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materialismostorico

Un parricidio compiuto

recensione di Carla Maria Fabiani

Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1-2/2016, dal titolo "Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 347-354. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/617

Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.

klimt117Roberto Finelli: Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014, pp. 404, ISBN 978-88-1641-286-6.

Il libro di Roberto Finelli, a dieci anni di distanza, completa e conclude Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Bollati Boringhieri, Torino 2004), recentemente tradotto per Brill1 e finalista al Deutscher Memorial Prize 20162. I due testi non possono essere letti isolatamente, se non altro perché il secondo si configura come il naturale traguardo teorico preparato dal primo, attraverso una revisione del fallimento a cui Marx perviene – già nel 1843 con la Critica del diritto statuale hegeliano3 – nel suo tentativo di critica alla logica e alla filosofia politica hegeliana.

Nel primo testo veniva esaltata l’originalità e la superiorità teorica del Geist hegeliano di contro l’antropologia giovanil-marxiana, tutta improntata sul modulo feuerbachiano del genere umano e dell’alienazione, ovvero del rovesciamento soggetto/predicato. Un’antropologia fusionale e presupposta al concreto sviluppo storicamente determinato dei rapporti sociali fra gli uomini. Finelli al proposito parlava addirittura di «regressione antropologica» rispetto allo spirito hegeliano che – lungi dall’indicare una dimensione di trascendenza ovvero metafisica – è il risultato di un preciso processo storico culturale di mediazione fra bisogni materiali e bisogni di riconoscimento; fra produzione materiale e produzione simbolica; fattori calati entrambi a pieno titolo nella modernità, un’età fatta di scissioni, contraddizioni, aporie, per le quali Hegel propone una sua soluzione complessa, sistemica, innanzitutto fondata kantianamente su un’idea di libertà e di emancipazione, che tenga conto del diritto insindacabile dell’individualità, da coniugarsi però con quello dell’universalità, prioritariamente sul piano etico-politico. D’altronde, quale altro potrebbe essere il senso complessivo della Fenomenologia dello spirito del 1807?

«La tesi di fondo della mia ricostruzione [propone] una lettura del rapporto tra Hegel e il primo Marx segnata da una permanente e strutturale subalternità del giovane intellettuale rivoluzionario al grande filosofo di Stoccarda. [...] la sostanza di quel nesso tra Hegel e il primo Marx si risolverà sostanzialmente in un atto mancato, in un parricidio mancato, e nel confronto asimmetrico tra due antropologie».

Comprendere i forti limiti dell’antropologia del primo Marx, comprendere le potenzialità dell’antropologia hegeliana, nonché i difetti dello speculativo, comprendere, infine, il senso di una necessaria riattualizzazione della marxiana critica dell’economia politica, sono tutti insieme i compiti teorici che il testo di Finelli si propone di portare a termine, riuscendo per altro brillantemente nell’intento.

L’Autore a tal proposito insiste sulla circolarità logica del Geist di contro all’immediatezza ingenua e falsamente materialistica della Gattung. L’incrocio di una dimensione verticale con una dimensione orizzontale costituisce propriamente il Geist, la soggettività fenomenologica hegeliana, che si identifica con sé nel modo o nella forma di un attraversamento interno ed esterno dell’alterità. La soggettività è un processo di autoidentificazione, che si presuppone come già dato in una dimensione unilaterale della realtà, la quale, invece, ne comprende anche un’altra ad essa complementare. E così il ciclo, almeno momentaneamente si chiude. Paradigmatico al proposito il male e il suo perdono, il riconoscimento finale del sesto capitolo della Fenomenologia dello spirito messo in scena da Hegel, che andrebbe a completare il mancato e premoderno riconoscimento servo/padrone dell’autocoscienza. Questo punto della filosofia di Hegel -cioè il Soggetto come Geist -è il lascito più prezioso e originale che abbiamo ereditato dal filosofo di Stoccarda. E che non può in ogni caso essere ignorato da chi voglia riflettere sulla nozione e sul tema del soggetto.

In altri termini, Hegel ha visto bene che la soggettività si presuppone come tale, ponendosi negativamente nei riguardi di quell’alterità che le è invece consustanziale e immanente. Tuttavia, Finelli sottolinea che nello speculativo – soprattutto nella Scienza della logica – la negazione, e insieme ad essa la contraddizione, viene a ricevere un’accezione solo linguistica, trascurando al contrario la potenza psichica del negativo, cioè la potenza della rimozione. «È in questa sovradeterminazione della contraddizione, tra logica e antropologia», dice, «che sta dunque il lato più debole della filosofia di Hegel. [...] Le difficoltà del giovane Hegel di trovare risposte soddisfacenti in una dinamica pratica alla sua esigenza di radicalizzazione della libertà moderna lo obbligano a una risoluzione a dominanza teorica».

