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lantidiplomatico

L’Ucraina ha perso la guerra?

di Paolo Arigotti

720x410c50nytfdx.jpgIl conflitto in Ucraina, che secondo la narrazione “comune” sarebbe iniziato il 24 febbraio 2022, ma in realtà scoppiato assai prima, sembrerebbe avviarsi al suo epilogo. Utilizziamo il verbo “sembrare” perché l’esperienza insegna come formulare previsioni circa i teatri conflittuali sia sempre un azzardo, ma soprattutto perché ci sono molte altre variabili da considerare. Basterebbe sfogliare il saggio “Scemi di guerra”[1], di Marco Travaglio, uscito a febbraio scorso, per leggervi di innumerevoli previsioni rivelatesi fallaci e/o ispirate alla logica del “wishful thinking”.

Lasciando perdere analisti improvvisati e/o divulgatori vari ed eventuali, prenderemo spunto da un articolo recentemente pubblicato da Seymour Hersh, giornalista investigativo e vincitore del premio Pulitzer[2], intitolato “Da Generale a Generale. In Ucraina i leader militari stanno trattando la possibilità della pace”. Hersh parla di presunti (e segreti) colloqui di pace tra il generale Valery Zaluzhny, comandante delle forze armate di Kiev e Valery Gerasimov, capo di stato maggiore russo: secondo l’autore: “La forza trainante di questi colloqui non è stata Washington o Mosca, Biden o Putin, ma piuttosto i due generali di alto rango che conducono la guerra, Valery Gerasimov e Valery Zaluzhny”.

La bozza d’intesa prevederebbe un via libera di Mosca all’ingresso di Kiev nella Nato, a condizione che l’alleanza non collochi proprie truppe e/o armamenti offensivi in territorio ucraino; la Crimea verrebbe formalmente riconosciuta come parte della Federazione russa – come nei fatti è, dal 2014 – mentre nelle restanti regioni contese, Donbass e Novorossiya (Zaporozhie e Kherson), si svolgerebbe un referendum popolare per ratificarne l’adesione alla Russia.

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inchiesta

Recensione a “La Cina al centro” di Maurizio Scarpari

di Giangiorgio Pasqualotto

Recensione a Maurizio Scarpari, La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, Bologna, il Mulino 2023

2565939006885 0 0 424 0 75.jpgDi Maurizio Scarpari, uno dei più importanti sinologi italiani – già docente di ”Lingua cinese classica” all’Università Ca’ Foscari di Venezia – l’editrice bolognese “il Mulino” ha appena pubblicato La Cina al centro. Ideologia imperiale e disordine mondiale, un volume importante, denso di aggiornatissime informazioni altamente qualificate, ma anche impreziosito da riflessioni di carattere strico e filosofico. Il libro si presenta in una prospettiva di continuità e di completamento rispetto al precedente Ritorno a Confucio, apparso nel 2015, sempre per i tipi dell’editrice “il Mulino”. I due volumi risaltano entrambi come strumenti indispensabili per conoscere, da un lato, i principi della grande tradizione culturale cinese e, dall’altro, l’enorme influsso che essi continuano ad avere nella storia recente della politica cinese tendente a rivendicare, con forza sempre maggiore, un ruolo egemone nel presente e nel futuro del mondo contemporaneo.

La Cina al centro si presenta in realtà come un notevole approfondimento dei problemi connessi alla ripresa e all’aggiornamento della grande tradizione culturale cinese in funzione egemonica con intenzioni globali. Le prime due parti del libro vengono dedicate a chiarire il più possibile i termini e i modi di tale ripresa e di tale aggiornamento, componendo in ‘figure’ leggibili un enorme quantità di dati ricavati sia dai documenti ufficiali cinesi sia dai commenti prodotti da alcuni dei più significativi esperti occidentali delle politiche cinesi recenti, attuali e future. Scarpari, tuttavia, regge ottimamente il peso di questo immenso materiale documentale, grazie, certo, a una collaudata esperienza di storico e di critico, ma anche grazie a un ‘pathos’ personale ben riassunto in questa considerazione: “E’ stata delusa la speranza di chi, come il sottoscritto, aveva coltivato l’idea […] che si potesse creare col tempo una forma ibrida di governance, che potremmo definire ‘morbida’.

