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lafionda

La questione Taiwan, all’inizio del 2024

di Alberto Bradanini

Taiwan2024.jpgIn un incontro dell’American Enterprise Institute tenutosi il 2 novembre 2021 in Florida – alla presenza di personalità politiche del fronte trumpista, tra cui H. Brands, D. Blumenthal, G. Schmitt, M. Mazza, J. Bolton e altri – la destra repubblicana era giunta alla conclusione che la strategia cinese di riassorbimento dell’isola non ha nulla di eccentrico o ideologico. Persino un immaginario governo amico degli Stati Uniti metterebbe in cima all’agenda politica il recupero di Taiwan, territorio storicamente cinese, che però si scontra con la maggioranza dei taiwanesi, per ora contraria.

Per la dirigenza del paese, ça va sans dire, la via preferibile dovrebbe essere quella pacifica, consapevole che un ipotetico conflitto con Taiwan avrebbe pesanti riflessi sulla stabilità e la crescita economica, senza contare che le forze armate di Taipei (a prescindere dal possibile intervento americano) renderebbero assai costosa sotto ogni punto di vista un’ipotetica invasione dell’isola.

Le elezioni presidenziali tenutesi a Taiwan il 13 gennaio scorso hanno decretato la vittoria di Lai Ching-te (William Lai), vicepresidente uscente della Repubblica di Cina (è questa la denominazione ufficiale dell’isola). Lai, il cui insediamento è previsto per il 20 maggio, è oggi l’esponente di punta del Partito Democratico Progressista (DPP) che ha governato negli ultimi otto anni.

La presidente uscente, Tsai Ing-wen, prima donna a vincere le elezioni, per di più per due volte consecutive (2016 e 2020), si era dimessa da presidente del partito lo scorso autunno dopo la sconfitta alle elezioni amministrative. La Tsai non era comunque rieleggibile per limiti di mandato.

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sinistra

Cosa attendersi da Hamas1

di Alessandro Mantovani

823023052Le voci di un imminente cessate il fuoco a Gaza e di uno scambio di prigionieri-ostaggi fra Hamas e Israele si rincorrono da giorni2 e, con le dichiarazioni di Londra e Washington di un possibile riconoscimento dello Stato palestinese, non si può escludere una prossima fine delle operazioni militari. Cosa avverrà dopo? Una parte di questa risposta si trova nella natura e nella storia dell’organizzazione che più delle altre ha lasciato il suo segno sullo storico attacco a Israele del 7 ottobre 2023: Hamas, che in arabo significa “zelo”, ed è l’acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (“Movimento di resistenza islamica”).

 

I Fratelli musulmani

Nel 1928 in Egitto, allora sotto mandato britannico, nasce un movimento islamista chiamato Fratellanza musulmana. Fondatore Hassan Al-Banna, il quale predica un ritorno all’Islam originario, non conseguibile senza fine del dominio straniero. Il rigorismo dei Fratelli musulmani respinge tanto il conservatorismo delle gerarchie quanto la secolarizzazione sul modello occidentale (per Al-Banna l’Islam contiene in sé la dimensione politica).

Inizialmente i “Fratelli” si limitano al terreno religioso e culturale. Presto Al-Banna realizza che per il suo progetto è necessario permeare la società. Si rivolge allora agli ulema, ai capi delle confraternite religiose, ai notabili, ai funzionari dello Stato, ma anche agli studenti, ai contadini, ai lavoratori. Mano mano che la “Fratellanza” cresce, e cresce rapidamente (siamo negli anni ‘20 del secolo scorso e l’Egitto è in ebollizione), essa non solo penetra nelle istituzioni caritative e di assistenza, bensì ne fonda e sviluppa una rete capillare. Prassi che diventerà il suo marchio distintivo. Dalla metà degli anni ‘30, pur non costituendo un partito, i Fratelli entrano anche nell’agone politico.

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La NATO guida il riarmo globale tra cyberwar e tecnologie quantistiche

di Antonio Mazzeo

standard compressed Seasparrow 1200x640.jpgAlea iacta est. Il dado è tratto. Ciò che disse Cesare prima di varcare il Rubicone e iniziare la guerra contro Pompeo, lo hanno ripetuto duemila anni dopo i Capi di Stato maggiore della difesa dei 31 paesi membri della NATO più la new entry di Svezia. Solo che stavolta sarà guerra totale e in ogni angolo del pianeta, prima contro Mosca e poi contro Pechino. E se sarà necessario, generali e ammiragli si dichiarano pronti a usare le più sofisticate tecnologie di distruzione di massa.