Sulla base di questo snodo teoretico – il rapporto Geist e menschliche Gattung – si gioca tutto il confronto storico filosofico fra Hegel e il giovane Marx, attraverso l’analisi critica e per certi versi spietata di tutti quei sofferti passaggi che manifestano una mal sopportata sudditanza del giovane Moro nei confronti di Hegel.

Nel secondo testo – Un parricidio compiuto – la posta in gioco si fa più alta, anche perché Finelli si propone di scardinare ulteriormente la coppia Feuerbach-Marx, al fine di restituire un rapporto Hegel-Marx assolutamente inedito nella letteratura critica hegelo-marxista novecentesca. Passando dalla supremazia della contraddizione – quale cifra inconfondibile della dialettica hegeliana – alla supremazia dell’astrazione, sulla quale il Marx del Capitale avrebbe poi superato il maestro. Si tratta inoltre di sferrare un colpo decisivo al cosiddetto postmoderno, che in sostanza rinunciando a Hegel, per dirla con Ricoeur, avrebbe rinunciato – coinvolgendo paradossalmente anche quello che Finelli chiama il marxismo senza capitale – al Marx maturo ovvero al Marx della critica dell’economia politica.

Il percorso però, se interpretiamo bene, non vuole essere lineare e nemmeno definitivo. Finelli intende far emergere i forti limiti dell’antropologia marxiana (giovanile ma anche della maturità), le grandi potenzialità dell’antropologia hegeliana, a sua volta non sempre scevra da arretramenti storici o forzature logiche, per poi ritornare su Marx, sul Marx del Capitale, con l’obiettivo di rintracciare fra le righe e nelle trame inconsce di quel testo incompiuto, la possibilità per la teoria marxista di rifondare un rinnovato paradigma antropologico, postliberale e postcomunista4.

L’Autore si rivolge poi, per complicare ulteriormente il quadro, a una antropologia che, insieme alla coppia Hegel-Marx, faccia tesoro del fattore Freud, ovvero proprio della psicoanalisi freudiana, in quanto portatrice di una forma di riconoscimento individuale – il riconoscimento pulsionale, del corpo, prelinguistico, extralinguistico – non presente in Hegel, piuttosto riconducibile alle riflessioni di Spinoza.

Procediamo allora per tappe, semplificando di molto l’argomentazione di Finelli e cercando al fine di rintracciare l’esito propositivo della sua lunga analisi critica.

Innanzitutto, il rapporto con Feuerbach non appartiene solo al Marx giovane ma si protrae, creando seri danni, anche all’altezza della concezione materialistica della storia. «Malgrado l’abbandono esplicito e dichiarato di ogni presupposizione onto-antropologica del Gattungswesen, è pur vero […] che tutta la filosofia della storia che Marx costruisce […] attraverso l’iterazione della sola categoria della “divisione del lavoro” continua ad essere manifestamente concepita secondo la metafisica feuerbachiana di soggetto e predicato». Viene cioè da Marx presupposta tutta la compiutezza generico-collettivistica dell’homo faber che, tramite l’automatismo della separazione fra prassi materiale e produzione ideologica, ulteriormente radicalizzata poi nella dicotomia fra struttura e sovrastruttura, forze produttive e rapporti di produzione, genera al dunque una indebita alienazione e perdita di sé, da parte della soggettività fabbrile, proprio nel predicato dei rapporti di proprietà/produzione, i quali, autonomizzandosi dal soggetto autentico e incaricato a fare la storia, ostacolano e contraddicono il suo naturale sviluppo verso il meglio e l’universale.

Tale principio generico di stampo feuerbachiano consegnerà «all’immaginario della futura politica comunista e operaia il mito ingannevole […] di un comporsi facile delle condizioni di vita e delle forme di coscienza delle classi lavoratrici nell’unità di una soggettività collettiva e solidale». Genere, homo faber e proletariato moderno, nel loro intrinseco carattere solidale collettivo e comunitario, realizzano materialmente lo sviluppo inarrestabile delle forze produttive, che dovrà portare al comunismo, come superamento rivoluzionario degli ostacoli rappresentati dai vecchi rapporti capitalistici e privatistici di proprietà.

