte le sue interpretazioni individualistiche e «negative», la sua radice intersoggettiva e sociale e la diversità delle sue diverse sfere di esercizio. Proprio ripartendo da un’idea di libertà come libertà sociale – ossia, come libertà dell’«Io» che si apprende e si accresce nelle pratiche sociali e nelle norme di un «Noi», oggettivate all’interno delle diverse istituzioni sociali - la teoria critica deve accostarsi ai movimenti sociali valutando la loro capacità di rivitalizzare quei circuiti di agire comunicativo e di reciproco riconoscimento, di solidarietà e di cooperazione sociale, che soli permettono di far comprendere come le istituzioni sociali sono qualcosa di cui portiamo in comune la responsabilità, in quanto membri di una comunità che cooperano tra loro. Circuiti, questi, che sebbene atrofizzati nelle nostre società neoliberali, si erano pur sempre fatti strada, attraverso prassi sociali e conquiste istituzionali, nell’«era socialdemocratica» (Ralf Dahrendorf).

Disaccordo o riconoscimento reciproco, dunque; rivolte democratiche della „parte dei senza parte“ – che Rancière non esita a presentare come il punto di partenza dal quale è possibile ripensare oggi anche l’ipotesi comunista - o lotta gradudale per riancorare le diverse e tra loro irriducibili sfere sociali – e in particolare il mercato - in prassi e istituzioni democratico-sociali, e con ciò per riprendere in mano il programma, e il sogno, di una trasformazione socialista della società.

Più che continuare a seguire passo passo questa discussione, può essere più interessante, giunti a questo punto, porre qualche ulteriore domanda. Nel leggere questo dialogo sorge spontaneo chiedersi infatti se l’alternativa tra «riconoscimento» e «disaccordo» è poi davvero un aut-aut ineludibile: se è possibile aspirare a un quadro teorico che riesca a tenere unite le istanze fatte valere da entrambi – per esempio l’eguaglianza e la libertà, ma anche la discontinuità „rivoluzionaria“ e la continuità „riformista“, oppure l’innovazione democratica dal basso e la riproduzione creativa delle istituzioni sociali. Ma soprattutto: c’é qualcosa che, in definitiva, rimane non tematizzato da entrambi gli interlocutori di questo confronto?

 

E la giustizia economica?

Marx, Polanyi e l’idea di una società socialista

Per rispondere a queste domande, può essere utile fare un passo indietro e tornare a un altro dibattito filosofico: quello tra lo stesso Honneth e Nancy Fraser. Se si riprende in mano questa discussione del 2003 - Redistribuzione o riconoscimento? [10] - non si farà fatica ad accorgersi che, per strano che possa sembrare, alcune critiche che Fraser muoveva al filosofo tedesco presentano notevoli analogie con quelle formulate dallo stesso Rancière. Nel corso della discussione, infatti, Fraser opponeva al monismo della teoria del riconoscimento di Honneth – ossia al suo fondarsi su un unico principio normativo, quello appunto del «reciproco riconoscimento» – un paradigma teorico incentrato su due assi normativi, analiticamente distinti e tra loro irriducibili: quello della «redistribuzione» e quello del «riconoscimento». Questi due assi della teoria della giustizia, spiegava Fraser, possono trovare un unico fondamento morale nel principio della parità partecipativa, inteso come radicalizzazione democratica dell’idea liberale dell’eguale autonomia di ciascun individuo. Una teoria della giustizia che si fonda sul principio della «parità partecipativa», argomentava Fraser, non ha bisogno di una concezione etica delle forme di partecipazione necessarie allo sviluppo umano, come quella di Honneth. Essa assume che i partecipanti la sceglieranno da sè secondo la loro moralità.