Il 17 e 18 febbraio i vertici delle forze armate dell’Alleanza si sono dati appuntamento a Bruxelles per il Military Committee NATO: all’ordine del giorno come accelerare il processo di trasformazione delle strategie e delle “capacità di combattimento” e come garantire l’implementazione immediata dei nuovi “piani di difesa” approvati al summit di Vilnius della scorsa estate. È in atto una spasmodica corsa verso il riarmo globale e la NATO si candida a divenire il motore della ricerca e dello sviluppo delle tecnologie di morte, possibilmente in partnership con le grandi holding del complesso militare-industriale e con un ampio numero di attori della società “civile” (università, centri di ricerca, start up, agenzie spaziali nazionali e internazionali, ecc.).

“Le regole su cui si basa l’ordine internazionale sono sotto un’immensa pressione”, ha esordito il vicesegretario generale della NATO, Mircea Geoană, all’apertura della sessione di lavoro del Military Committee dedicata alle “priorità della deterrenza”. Geoană è pure ricorso al minaccioso frasario dei tempi più bui della Guerra fredda, condendolo con suggestivi accenni geologici. “Le placche tettoniche del potere stanno cambiando”, ha enfatizzato il vicesegretario NATO.

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sinistra

Stati Uniti e Cina allo scontro globale

Epilogo

di Raffaele Sciortino

"Pubblichiamo il capitolo di aggiornamento al volume di Raffaele Sciortino "Stati Uniti e Cina allo scontro globale",  redatto nello scorso settembre per l'edizione inglese del libro che uscirà per Brill il prossimo aprile."

COP. ISBN STATI UNITI E CINA .jpgQuesto capitolo, che aggiungiamo alla traduzione dell’edizione originale uscita nell’ottobre del 2022, mira a dar conto sinteticamente delle principali novità (relative) che si sono date nell’ultimo anno. Ne risulta confermata, crediamo, la tendenza alla disconnessione US-Cina e alla riconfigurazione del mercato mondiale (in senso marxiano) ma ancora al di qua di quelle precipitazioni drammatiche che possono portare a una sua vera e propria frammentazione attraverso crisi economiche, sociali e geopolitiche senza ritorno. La globalizzazione, così, sempre meno vale come cornice data dell’accumulazione mondiale, e sempre più come terreno di aspra competizione che dal livello dei singoli capitali trascresce a quello tra stati nazionali nel quadro della contrapposizione di fondo tra Occidente imperialista e Cina.

Inizieremo dalla principale novità: il cambio di passo impresso da Washington alla strategia del decoupling anti-cinese, sullo sfondo delle crescenti difficoltà statunitensi e occidentali nello scenario di guerra ucraino. Ne rintracceremo i primi effetti evidenti sulla dinamica già ben delineata di rallentamento generale della globalizzazione. Concluderemo con alcune osservazioni sulla risposta cinese, che a fronte dell’acuirsi dello scontro con gli Stati Uniti sta mostrando una continuità di linea strategica, e sulle prospettive di un’economia mondiale segnata dall’incertezza ma non (ancora) in recessione generale. Il che contribuisce a dar corpo a quella che abbiamo definito una sfida “riformista” sui generis all’ordine internazionale egemonizzato da Washington.

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alternative

I guerrafondai, i sonnambuli e i movimenti per la pace

di Alfonso Gianni

International Court of Justice 800x450.jpegNon era mai successo nulla di simile: un impero (la Gran Bretagna) promette una terra non sua a un popolo che non ci vive senza chiedere il permesso a chi ci abita1