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giubberosse

Israele, Gaza e la lotta per il petrolio

di Charlotte Dennet*

823023052.webpLa fine del gioco è probabilmente collegata al petrolio e al gas naturale, scoperti al largo delle coste di Gaza, Israele e Libano nel 2000 e nel 2010, per un valore stimato di 500 miliardi di dollari. La scoperta prometteva di alimentare massicci progetti di sviluppo che coinvolgevano Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita. In gioco c’era anche la trasformazione del Mediterraneo orientale in un corridoio energetico fortemente militarizzato, che potesse fornire all’Europa il suo fabbisogno energetico mentre la guerra in Ucraina si trascinava. Ecco la polveriera in attesa di esplodere che avevo previsto nel 2022. Ora stava esplodendo davanti ai nostri occhi. E a quale costo in vite umane?

* * * *

È stato il segnale che mi ha colpito. Ero con i manifestanti fuori dal municipio di Burlington (VT) durante una manifestazione organizzata da Jewish Voice for Peace. Alla mia sinistra vidi un uomo, dal volto cupo e silenzioso, che teneva in alto un pezzo di cartone con queste parole graffite in nero:

“Ebrei contro il genocidio”.

“Quindi finalmente siamo arrivati ​​a questo”, mi sono detta.

Perché, mi chiedevo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’amministrazione Biden avrebbero rischiato la loro posizione nel mondo ignorando le richieste di cessate il fuoco? Avevano un programma inespresso?

Come cronista delle infinite guerre post-11 settembre in Medio Oriente, ho concluso che la fine del gioco era probabilmente collegata al petrolio e al gas naturale, scoperti al largo delle coste di Gaza, Israele e Libano nel 2000 e nel 2010 e stimati essere vale 500 miliardi di dollari. La scoperta prometteva di alimentare massicci progetti di sviluppo che coinvolgevano Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita.

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lantidiplomatico

La dottrina Brzezinski e le (vere) origini della guerra russo-ucraina

Francesco Santoianni intervista Salvatore Minolfi

720x410c50kjnb4rf.jpgPubblicato dall’Istituto italiano per gli studi filosofici e presentato in una davvero affollata serata trasformatasi in una appassionata assemblea (con interventi di de Magistris, Santoro, Basile…) il libro di Salvatore Minolfi  “Le origini della guerra russo-ucraina”. Un libro basato anche su documenti diplomatici, quest’anno resi pubblici da Wikileaks e che attestano come la guerra, lungi dal nascere da “mire imperiali di Putin” (come sbandierato dai media mainstream e da qualche “anima bella” della “sinistra”) è la inevitabile conseguenza, in primis, di un accerchiamento della Russia, mirante a impossessarsi delle sue risorse, e, poi, dall’esigenza di sottomettere una Unione europea “colpevole” di commerciare con partner ostili agli USA.

Di questo e di altro abbiamo parlato con l’autore del libro.

* * * *

Poco prima di quel fatidico 24 febbraio 2022, davanti al protrarsi (avrebbe dovuto concludersi il 20 febbraio) dell’esercitazione militare congiunta Russia-Bielorussia ai confini con l’Ucraina, da una parte la CIA e alcuni organi di stampa davano come imminente una invasione russa, dall’altra il governo di Kiev e parte del governo USA smentivano questa ipotesi. Perché questa strana situazione?

<<Sulle circostanze in cui prende forma l’invasione russa dell’Ucraina circolano le più diverse e contraddittorie ricostruzioni. A esse si aggiungono sempre nuove rivelazioni sulla presenza e sulla consistenza di gruppi militari stranieri in Ucraina sin dall’inizio della guerra o addirittura prima. La verità è che, allo stato delle attuali conoscenze, mancano gli elementi per ricostruire in modo documentato e attendibile il contesto in cui il conflitto esplode ufficialmente.

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comedonchisciotte.org

Hersh, Lieven e la disperata mossa di Washington per porre fine alle ostilità in Ucraina

di Gilbert Doctorow - gilbertdoctorow.com

genral.jpgAlcuni giorni fa, Seymour Hersh, famoso giornalista investigativo e vincitore del premio Pulitzer, ha pubblicato sul suo account substack.com un articolo intitolato “Da Generale a Generale. In Ucraina i leader militari stanno trattando la possibilità della pace”.

