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espresso

Derivati, nel 2016 il Tesoro perderà altri 5 miliardi

di Luca Piana

Il ministro Padoan risponde a un'interrogazione dei 5 Stelle. E si scopre che le perdite dello Stato sui prodotti ad alto rischio crescono sempre più. Vanificando gli effetti positivi sui conti del "quantitative easing" della Bce

image18Come se non ci fosse Mario Draghi. Come se la Banca centrale europea (Bce) non avesse mai lanciato il  “quantitative easing”, la massiccia manovra di sostegno all’economia dei Paesi dell’Eurozona. Come se i tassi d’interesse sul debito pubblico non fossero da tempo crollati in prossimità dello zero. È questo l’effetto paradossale che il Tesoro è costretto ad affrontare negli ultimi mesi a causa dei cosiddetti derivati sottoscritti negli anni passati con le banche internazionali, i cui contratti sono tenuti sotto stretto riserbo. In poche parole: mentre il debito pubblico costa allo Stato sempre meno in termini d’interessi, grazie agli interventi effettuati dalla Bce di Draghi, i derivati si stanno mangiando per intero o quasi i risparmi che ne dovrebbero venire, costringendo il Tesoro a un esborso crescente.

L’amara verità emerge dalla risposta che il ministero dell’Economia ha fornito il 22 dicembre a un’interrogazione presentata dal Movimento 5 Stelle. Nel documento gli uffici di Pier Carlo Padoan hanno messo per la prima volta nero su bianco alcune cifre destinate a far discutere. Hanno reso noto che nel 2015 i derivati sono costati al Tesoro un flusso negativo in termini di interessi di 3,6 miliardi. E hanno aggiunto che nel 2016 la spesa è prevista salire a 4,1 miliardi.

Quello appena iniziato, dunque, rischia di essere un anno durissimo su questo fronte della spesa pubblica. In una precedente interrogazione, Padoan aveva infatti rivelato che, su uno dei vari derivati, esistono clausole che entro il prossimo marzo daranno alla banca che l’ha sottoscritto la possibilità di chiuderlo, facendosi liquidare dal Tesoro una cifra stimabile oggi in 849 milioni.

Sommando quest’ultima voce agli altri 4,1 miliardi di interessi “normali”, dunque, nel 2016 il costo dei derivati per lo Stato rischia di sfiorare i 5 miliardi di euro.

Si tratta di numeri pesanti. Che, di fatto, vanificano buona parte dell’effetto sui conti pubblici delle misure d’emergenza della Bce. Stando ai dati Istat, da gennaio a settembre lo Stato ha speso in interessi sul debito pubblico 51,9 miliardi, rispetto ai 55,3 miliardi del 2014. Se la discesa fosse proseguita a velocità analoga fino al termine del 2015, ne verrebbe un “tesoretto” di 5,6 miliardi, di cui Padoan e il governo Renzi non possono però godere appieno. Proprio perché il costo dei derivati, strumenti che impegnano le parti a scambiarsi flussi di pagamenti che variano a seconda di come muta il mercato, sta aumentando sempre più.

 

Ruocco (M5S): il Tesoro perde sempre

«Le cifre fornite dal Tesoro confermano la nostra analisi: i derivati sono stati un affare cattivo per lo Stato e ottimo per le banche», dice Carla Ruocco, che fa parte del gruppo di deputati dei Cinque Stelle che hanno firmato le interrogazioni. Che annuncia: «Non ci fermeremo: continueremo a fare domande per capire gli aspetti che restano aperti. Perché i dati forniti, interrogazione dopo interrogazione, mostrano che con i derivati c’è qualcuno che ha sempre perso, ed è il Tesoro».

Nelle risposte arrivate il 22 dicembre dagli uffici di Padoan, in effetti, ci sono vari punti che suscitano interrogativi. Il più critico riguarda i derivati che il Tesoro chiama “di duration” e sui quali si stimano perdite per circa 33 miliardi. «Emerge sempre più che questi derivati non hanno prodotto alcun beneficio se non un impercettibile allungamento della scadenza media del debito pubblico, pari ad appena 84 giorni. Un risultato che però costa allo Stato 33 miliardi, 400 milioni per ogni giorno di allungamento, quando sarebbe bastato semplicemente emettere Btp a scadenza più lunga», dice Nicola Benini, partner della società di consulenza indipendente Ifa Consulting, a cui “l’Espresso” ha chiesto di analizzare le novità venute alla luce nell’interrogazione.