Gideon Levy

Cessate il fuoco! Ora! Questo grido, rivolto in particolare alle due più sanguinose guerre in corso - tra le 60 attualmente in atto nel mondo -, in Ucraina e in Palestina, ha attraversato le piazze e le strade delle principali città del Sud e del Nord del globo terrestre. Il popolo della pace, variegato e multiforme, è tornato a farsi, sentire, a imporsi all’opinione pubblica, malgrado i tentativi di nasconderne o sminuirne la forza e l’estensione da parte dei mass media mainstream. Non siamo di fronte a quella dimostrazione di grande forza e compattezza, pur nell’articolazione geografica, che contraddistinse le celebri manifestazioni del 15 febbraio del 2003 e che fecero scrivere al New York Times che aveva preso corpo una seconda potenza mondiale. Neppure quella straordinaria prova di forza fermò la guerra, ovvero l’aggressione degli Usa e dei paesi volenterosi all’Iraq. Ma essa entrò nella storia, sedimentò una diffusa coscienza civile, trasformò il pacifismo da una opzione morale e individuale in un obiettivo politico condiviso da milioni di persone disposte ad attivarsi per il suo conseguimento. Le manifestazioni che si sono susseguite in centinaia di città lo scorso 13 gennaio2 e che continueranno a riproporsi e ci auguriamo a crescere, non sarebbero potute avvenire senza poggiare sull’humus fertilizzato da quella storica giornata di inizio di secolo. E a farlo in condizioni assai più difficili di allora. Nel 2003 l’obiettivo era chiaro: impedire agli Usa di fare quello che poi hanno fatto in Iraq, sconvolgendo quel territorio e l’insieme del Medio Oriente, con conseguenze che proprio ora mostrano i loro devastanti effetti.

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La sfuggente politica di Netanyahu non è uno stratagemma, ma un ritorno alla vecchia strategia sionista

di Alastair Crooke - strategic-culture.su

GEcMsTpXwAAyQ98 930x520 1.jpgUna volta, il defunto Ariel Sharon, leader militare e politico israeliano di lungo corso, aveva confidato al suo caro amico Uri Dan che “gli Arabi non avevano mai veramente accettato la presenza di Israele… e quindi una soluzione a due Stati non era possibile – e nemmeno auspicabile“.

Nelle menti di questi due – così come della maggior parte degli israeliani di oggi – c’era il “nodo gordiano” che caratterizza l’essenza del Sionismo: come mantenere diritti differenziati su un territorio fisico che include una vasta popolazione palestinese.

I leader israeliani ritenevano che, con l’approccio non convenzionale di Sharon basato sull'”ambiguità spaziale“, Israele fosse sul punto di trovare una soluzione all’enigma della gestione dei diritti differenziati in uno Stato a maggioranza sionista ma con al suo interno minoranze consistenti. Molti israeliani ritenevano (fino a poco tempo fa) che i palestinesi fossero stati relegati con successo in uno spazio politico e fisico delimitato – e che fossero addirittura “scomparsi” da ogni parvenza di significato – solo che Hamas, il 7 ottobre, ha fatto saltare in aria tutto questo elaborato paradigma.

Questo evento ha innescato un diffuso ed esistenziale timore che il progetto sionista possa implodere, se le sue particolari fondamenta sioniste dovessero essere messe in dubbio da un’ampia resistenza pronta a entrare in guerra per risolvere la questione.

Un recente articolo del giornalista statunitense Steve Inskeep – Israel’s Lack of Strategy is the Strategy – mette a fuoco un apparente paradosso: mentre Netanyahu è molto chiaro su ciò che non vuole, allo stesso tempo rimane ostinatamente opaco su ciò che vuole come futuro per i palestinesi che vivono in un territorio condiviso.

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Come venne sconfitto l’Occidente

di Pepe Escobar - sputnikglobe.com

crollooccidente.jpgEmmanuel Todd, storico, demografo, antropologo, sociologo e analista politico, fa parte di una razza in via di estinzione: è uno dei pochissimi esponenti rimasti dell’intelligentia francese della vecchia scuola – un erede di quelli come Braudel, Sartre, Deleuze e Foucault che avevano affascinato i giovani nati dopo la Guerra Fredda, dall’Occidente all’Oriente.

La prima chicca che riguarda il suo ultimo libro, La Défaite de L’Occident (“La sconfitta dell’Occidente”), è il piccolo miracolo di essere stato pubblicato la scorsa settimana in Francia, proprio in un Paese NATO. Più che di un libro si tratta di una vera e propria bomba a mano, scritto da un pensatore indipendente, basato su fatti e dati verificati, che fa saltare l’intero edificio della russofobia eretto intorno all'”aggressione” dello “zar” Putin.