Per essere precisi, Hersh ha detto che i colloqui segreti su una possibile pace sono attualmente condotti dal comandante in capo militare ucraino, generale Valery Zaluzhny, e dal più alto ufficiale militare russo Valery Gerasimov.

Il paragrafo più interessante dell’articolo è il seguente:

La forza trainante di questi colloqui non è stata Washington o Mosca, Biden o Putin, ma piuttosto i due generali di alto rango che conducono la guerra, Valery Gerasimov e Valery Zaluzhny”.

Un altro clamoroso passaggio dell’articolo riguarda il fatto che l’accordo comporterebbe l’accettazione da parte della Russia dell’adesione dell’Ucraina alla NATO, a patto che la NATO si impegni formalmente a “non collocare truppe NATO sul suolo ucraino” o a installare armi offensive in Ucraina.

L’ultimo elemento chiave dell’accordo, che bilancerebbe l’acquiescenza della Russia all’adesione dell’Ucraina alla NATO, sarebbe il riconoscimento della Crimea come irrevocabilmente russa e lo svolgimento di un referendum nelle regioni del Donbass e della Novorossiya (Zaporozhie e Kherson) che erano state liberate dalla Russia e che avevano poi aderito alla Federazione Russa, una misura che, in effetti, sarebbe una foglia di fico per definire formalmente e definitivamente il destino di questi territori come parte della Russia.

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intelligence for the people

Ucraina: fine dell’illusione occidentale

di Roberto Iannuzzi

Kiev sta esaurendo le sue limitate scorte di uomini, armi e munizioni, e l’Occidente non può fornirle ciò di cui ha bisogno. Per americani ed europei è un duro, quanto inevitabile, risveglio

a90d6677 c67e 444e b35b ee903bf1d493 1042x695Dopo quasi due anni di guerra estenuante, con una controffensiva fallita malgrado i lunghi mesi di preparazione e i miliardi di dollari spesi dagli alleati occidentali, nella capitale ucraina emergono pericolose divisioni ed è palpabile la disillusione.

Kiev si ritrova a cercare disperatamente di richiamare l’attenzione di Stati Uniti ed Europa, focalizzata sul conflitto di Gaza e sulle rispettive grane interne, mentre un lungo e duro inverno attende le decimate truppe ucraine, ormai ridotte sulla difensiva su gran parte del lunghissimo fronte.

Che l’Occidente abbia distolto lo sguardo dall’Ucraina non è un caso. Il conflitto ha infranto gran parte delle illusioni americane ed europee. A cominciare da quella di poter replicare le controffensive ingannevolmente vittoriose che poco più di un anno fa avevano permesso a Kiev di riprendere territori, a Kharkiv nell’est ed a Kherson nel sud del paese.

La “controffensiva di primavera”, poi rimandata all’estate, nelle aspettative era stata descritta come una campagna potenzialmente decisiva contro l’occupazione russa, che ne avrebbe spezzato il corridoio terrestre che unisce il Donbass alla Crimea, addirittura minacciando il controllo russo di quest’ultima.

Lanciata a giugno, tale controffensiva ha invece intaccato solo marginalmente la linea fortificata delle difese russe, al prezzo di enormi perdite per gli ucraini.

 

Voci inascoltate in Occidente

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giubberosse

Info-warfare, la 'terza guerra'

di Enrico Tomaselli

Un’analisi della info-warfare, la guerra dell’informazione, in relazione ai due principali conflitti in atto, quello russo-ucraino in Europa e quello israelo-palestinese in Medio Oriente. Come questa terza guerra si collega alle altre due guerre, e come interagisce con esse. Non solo propaganda, ma anche psy-ops

photo 2023 11 07 19 24 06Nell’ambito della Grande Guerra Globale in cui ci troviamo immersi – e che segnerà certamente i decenni a venire – possiamo vedere in atto almeno tre guerre: quella europea, quella mediorientale e quella dell’informazione. Le prime due cercano di ottenere risultati politici attraverso l’uso delle armi, la terza attraverso il condizionamento delle opinioni pubbliche mondiali (e quindi dei governi).