«Lungi dal voler prevedere le loro scelte, la giustizia come parità partecipativa punta ad assicurare loro la possibilità di decidere liberamente e indipendentemente dalle relazioni di controllo. Così, cerca di rimuovere gli ostacoli all’uguaglianza presenti nelle maggiori aree sociali - dalla politica al mercato del lavoro, dalla famiglia alla società civile. In questo modo, essa cerca di dare agli attori sociali la possibilità di partecipare alla pari in qualsiasi area decidano di accedere».[11]

Questo principio ammette dunque tanto la ragionevolezza del disaccordo etico quanto l’eguale valore morale dell’essere umano. In questo senso esso è compatibile con tutte le concezioni della vita buona che rispettano l’eguale autonomia. Nello stesso tempo esprime una concezione specifica di ciò che questo rispetto richiede – e in questo senso sa offrire un quadro teorico capace di risolvere casi di conflitto in cui, per esempio, le rivendicazioni per il riconoscimento delle minoranze culturali contrastano con le rivendicazioni per l’eguaglianza di genere. A veder bene, dunque, non si è molto distanti dalle posizioni di Rancière e dalla sue critiche al perfezionismo etico della teoria del riconoscimento di Honneth, e alle conseguenze teleologiche e armonicistiche – nel senso di negazione del conflitto e del pluralismo etico – che questo perfezionismo rischia di produrre sul piano politico. Conseguenze, queste, contro cui Rancière, come si è appena visto, richiama il principio della democrazia egualitaria come potere di chiunque, e l’idea di emancipazione come lotta per prendere parte alla discussione e per qualificare il dissenso.

E tuttavia, a differenza di Rancière, Fraser batteva anche su un altro punto nella sua critica a Honneth. La teorica statunitense accompagnava la sua difesa del principio della «parità partecipativa», quale fondamento di una rinnovata teoria della giustizia, con il richiamo alla necessità impellente di rimettere al centro l’analisi delle logiche sistemiche del capitalismo. La critica a Honneth precipitava infatti su una tesi fondamentale: la teoria del riconoscimento tende a trascurare un’analisi dell’ordine sociale capitalistico nella sua dimensione sistemico-relazionale, ossia – come la teorica ha chiarito anche nei suoi scritti successivi - non solo in quanto sistema economico, ma in quanto «insieme strutturato di relazioni sociali». L’ordine sociale capitalistico costituisce un insieme strutturato di relazioni sociali, in quanto esso trae la sua forza da una parte dalle logiche interne al sistema economico: la proprietà privata dei mezzi di produzione, un „libero“ mercato che costringe ciascuno a lavorare per il proprio sostentamento in condizione di strutturale asimmetria di potere decisionale, la tendenza del capitale a espandersi senza fine. Dall’altra parte, il sistema economico capitalistico trae la sua forza anche dalle relazioni di „sfruttamento“ che esso intrattiene con la sfera «esterna» della riproduzione sociale (per esempio con il lavoro non retribuito di cura delle donne), con la sfera «esterna» della natura (attraverso il saccheggio delle risorse naturali) e con la sfera «esterna» della politica (attraverso la trasformazione della politica in ancilla economiae). Si tratta ogni volta di relazioni sociali tra il sistema economico ed ambiti ad esso esterni che producono crisi sociali, le quali, quindi, non scaturiscono soltanto dalle contraddizioni dei paradigmi interni dell’economia – come voleva Marx - ma anche dalle contraddizioni tra l’economia e la società, tra l’economia e la famiglia, tra l’economia e la natura – come ha mostrato Polanyi, a cui Fraser ha dedicato diversi studi negli ultimi anni. Laddove, il compito di una teoria critica dovrebbe essere quello di ripensare la società, la politica, la relazione tra i sessi, la relazione con la natura in una dimensione nuova che non sostenga l’espansione del capitale.[12]

Sul piano di teoria sociale, il cuore della critica di Fraser a Honneth era dunque un punto invece vistosamente assente nelle critiche di Rancière: il richiamo al fatto che la caratteristica distintiva della società capitalistica è la creazione di un sistema di mercato quasi-oggettivo, anonimo e impersonale, che segue una propria logica – quella dell’accumulazione del profitto – che tende a inglobare e a sussumere le logiche degli altri ambiti sociali. Si tratta di un sistema che è culturalmente integrato ma che non è governato direttamente da schemi di valutazione: ossia che sta in piedi non solo in forza di principi normativi istituzionalizzati, come quelli del «reciproco riconoscimento» (o della «libertà sociale»), che „promettono“ a chi vi prende parte la sperimentazione e l’accrescimento di una forma specifica di libertà. Questo sistema di relazioni sta in piedi anche per logiche e dinamiche che ormai si sono autonomizzate e sembrano sfuggire al controllo di chiunque. Se si perde di vista questa dimensione sistemica del capitalismo non si può capire perché la società capitalistica comprende due ordini di subordinazione analiticamente distinti, anche se tra loro intrecciati: la stratificazione di classe, radicata principalmente nei meccanismi del sistema economico, e la gerarchia di status, basata sui modelli istituzionalizzati di valore culturale. Questi due ordini di subordinazione si intrecciano in mille forme nella società globale. Tuttavia, ciò non toglie che il principio del riconoscimento reciproco – e anche quello della libertà sociale - non può bastare da solo a coprire tutte le istanze di giustizia.