Alcuni settori dei media aziendali francesi, rigorosamente controllati dagli oligarchi, questa volta non hanno potuto ignorare Todd, per diversi motivi. Soprattutto perché era stato il primo intellettuale occidentale, già nel 1976, a prevedere la caduta dell’URSS nel suo libro La Chute Finale, basato sull’analisi dei tassi di mortalità infantile dell’Unione Sovietica.

Un altro motivo fondamentale era stato il suo libro del 2002 Aprés L’Empire, una sorta di anteprima del declino e della caduta dell’Impero, pubblicato pochi mesi prima dello Shock & Awe in Iraq.

Ora Todd, in quello che ha definito il suo ultimo libro (“Ho chiuso il cerchio”), può permettersi di rischiare il tutto per tutto e descrivere meticolosamente la sconfitta non solo degli Stati Uniti, ma dell’Occidente nel suo complesso, concentrando le sue ricerche sulla guerra in Ucraina.

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lantidiplomatico

Parte I: Putin prepara l'Africa Corps russo per il calderone africano

di Giuseppe Masala

720x410c50muyhgw.jpgMentre gli occhi del mondo sono giustamente puntati sulla nuova deflagrazione della “guerra mondiale a pezzi” avvenuta con l'attacco anglo-americano in Yemen per contrastare il blocco dello stretto di Bab al-Mandab da parte dei ribelli filo-iraniani Huti anche in Africa la situazione si fa sempre più grave.

Come ho già illustrato in passato anche l'Africa è di fatto uno dei campi di battaglia nei quali si confrontano l'Occidente e il blocco euroasiatico (in particolare la Russia, che è più esposta militarmente mentre la Cina lo è maggiormente economicamente); il fine è di guadagnare un vantaggio strategico sull'avversario con l'insediamento di basi militari, ma anche quello di mettere le mani sulle preziose materie prime del continente e di trasferire produzioni a basso valore aggiunto la cui produzione non è più economicamente sostenibile nei paesi d'origine. Quest'ultimo è per esempio il caso dell'Etiopia (da ultimo entrata nei Brics) che sta ricevendo ingenti investimenti cinesi anche con il trasferimento di produzioni a basso valore aggiunto e non più sostenibili per Pechino (1). Per quanto riguarda l'esposizione militare della Russia in Africa, bisogna dire che questa diventa ogni giorno più rilevante: non solo con l'ingresso della compagnia di ventura privata Wagner fondata dal quell'Evgenij Prigožin deceduto in un misterioso incidente aereo, ma anche con l'intervento diretto di forze russe (Istruttori e intelligence), e il trasferimento di armamenti anche molto sofisticati. Si fa peraltro sempre più insistente la voce secondo cui la Russia (intesa come entità statuale) starebbe organizzando e istituendo una vera e propria Africa Corps di altissimo livello per contrastare “il colonialismo occidentale” nel continente.

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megachip

«Stiamo assistendo alla caduta finale dell'Occidente»

Alexandre Devecchio intervista Emmanuel Todd

Nel suo ultimo libro, lo storico e antropologo diagnostica La Sconfitta dell'Occidente. Nel suo saggio La Caduta finale, pubblicato nel 1976, l'autore aveva previsto con precisione il crollo dell'Unione Sovietica

defeatwest.jpgGRANDE INTERVISTA A «LE FIGARO» – Nel suo ultimo libro, lo storico e antropologo diagnostica La Sconfitta dell’Occidente. Nel suo saggio La Caduta finale, pubblicato nel 1976, l’autore aveva previsto con precisione il crollo dell’Unione Sovietica. «Le Figaro» spera che, questa volta, il “profeta” Todd si sbagli.

* * * *

LE FIGARO. – Secondo lei, questo libro ha in particolare come punto di partenza l’intervista che ha concesso al «Figaro» esattamente un anno fa, intitolata “La Terza Guerra Mondiale è iniziata“. Ora lei constata la sconfitta dell’Occidente. Ma la guerra non è finita…

Emmanuel TODD. – La guerra non è finita, ma l’Occidente è uscito dall’illusione di una vittoria ucraina possibile. Non era ancora chiaro per tutti quando scrivevo, ma oggi, dopo il fallimento della controffensiva di quest’estate, e la constatazione dell’incapacità degli Stati Uniti e degli altri paesi della NATO di fornire armi sufficienti all’Ucraina, il Pentagono sarebbe d’accordo con me.