Ma non si tratta di tre guerre separate, anzi sono strettamente intrecciate le une con le altre, e sotto molteplici aspetti. Delle relazioni tra le due guerre guerreggiate abbiamo del resto già detto in un precedente articolo [1].Le mosse tattiche e le manovre strategiche della guerra informativa tengono conto di quanto avviene sui campi di battaglia, cercano di darvi un senso inquadrandolo in una particolare lettura, sia al fine di confondere (e/o mobilitare) le opinioni pubbliche, sia nell’ambito di vere e proprie psy-ops volte a disorientare il nemico o a proteggere la parte che le mette in atto.

Se si tiene in mente questa premessa, si può provare a decifrare il significato di molte recenti mosse tattiche di questa guerra dell’informazione. E già il loro intensificarsi, per quantità e per qualità, oltre che per i contenuti, suggerisce chiaramente come le guerre guerreggiate siano in una fase critica, che richiede interventi narrativi esterni ai campi di battaglia.

In particolare, esamineremo sia dichiarazioni ufficiali, come quella del Segretario alla Difesa USA Lloyd Austin, che una serie di indiscrezioni e analisi giornalistiche, con riferimento sia al conflitto russo-ucraino che a quello israelo-palestinese.

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intelligence for the people

Guerra “NATO” a Gaza: le reazioni di Russia, Cina, e Sud del mondo

di Roberto Iannuzzi

L’appoggio incondizionato a Israele da parte dell’Occidente, e lo schieramento di un’intera flotta nel Mediterraneo orientale, aggravano una polarizzazione internazionale già in atto

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Il ministero delle finanze israeliano ha stimato che le operazioni belliche a Gaza hanno un costo di 270 milioni di dollari al giorno. Secondo altre valutazioni, ciò avrà un peso sulle casse dello stato ebraico pari a 48 miliardi nel 2023-2024.

Circa un terzo di questa somma sarà coperto dagli USA. Il presidente americano Biden ha promesso a Tel Aviv un pacchetto di 14,3 miliardi di dollari, che si aggiunge ai 3,8 miliardi che Washington elargisce annualmente a Israele sulla base di un accordo decennale.

Sebbene il pacchetto straordinario potrebbe non essere approvato prima della fine dell’anno a causa delle priorità del Congresso e della sua crescente disfunzionalità, gli Stati Uniti già ora inviano armi di ogni tipo ad Israele.

A differenza del flusso di armamenti USA verso l’Ucraina, quello diretto a Israele è avvolto nella quasi totale segretezza. Secondo alcune parziali rivelazioni, esso include decine di migliaia di proiettili d’artiglieria da 155 mm, migliaia di bombe ad alto potenziale e migliaia di missili Hellfire.

Biden è anche orientato a cancellare ogni restrizione al trasferimento di armi a Tel Aviv dall’arsenale USA presente sul territorio israeliano. Creato negli anni ’80 del secolo scorso per rifornire gli Stati Uniti nell’eventualità di una guerra regionale, il War Reserve Stockpile Allies-Israel (WRSA-I) è il più grande di una rete di depositi di armi che Washington ha disseminato nei paesi alleati in tutto il mondo.

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giubberosse

Pantano

di Enrico Tomaselli

GettyImages 1370568680 1200x675 1In Ucraina è arrivato anticipatamente l’inverno. Pioggia e neve già rendono impraticabili le strade non asfaltate, e la mobilità dei corazzati è ridotta al minimo. Una tempesta di inaudita potenza ha spazzato il mar Nero, distruggendo reti elettriche un po’ dovunque. 2000 villaggi ucraini sono senza energia elettrica, la Crimea è senza acqua corrente, perché gli impianti di pompaggio non sono alimentati. In alcuni punti della costa, il mare è arretrato anche di 100 metri.

Ovviamente tutto questo si riflette immediatamente sulla linea di combattimento, frenando fortemente l’attività aerea e di artiglieria, il che nell’immediato costituisce un vantaggio per gli ucraini: le condizioni climatiche, infatti, rallentano ulteriormente l’avanzata russa intorno ad Avdeevka, così come la controffensiva sul Dniepr, nel settore di Kherson.