 

Perduti 520 mil su uno swap da 2 mld

Un punto molto interessante riguarda due contratti chiamati “Interest rate swap” (Irs), su cui il Tesoro aveva fornito i primi elementi in una precedente interrogazione. Uno swap di questo genere è un derivato in cui, sulla base di un valore di base chiamato nozionale, il Tesoro si impegna a pagare alla banca una rata semestrale calcolata in base a un tasso fisso (tipo il 3,5 per cento), mentre la banca si impegna a versare una rata che varia in base ai tassi di mercato (ad esempio pari all'Euribor). Se l'Euribor è pari al 3,5 per cento, si fa pari e patta; se sta sotto ci guadagna la banca; se sta sopra il Tesoro. Ebbene, in una risposta a un'interrogazione di fine ottobre presentata sempre dai deputati Cinque Stelle, il ministero aveva reso noto che nel 2005 erano giunti al termine due contratti Irs con un valore nozionale di 2 miliardi di euro complessivi, su cui nell'ultimo semestre era stata pagata alla banca controparte una rata - sempre complessiva - di 91,8 milioni.

Nella nuova interrogazione, gli uffici di Padoan hanno aggiunto un nuovo dettaglio: in tutta la loro vita, dal 2005 a oggi, quei due contratti hanno generato in totale un esborso di ben 520 milioni di euro. E ancora, al momento della sottoscrizione, il Tesoro non aveva incassato alcun “upfront”, come si chiama in gergo. L'upfront è una specie di commissione iniziale che serve per compensare un derivato molto sbilanciato in favore di una delle due controparti, che versa subito all'altra una cifra che serve a rendere più equilibrato il contratto. Può essere considerato un po' come il premio che un cliente paga all'assicurazione, che in cambio si accolla il rischio di rimborsare i danni futuri, se questi si verificheranno. Ebbene, a fronte di un esborso così elevato (520 milioni), il Tesoro non ha incassato alcun upfront iniziale: il derivato era sbagliato fin dalla partenza? «Se nessun upfront è stato liquidato, come si afferma nella risposta dell'interrogazione, molto probabilmente ci deve essere stata una - o più - revisioni del contratto. Perché grazie alle nuove informazioni fornite dal Tesoro, si può senz'altro ribadire che quel contratto appariva sbilanciato fin dall'inizio, a sfavore del Tesoro», dice Benini.

 

Probabilità di guadagnarci sotto il 10%

Un altro punto interessante riguarda il fatto che Maria Cannata, responsabile dell'ufficio debito pubblico del Tesoro, ha sempre attribuito ai derivati sottoscritti dal suo ufficio l'obiettivo di tutelare lo Stato da un aumento dei tassi d'interesse sul debito pubblico, allungandone anche la durata finanziaria. Ma sulla base delle nuove informazioni ottenute, si può pensare che, se i tassi d'interesse fossero saliti, ci sarebbero stati dei veri vantaggi per le casse pubbliche? «Senza dubbio una minore discesa dei tassi o addirittura un loro rialzo avrebbero comportato minori perdite, ma ai fini delle ragioni “dichiarate” che hanno indotto alla sottoscrizione dei quei contratti, ovvero l’allungamento della “duration” (come vengono chiamate le scadenze per il rimborso del debito e per il pagamento degli interessi, ndr), ci sarebbe stato un aumento solo marginale o ininfluente della medesima», calcola l'esperto di Ifa Consulting. Secondo il quale «è importante osservare che il Tesoro avrebbe ottenuto “utili” solo al superamento di una soglia molto più elevata rispetto ai tassi di mercato vigenti all’epoca e quindi con una probabilità ben inferiore al 50 per cento. Non disponendo del contratto è difficile essere precisi, ma una stima ragionevole di prima approssimazione – sulla base delle risposte fornite nell'interrogazione - è che i tassi avrebbero dovuto posizionarsi mediamente intorno ai 260-270 punti base rispetto a quello che viene chiamato “il tasso swap equo di mercato alla stipula”. In altre parole i tassi d'interesse avrebbero dovuto superare la soglia del 6-7 per cento circa, evento la cui probabilità all’epoca girava sotto il 10 per cento».

Ecco dunque spiegato il ragionamento accennato all'inizio da Benini, sul fatto che l'allungamento della durata del debito pubblico di 84 giorni ci sta costando una valanga di quattrini, mentre si sarebbe potuto ottenere lo stesso obiettivo senza costi aggiuntivi semplicemente emettendo Btp con scadenze più prolungate nel tempo. Sono dunque sprecati, i 33 miliardi di perdite calcolabili sugli Irs “di duration”? «Sono francamente uno sproposito. Un allungamento della duration poteva essere fatto, senza costi e di valore ben più significativo (almeno 6 mesi-1 anno) semplicemente ottimizzando il programma delle emissioni sul mercato primario (cioè con i Bpt di nuova emissione, ndr) in termini di scadenze e volumi».

Perdite miliardarie, contratti difficili da motivare, un costo che cresce nel tempo e che annulla gli effetti del “quantitative easing” di Draghi: l'impressione è che, sul fronte dei derivati di Stato, restino tanti misteri ancora da chiarire.

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