La mia constatazione della sconfitta dell’Occidente si basa su tre fattori.

Primo, la carenza industriale degli Stati Uniti con la rivelazione del carattere fittizio del PIL americano. Nel mio libro, smonto questo PIL e mostro le cause profonde del declino industriale: l’insufficienza della formazione di ingegneria e più in generale il declino del livello educativo, a partire dal 1965 negli Stati Uniti.

Più in profondità, la scomparsa del protestantesimo americano è il secondo fattore della caduta dell’Occidente.

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italiaeilmondo

L’Unione Europea, coordinata dalla NATO, è lo strumento degli USA nel conflitto strategico della fase multicentrica

di Luigi Longo

80afbcac c608 4c14 9fe3 f37153982b3b.jpg[…] l’Europa è diventata una Eurolandia priva di sovranità economica e soprattutto geopolitica e militare. Al suo interno è insediato un corpo di occupazione straniero, denominato NATO, inviato da tempo come mercenariato soldatesco in Asia Centrale, pronto a minacciare e a rischiare una guerra mondiale in Georgia e in Ucraina. Se questo è anche in parte vero, allora che senso ha elencare la tiritera del nostro grande profilo europeo, dalla filosofia greca al diritto romano, dalle cattedrali romaniche e gotiche dell’umanesimo rinascimentale, dalla rivoluzione scientifica all’illuminismo, dall’eredità classica greco-romana al cristianesimo, eccetera?

Pura ipocrisia.

Costanzo Preve*

1. Avanzerò alcune riflessioni sull’Europa, non a partire dalla storia dell’Europa delle Nazioni, che si formarono dopo la dissoluzione dell’impero di Carlo Magno (1), ma a partire dalla guerra Russia-Ucraina (cioè l’aggressione Usa alla Russia via Nato-Europa), che di fatto sancisce la fine del progetto dell’Unione Europea (avanzato e realizzato dopo la seconda guerra mondiale, anche se pensato intorno agli anni trenta del secolo scorso dagli Stati Uniti d’America) sostituito dal nuovo ruolo della NATO che meglio si addice alle nuove strategie statunitensi nella fase multicentrica [conflitto tra potenza egemone in declino (USA) e potenze consolidate (Russia, Cina) e in ascesa (India)] (2). Una << […] Europa occidentale (anche l’Europa orientale, mia precisazione LL) sottomessa a una occupazione militare USA accettata dagli attuali governi fantocci, che appunto per questa ragione considero del tutto illegittimi, non importa se sanzionati o meno da elezioni manipolate >> (3).

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intelligence for the people

Mar Rosso, la sfida a USA e Israele che viene dallo Yemen

di Roberto Iannuzzi

Washington preferisce l’escalation alla diplomazia in una crisi dalle radici lontane, che gli USA hanno contribuito a creare, e che aggiunge incertezze al già instabile panorama regionale

6c335f1b 5ef5 4fd8 a6a8 99016ff3b34c 1024x718Il Mar Rosso è solitamente una delle rotte commerciali più trafficate al mondo. Circa il 12% del commercio mondiale, quasi il 30% del traffico marittimo di container, e quantità significative di petrolio, passano attraverso il Canale di Suez a nord e lo Stretto di Bab el-Mandeb a sud.

Quest’ultimo, il cui nome letteralmente significa “porta della lamentazione” o “porta delle lacrime” (probabilmente per il pericolo che tale passaggio, caratterizzato da correnti e venti imprevedibili, secche e barriere coralline, anticamente costituiva per la navigazione), congiunge il Mar Rosso al Golfo di Aden, e quindi all’Oceano Indiano e alle ricchezze del continente asiatico.