In conclusione, si sarebbe tentati di dire che un quadro teorico come quello proposto da Fraser sembra maggiormente in grado di tenere unite le istanze fatte valere da Rancière e da Honneth, sottraendosi d’altra parte ai loro deficit, per come emergono nel corso del loro confronto. Soprattutto, una prospettiva come quella di Fraser sembrerebbe capace di riportare alla luce quale è, in definitva, l’elemento mancante in entrambe le teorie. Proprio l’esigenza che entrambi hanno avvertito, fin dall’inizio dei loro itinerari teorici, di rimettere al centro della teoria critica l’analisi delle motivazioni delle lotte sociali, per superare il fossato tra teoria e prassi, ha finito per subordinare o far perdere di vista l’importanza dell’analisi di quei meccanismi anonimi e sistemici di produzione dell’ingiustizia, che passano sopra la tesi degli attori sociali.

E tuttavia, anche il quadro teorico di Fraser continua a lasciare in sospeso alcune domande: chi sono oggi gli attori e i soggetti della lotta contro il capitalismo, in quanto sistema di relazioni sociali? È verosimile pensare che la chiarificazione concettuale e l’intensificazione reale dei meccanismi di produzione di ingiustizia creati da questo sistema - come la scandalosa crescita di diseguaglianze economiche, la compressione di diritti e di garanzie sociali, l’acuirsi di crisi sociali e ambientali di carattere epocale - sia sufficiente a riaccendere le lotte per la redistribuzione economica e per l’eguaglianza deliberativa in tutte le sfere della società, anche nel mercato? Non continua a trovare conferma, oggi più che mai, il fatto che i conflitti per la giustizia economica e per la redistribuzione, nonostante l’acuirsi delle diseguaglianze, non riescono a conquistare il centro della scena politica, mentre i conflitti per il riconoscimento e per le identità, pur nel loro irrisolvibile intreccio con quelli di classe, hanno sempre maggiore presa sociale? E non è forse questa una prova indiretta della tesi di Honneth che, anche in passato, le lotte per l’eguaglianza e per la redistribuzione s’inscrivevano sempre in un orizzonte motivazionale ed etico più profondo, ossia nell’aspirazone a una forme di vita diversa, non individualistica ma comunitaria?

È alla luce di queste domande che sembra acquisire maggiore chiarezza anche l’ultimo approdo di ricerca di Honneth, consegnato al volume L’idea del socialismo. Come è stato osservato, in questo testo Honneth sembra aver compiuto una vera e propria svolta.[13] Da una critica immanente delle forme dell’eticità moderna (Hegel) è passato ad una critica normativa della società (Kant): dall’analisi storico-ricostruttiva delle realizzazioni sociali della libertà sociale nelle diverse sfere d’azione della modernità, volta a isolare punti di appoggio per future realizzazioni, è passato a delineare un progetto normativo, a tratti „utopico“ e idealizzante, di società socialista, che si appella in definitiva alle risorse morali dei singoli e dei gruppi sociali. Ci si può interrogare sui limiti di questa proposta teorica – come la difficoltà, nell’idea di società socialista di Honneth, a riconoscere il carattere inaggirabile del pluralismo etico e del conflitto politico. E tuttavia, è forse anche una consapevolezza profonda ad aver spinto il filosofo tedesco a scrivere questo suo testo sul socialismo: ossia che oggi abbiamo bisogno anche di questo, di ricominciare a immaginare l’utopia di una società diversa, e a sperare che questo possa far convergere in un progetto comune lotte diverse, e a far accendere la molla dell’impegno etico e politico, dei singoli e dei gruppi, per praticare forme di vita solidali e cooperative e, a partire da qui, per lottare per una società più giusta e più umana.