È il regno della libertà che pur sempre proviene e si costruisce a partire dal regno della necessità. Ma, secondo Finelli, saremmo con ciò di fronte più che a una filosofia della storia, a una mitologia dai tratti nemmeno troppo originali, con l’aggravante che, tale assunzione originaria e mitologica di una identità senza tensioni e differenze interiori, viene poi trasferita da Marx al proletariato come classe dell’emancipazione universale, proprio in quanto esclusa dalla proprietà privata e con ciò capace di identificarsi senza residui con l’intera umanità. D’altra parte, il materialismo storico si confuta da sé, in quanto teoria volta alla svalorizzazione assoluta del teorico a favore del pratico: «il che significa che il marxismo, nel momento in cui ha preteso, come materialismo storico, di affermare la legge del conoscere come un’astrazione dall’agire lavorativo, si è costituito contraddittoriamente come un’eccezione della legge stessa».

Per arrivare però a quel «parricidio compiuto» che Marx opera finalmente nei confronti di Hegel, e che segna l’uscita dallo stato di minorità nel quale il Moro si trova fin da giovane e in parte anche negli anni Cinquanta e oltre, occorre focalizzare il concetto chiave di forza-lavoro e di lavoro astratto. Entrambe le categorie, fra loro evidentemente connesse, originano non da una presupposizione metastorica che si erge a principio di spiegazione nonché principio di trasformazione della realtà storica, ma proprio dal processo storico sociale che caratterizza il moderno:

«Nella modernità il sistema forza lavoro-macchina produce quella particolare forma del lavoratore che consiste nel lavoro astratto [dove] astrazione qui è sinonimo di un lavoro del tutto normato e normalizzato […] eliminazione di ogni forma artigianale del lavorare; superamento, nella tecnologia della grande industria […], dell’organizzazione […] immediatamente precedente».

Già a partire dai Grundrisse Marx mette in campo un concetto di lavoro che abbandona l’impianto teorico dell’Ideologia tedesca insieme alla troppo semplice e ormai inservibile categoria della divisione del lavoro di stampo hegelo-smithiano, che ha il torto di restituire una concezione assai ingenua del divenire storico, del progresso e della macchina in quanto strumento. È ora il sistema macchina-forza lavoro a costituire la cellula fondamentale della società moderna e il luogo massimo di produzione del lavoro in quanto astrazione reale. «Qui astrazione significa propriamente, non negazione di un’essenza universale dell’essere umano, con la rinuncia alle sue capacità universalgeneriche, bensì, all’opposto, cancellazione di ogni carattere individuale e personalizzato dell’agire. […] Ossia astrazione, più specificamente, significa, insieme, svuotamento dell’interiore e sovradeterminazione dell’esteriore». Questa è di fatto l’astrazione reale posta e scoperta da Marx come nucleo fondativo del Capitale, come principio della produzione capitalistica capace di svuotare la pratica umana del lavoro da ogni concretezza determinata e, al tempo stesso, in grado di occultare questo stesso processo storico-sociale con la superficie delle invarianti dell’agire naturalistico.

Il passaggio assai delicato intrapreso da Marx a questo punto, in modo per altro non sempre lucido e definitivo, si compie in virtù del fatto che viene accolta pienamente la concezione hegeliana della scienza come circolo del presupposto-posto, secondo cui il farsi della realtà-verità risponde al movimento dialettico messo in atto dal soggetto autocosciente, in grado di interiorizzare progressivamente l’alterità ovvero di negare se stesso nonché l’iniziale immediata e perciò fallace identificazione con sé, concepita libera da interferenze. La realtà, che viene posta come risultato del processo di interiorizzazione/alterazione dell’identità, risulta perciò riprodotta ad un livello di maggiore complessità e relazionalità.

Tuttavia, il Marx del Capitale mette in campo categorie dialettiche radicalmente distanti da quelle del maestro: se per Hegel la contraddizione tramite negazione avviene a partire dalla frattura logico-metafisica Essere/Nulla, che va via via ricomponendosi e mediandosi; per Marx la scissura originaria della realtà si consuma attraverso la contrapposizione fra Concreto e Astratto, a partire dalla ambivalenza oppositiva fra valore d’uso e valore di scambio, presente nella merce come cellula semplice della moderna società borghese. Il mondo economico moderno esibisce un dualismo strutturale, non componibile: da una parte; il mondo variopinto di cose ed esseri umani con i loro multiformi bisogni soddisfatti tramite prassi relazionale storicamente e culturalmente differenziata e articolata, volta alla produzione di oggettività utile alla soddisfazione del bisogno concreto; dall’altra, una dimensione astratta fatta di mera ricchezza quantitativa, il cui movimento di espansione ed accumulazione viene posto in essere da una prassi umana altrettanto impersonale ed astratta.