Ai due lati dello stretto si fronteggiano Gibuti, sulla costa africana, e lo Yemen, all’estremità sudoccidentale della Penisola Arabica. Ed è proprio dallo Yemen, uno dei paesi più poveri del mondo, che il movimento sciita di Ansar Allah, meglio noto come gli “Houthi” (dal nome del fondatore Hussein al-Houthi), ha lanciato la sua sfida a Israele e agli Stati Uniti.

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marxismoggi

L'ampliamento dei Brics ulteriore passo in avanti nella ridefinizione degli assetti internazionali

di Andrea Vento*

BRICS members.jpgIl Bric: da aggregato geoeconomico a soggetto geopolitico

La genesi dell'acronimo Bric viene ricondotta all'economista inglese Jim O'Neil quando a fine 2001 in un documento[1], redatto in qualità di Chief Economist della Banca di investimenti Goldaman Sachs, identificò il nuovo aggregato geoeconomico composto da Brasile, Russia, India e Cina come il gruppo di Paesi che, in base a caratteristiche comuni, avrebbero verosimilmente dominato l’economia mondiale del secolo appena iniziato. Pertanto, secondo O'Neil, agli Stati Uniti per poter mantenere la leadership globale anche nel XXI secolo sarebbe stato dunque necessario inglobarli nella governance economica e finanziaria mondiale egemonizzata fino a quel momento dal sistema occidentale.

I quattro paesi risultavano, infatti, accomunati da alcune caratteristiche simili da consentir loro nell'arco di alcuni lustri di posizionarsi nei piani alti della graduatoria delle potenze economiche mondiali: la condizione di economie in via di sviluppo, una popolazione numerosa, un vasto territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e prospettive di forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale.

La tesi sostenuta da O'Neal non venne, tuttavia, pienamente percepita nella sua portata strategica negli ambienti di Washington, in quegli anni, peraltro, impegnati nella ridefinizione dell'assetto geopolitico mediorientale con gli interventi militari in Afghanistan e Iraq. Finì, invece, per fornire un inaspettato input aggregativo per i quattro paesi che fino ad allora avevano scarsamente cooperato dal punto di vista economico[2] e geopolitico, i quali, a partire dal settembre 2006, iniziarono a effettuare annualmente riunioni informali a margine dell'Assemblea generale dell'Onu.

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lantidiplomatico

Yemen: un paese strategico nella scacchiera geopolitica

di Paolo Arigotti

720x410nbgtrs.jpgLa narrazione del mainstream sovente ci presenta gli Houthi – altrimenti detti Ansar Allah (“partigiani di Dio”) – come un gruppo ribelle, quasi a sottolinearne la natura non ufficiale di quello che, piaccia o meno, rappresenta il governo dello Yemen, perlomeno di una buona parte di questa martoriata nazione, ivi compresa la capitale Sanaa[1]. E non sarebbe neppure il caso di sminuirne il potenziale militare, tenuto conto che parliamo di un movimento di resistenza sciita che è stato in grado di tenere testa, a partire dal 2015, alla coalizione a guida saudita, nell’ambito di una lunga e sanguinosa guerra civile che ha funestato la nazione più povera della penisola arabica.

Gli Houthi sono tornati all’onore delle cronache quando hanno apertamente sfidato la potenza talassocratica per eccellenza, quella statunitense, nel contesto di uno dei più importanti e strategici “colli di bottiglia” del mondo: lo stretto di Bab al-Mandeb, sul mar Rosso, lo snodo di collegamento con l’oceano Indiano. Nessun dubbio circa le ragioni degli Houthi, che possono essere lette nelle dichiarazioni ufficiali del governo yemenita, nelle quali traspare la natura ritorsiva della strategia messa in atto a partire dallo scorso 14 novembre, per quanto il primo attacco si sia verificato il 19 ottobre, quando il cacciatorpediniere americano USS Carney aveva intercettato tre missili sparati dalle coste dello Yemen. Il gruppo sciita, quale risposta alle violenze perpetrate dalle forze armate israeliane nella striscia di Gaza, già costate la vita a oltre ventimila persone (per lo più donne e bambini), ha annunciato l’intenzione di prendere di mira, con droni e missili, qualsiasi nave legata a Israele che transiti da Bab al-Mandeb, che funge da porta d’accesso anche al Canale di Suez, per il cui tramite – giova ricordarlo - transita circa il 10 per cento del commercio globale e qualcosa come 8,8 milioni di barili di petrolio, corrispondenti più o meno a un decimo delle forniture globali, senza contare il circa 8 per cento di gas liquido.