Note
[1] A. Honneth, Il Diritto della Libertà. Lineamenti per un’eticità democratica, trad. it. di C. Sandrelli, Codice Edizioni, Torino 2015; Id., L’idea di socialismo. Un sogno necessario (2015), trad. it. di M. Solinas, Feltrinelli, Milano, 2016.
[2] J. Rancière, A. Honneth, Recongnition or Disagreement. A Critical Encounter on the Politics of Freedom, Equality, and Identity, ed. By K. Genel and J.-P. Deranty, Columbia University Press, New York 2016.
[3] A. Faure e J. Rancière, La parole ouvrière, Paris, La Fabrique Éditions, 2007, p. 9. Cfr. anche J. Rancière, Heretical Knowledge and the Emancipation of the Poor, in Staging The People. The Proletarian and His Double, Verso, London 2011, pp. 34-57.
[4] Su questa prima fase dell’itinerario di ricerca di Honneth cfr. A. Honneth, Riconoscimento e conflitto di classe. Scritti 1979 – 1989, a cura di E. Piromalli, Mimesis, Milano-Udine 2011.  
[5] J. Rancière, Il disaccordo, trad. it. di B. Magni, Meltemi, Roma 2007, pp. 30-31.
[6] A. Honneth, Lotta per il riconoscimento, trad. it. C. Sandrelli, Il Saggiatore, Milano 2002.
[7] N. Fraser, A. Honneth, cit., p. 213.
[8] In Il diritto della libertà, Honneth ha ribattezzato questa autorealizzazione che noi acquisiamo solo nella relazione con gli altri, «libertà sociale», distinguendola da due altre forme - deficitarie - di libertà: la libertà «negativa» e la libertà «riflessiva». Per potere essere attinta, egli ha spiegato, la libertà sociale necessita di istituzioni, capaci di formare modelli di coordinamento delle azioni, che armonizzino gli scopi degli uni con quelli degli altri, facendo riconoscere nella realizzazione degli scopi dell’altro il completamento necessario alla realizzazione dei propri scopi. Una «ricostruzione normativa» può mostrare come nello sviluppo storico delle singole sfere differenziate della società moderna - nelle relazioni personali, nell’agire economico, nella formazione democratica della volontà - si sia già prodotta una realizzazione sociale parziale delle concezioni istituzionalizzate della libertà sociale. Ciò è avvenuto per esempio nei processi di democratizzazione delle relazioni familiari e di coppia, nei riconoscimenti sociali e giuridici del ruolo e della dignità dei lavoratori all’interno del mercato del lavoro capitalistico, nelle forme di partecipazione delle democrazia di massa della seconda meta del Novecento. Tutti movimenti, questi, che oggi registrano una battuta d’arresto o una vera e propria regressione e che tuttavia continuano ad indicare la direzione verso cui devono muoversi le lotte sociali, per vedere riconosciuta realmente quella libertà sociale, che costituisce anche il principio guida del socialismo.
[9] «La partecipazione dei membri della società alla formazione della volontà pubblica è tanto più paritaria, spontanea e consapevole quanto più è avanzata la realizzazione della libertà sociale nelle relazioni personali e nei rapporti economici. Perciò coloro che nel ruolo di cittadine e di cittadini si confrontano e cercano di accordarsi sul bene della loro comunità non sono indifferenti rispetto ai rapporti sociali in queste sfere; essi soggiacciono anzi al peculiare obbligo, generato dalle norme autoriferite del processo democratico, a prender posizione su tutto ciò che, entro tali sfere, nei vari momenti storici, contrasta la concreta attuazione del principio istituzionalizzato della libertà». A. Honneth, Il diritto della libertà, cit., p. 477.
[10] N. Fraser, A. Honneth, Redistribuzione o riconoscimento?, trad. it. E. Morelli e M. Bocchiola, Meltemi, Roma 2003, p. 233.
[11] N. Fraser, Redistribuzione o riconoscimento?, cit., p.  276.
[12] Cfr. N. Fraser, Che cosa significa essere marxisti oggi?, in conversazione con G. Origgi, „Micromega“, 1/2016, p. 171.
[13] Cfr. L. Cortella, La via normativa al socialismohttp://ilrasoiodioccam-micromega.blogaut...

Add comment

Submit