«È qui dunque che si compie, nel suo luogo più proprio, il parricidio del Marx della maturità nei confronti di Hegel e del suo sistema filosofico. Non nel suo rifiuto radicale […]. Bensì nell’accoglimento, senza residuo alcuno, del modello di scienza e di metodo conoscitivo che Hegel ha elaborato […]. Così il circolo del presupposto-posto in Marx è analogo e, insieme, profondamente diverso da quello hegeliano».

Ciò che fa la differenza è di fatto la sostituzione della categoria della negazione con quella dell’astrazione reale. Se la negazione dà vita a una dimensione ontologica articolata fondamentalmente sulla contraddizione; l’astrazione organizza il reale secondo il modo dello svuotamento dell’interno e della sovradeterminazione della superficie. L’astrazione reale del capitale – produzione allargata di ricchezza astratta e impersonale – colonizza il concreto dall’interno, omologandolo e assimilandolo alle sue leggi; lasciandone con ciò al tempo stesso solo la figura estrinseca e residuale, la silhouette più superficiale, che rimane paradossalmente l’unico campo concreto, tangibile e visibile dell’esperire umano. Tutta la produzione e accumulazione di ricchezza astratta del capitale e il rapporto di dominio che si instaura a livello produttivo, viene messa in scena attraverso un operare di esseri umani, di tecnica e di forze naturali concrete, dietro le quali si nasconde e si dissimula quell’astratto, il soggetto non antropomorfo del moderno, che produce e riproduce se stesso riproducendo tutti i propri presupposti di dominio, di sfruttamento della forza-lavoro e svuotamento del concreto, ma restituendo di sé l’immagine variopinta e concreta del mondo libero interdipendente ed eguale della circolazione di merci e di uomini.

Secondo Finelli, la critica dell’economia politica marxiana ci restituisce, come una sorta di «memoria del futuro», ciò che dagli anni Ottanta del Novecento ai nostri giorni si è realizzato in termini di rivoluzione nelle innovazioni tecnologiche e nello sviluppo produttivo, ovvero in una parola il passaggio dal fordismo al postfordismo: «Insomma un transito epocale dal materiale all’immateriale, simboleggiato dal computer e dal fatto che la conoscenza sarebbe divenuta la principale forza produttiva di creazione della ricchezza. Tanto da potersi definire tale genere di società postindustriale, che avrebbe conclusa quella moderna per dar vita a una nuova formazione storicosociale, la società appunto del postmoderno».

In tale rivoluzione tecnologica si nasconde proprio l’effetto deformante essenza/apparenza, contenuto/contenitore, descritto sopra, per il quale il nuovo lavoratore, predisposto mentalmente a interiorizzare il comando della macchina, senza che appaia traccia di costrizione esterna, si confronta con un apparato tecnico la cui natura linguistica ne fa per definizione un’alterità dialogica, collaborativa, addirittura fonte di creatività. A questo punto, l’ideologia del postmoderno, sintetizzabile nella formula «L’Essere è linguaggio», secondo cui non c’è pressoché nulla di oggettivamente vero né di pensabile in via sistematica, viceversa tutto è segno interpretabile attraverso segni, si adatta perfettamente al postfordismo – così come nelle celeberrime pagine della Fenomenologia dello spirito il linguaggio della disgregatezza si adeguava perfettamente al mondo liberale della ricchezza – in quanto specificamente prodotto sulla base di quella rinnovata modalità produttiva che, oltre alla materialità delle merci, è in grado di generare direttamente anche il simbolico.

Ed è proprio a quest’altezza della sua lunga e articolata riflessione che Finelli introduce il fattore Freud. Cioè introduce il tema della rimozione del corporeo, del pulsionale, dell’individuale irripetibile, che è stata condotta a termine proprio da questa modalità produttiva. L’eclissi del corpo, l’anaffettività, la rimozione della dimensione emotiva: tutti fattori che caratterizzano quello che Finelli ritiene ormai definibile come l’età dell’ipermoderno: «Nella nostra ipotesi, un nuovo materialismo non potrà che ripartire da qui: dal riconoscere il corpo all’origine di ogni operazione pensante e dunque dalla natura una e bina dell’essere umano, dove l’Uno è il Corpo e Bina è la Mente, in quanto psichicità che deve, possibilmente, provvedere a prendersi cura, e a elaborarli per poterli soddisfare, i bisogni della fisicità».