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intelligence for the people

Siria, Libano, Iran, Iraq: escalation di attentati e attacchi in Medio Oriente

di Roberto Iannuzzi

Una serie impressionante di attacchi, attribuiti a Israele, all’ISIS e agli USA, e rivolti invariabilmente contro l’asse iraniano in Medio Oriente, accresce i rischi di destabilizzazione regionale

Nakba esquilino 1.jpgNegli ultimi dieci giorni, a cavallo fra il vecchio e il nuovo anno, una progressione sconcertante di attentati ha colpito obiettivi legati all’asse iraniano in Medio Oriente. La serie ha avuto inizio con l’uccisione del generale iraniano Radhi Mousavi lo scorso 25 dicembre a Damasco, in Siria. Il 2 gennaio, un attacco missilistico (probabilmente compiuto da un drone) ha ucciso Saleh al-Arouri, uno dei principali esponenti del movimento islamico palestinese Hamas, insieme ad altri uomini del gruppo, nel sobborgo meridionale di Beirut, considerato la roccaforte del gruppo sciita libanese Hezbollah. Il giorno dopo, una doppia esplosione nei pressi della tomba del generale Qassem Soleimani, a Kerman, in Iran, ha mietuto quasi cento vittime fra i presenti giunti a commemorare il comandante assassinato quattro anni fa dagli USA in Iraq. Infine, proprio in Iraq gli Stati Uniti hanno ucciso, ancora una volta tramite un drone, il leader di una milizia filo-iraniana il 4 gennaio.

Questa sanguinosa serie di episodi infiamma ulteriormente un panorama mediorientale già profondamente scosso dal terribile conflitto in corso a Gaza e dalle sue ramificazioni regionali, fra le quali spiccano lo scontro militare fra Israele e Hezbollah (fino a questo momento limitato a reciproci bombardamenti lungo il confine libanese), e le tensioni nel Mar Rosso causate dagli attacchi alle navi mercantili dirette verso Israele da parte della formazione sciita yemenita di Ansar Allah (meglio nota come movimento degli Houthi, dal nome del suo fondatore).

 

Attacco al cuore del potere iraniano a Damasco

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paginauno

La guerra. Esperimento Terra

di Giovanna Cracco

L’impatto ambientale degli esperimenti nucleari. Documenti desecretati rivelano che tra il 1945 e il 1992 gli Stati Uniti hanno effettuato 1.051 test atomici esplodendo in totale 180 megatoni, pari a 11.250 bombe di Hiroshima; 12 test hanno contemplato il lancio di razzi fino a 700 km di quota, nella magnetosfera, con l’obiettivo di verificare se la struttura stessa del sistema Terra potesse essere utilizzata come arma. Quali sono state le conseguenze a lungo termine sull’equilibrio terrestre e sul clima?

2kjyhvhj.jpgQuando si imputa alle attività umane la responsabilità del cambiamento climatico, una di esse gode di un unanime e trasversale occultamento: l’attività militare. L’economia, la politica, i principali think tank, le grandi agenzie sovranazionali... nessuno ne fa citazione nei dettagliati e accalorati documenti che auspicano, o impongono, innovazioni green e transizioni ecologiche. L’industria della guerra, dalla produzione alle esercitazioni ai conflitti in giro per il pianeta, è esclusa sia dall’elenco delle cause che da quello delle soluzioni. La sua incidenza sull’ambiente è innegabile, ma la difficile quantificazione per mancanza di dati, come mostra il Report di Scientists for Global Responsibility e Conflict and Environment Observatory qui pubblicato a pag. 34, la porta, per restare nel campo semantico, ‘fuori dai radar’ della discussione.

D’altra parte, la guerra è morte e distruzione della biosfera e della vita; è bombardamenti e agenti chimici; è aviazione, carri armati, proiettili, gas... come si potrebbe discutere di rendere ecologicamente sostenibile una simile attività umana? Siamo davanti a un nonsense.

Non è l’unico. Se i danni da gas serra sono almeno conosciuti e riconosciuti, ve ne sono altri tuttora ignoti.