Al di là dell’evidente declino tutt’ora in atto della metafisica destrutturalista postmoderna, la filosofia dovrebbe ripartire dalla specificità irripetibile dell’animale/uomo, cioè dall’ambivalenza mai sintetizzabile in via definitiva fra mentale e corporeo, ovvero fra asse verticale dell’individuazione e asse orizzontale della socializzazione. Il progetto decisamente utopico di rifondazione di un nuovo materialismo antropologico, che Finelli mette in campo, dovrebbe pertanto fare tesoro di una concezione emancipatrice e liberatoria fondata innanzitutto sulla valorizzazione della radice corporea ed emozionale dell’individualità, lasciando poi cadere, come ormai inservibile, il marxismo della contraddizione e recuperando invece il marxismo dell’astrazione.

Il paradigma del riconoscimento di stampo hegeliano insieme alla psicoanalisi di stampo freudiano vengono fatti interagire al fine di fondare una «prassi a doppia uscita», laddove il lavoro destinato a produrre l’oggetto includerebbe il lavoro volto a riconoscere il mondo-ambiente, nonché l’intero genere umano, come fonti e limiti al tempo stesso di una soggettività sottratta alla manipolazione di sé e dell’altro. L’obiettivo teorico più generale, tutto da costruire beninteso, sarebbe allora quello di coniugare felicemente «il materialismo dell’economia libidica con il materialismo della critica dell’economia politica, emendata però da ogni filosofia e metafisica della storia».

Il testo di Finelli, in conclusione, potrebbe essere interpretato come un rilancio di stampo decisamente hegeliano di quella dimensione soggettiva del Geist che, lungi dall’essere il luogo dell’arbitrio individuale, del singolo ut sic, espone tutto il dualismo e l’ambivalenza, anche aporetica, nella quale viene a trovarsi la natura dell’uomo, il Proteo che sempre si trasforma. In questo senso, la coppia con Freud non può che essere d’obbligo. D’altra parte, Finelli tradisce Hegel, ossia esattamente l’intento sistematico della filosofia hegeliana, per la quale la dimensione soggettiva non può essere scissa da quella oggettiva del diritto, della morale e della politica. La filosofia appunto configurandosi come lo sguardo sintetico superiore che deve abbracciare entrambe.

Anche con il Moro di Treviri, ma ancora di più con il «marxismo senza capitale», Finelli sembra fare i conti in via quasi definitiva. Da rifiutare è certamente a suo avviso l’idea di prassi fondata sulla contraddizione/lotta di classe. Sarebbe quest’ultima una metafisica o una ingenua filosofia della storia, che non si avvede del fatto che il soggetto della modernità, il soggetto che fa la storia, non è esattamente e propriamente un soggetto (una classe, un ceto, un gruppo di potere, lo Stato, ecc.), ma un oggetto, ovvero nient’altro che una cosa: das Kapital.

Il rilievo critico, quello che sorge spontaneo al lettore interessato e catturato dalla disamina assai articolata offertaci dal testo, è la problematicità dell’esito cui giunge Finelli. La proposta di un materialismo rinnovato dalle fondamenta, che abbia forza pratica oltre che teorica, si prospetta in termini utopici, senza però che vi sia l’individuazione di una soggettività, qui ed ora, in grado di sopportare la fatica, tutta da misurare, di costruire un futuro di liberazione, che appare oggi assai sfumato, di là da venire, sfuggente e indeterminato.


Note
R. Finelli, A failed parricide. Hegel and the young Marx, Brill, London 2016.
2 Cfr. http://www.versobooks.com/blogs/2736-2016-deutscher-prize-shortlistannounced.
3 K. Marx, Critica del diritto statuale hegeliano, trad. e comm. di R. Finelli e F.S. Trincia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983.
4 Cfr. “Una libertà post-liberale e post-comunista”, in: R. Finelli, Tra moderno e postmoderno, PensaMultimedia, Lecce 2005, pp. 319-345; cfr. la recensione in “Dialettica e Filosofia”, http://www.dialetticaefilosofia.it/scheda-dialetticasaggi.asp?id=37].

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