La situazione sul campo è al momento, metaforicamente e praticamente, congelata.

L’arrivo del generale inverno, comunque, può tuttalpiù agevolare le forze ucraine nel passaggio da una postura offensiva a una difensiva. Ma non è sufficiente per nulla di più, e come s’è già visto lo scorso inverno, non fermerà l’esercito russo.

L’inevitabile rallentamento delle operazioni terrestri, però, diventa terreno fertile perché altri livelli del conflitto si manifestino più incisivamente. È infatti evidente che la NATO è ormai entrata in modalità Minsk, ovvero è alla ricerca di una via d’uscita temporanea dal conflitto; una qualche forma di accordo che consenta, appunto, di congelare il conflitto, quel tanto che basta per rimettere in piedi una parvenza di esercito ucraino efficiente, e soprattutto per mettere i paesi europei dell’Alleanza in condizione di affrontare uno scontro diretto con Mosca.

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lantidiplomatico

L’Egitto e il conflitto israelo-palestinese

di Paolo Arigotti

720x410c50juytgfce.jpgL’ennesimo e sanguinoso capitolo di una conflittualità che si trascina, tra alterne vicende e periodi di stasi, da oltre settant’anni in Medio Oriente coinvolge direttamente l’Egitto, forse una delle poche nazioni dell’area che potrebbe svolgere un’efficace azione di mediazione, in virtù dei buoni rapporti che intrattiene con entrambe le parti.

Il Cairo, sottoscrivendo nel lontano 1978 gli accordi di Camp David, fu il primo stato arabo a siglare la pace e instaurare relazioni diplomatiche con Israele, mai più interrotte da allora. Allo stesso tempo, l’Egitto intrattiene regolari relazioni con le autorità di Gaza, pur non avendo avuto successo i precedenti tentativi di ricompattare il fronte palestinese, per dare un interlocutore unico al suo popolo.

Una dimostrazione del ruolo che l’Egitto può giocare è arrivata negli ultimi giorni: il paese, assieme al Qatar, è stato tra gli artefici della tregua, in vigore dalle ore 7 del 24 novembre, e per la durata di quattro giorni (ora prorogata per altri due), che ha consentito l’afflusso di aiuti umanitari e la liberazione di ostaggi israeliani e detenuti palestinesi (tra i quali figuravano donne e bambini).

Un riconoscimento dell’importanza dell’Egitto nello scacchiere mediorientale è arrivata anche dagli Stati Uniti, i quali se da un lato hanno più volte denunziato le violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di al-Sisi, dall’altro continuano a dispensare generosi aiuti militari; Il Cairo è stata l’ultima tappa del recente tour mediorientale del segretario di Stato Antony Blinken, in occasione del quale è stato chiesto l’appoggio dell’Egitto per scongiurare la prospettiva di un allargamento del conflitto.

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Che cosa c'entrano i BRICS con la guerra in Ucraina?

di Visconte Grisi

guerra in Ucraina.bdjjpgC’è un elemento che non viene adeguatamente considerato quando si parla delle motivazioni profonde della guerra in Ucraina, vale a dire l’importanza assunta dalla questione logistica e, in particolare, dal controllo dei porti e delle vie di comunicazione marittima del Mar Nero nel commercio del grano ucraino e delle materie prime russe. Questa motivazione profonda, che sovente viene nascosta dietro le rivendicazioni territoriali sul Donbass di cui non vengono specificate le ragioni, è venuta chiaramente in luce in seguito a un episodio del conflitto risalente ai primi di agosto e di cui hanno parlato le cronache.(1)

In quella occasione i russi hanno attaccato e “distrutto un grande silos granario e altre attrezzature portuali” situate nei pressi di Odessa a pochi chilometri dal territorio della Romania. L’azione mirava naturalmente a ostacolare l’esportazione dei cereali ucraini e, quindi, ad “eliminare il principale concorrente dal mercato” visto che “Russia e Ucraina sono tra i principali produttori agricoli mondiali”. L’Ucraina ha risposto all’attacco colpendo due navi russe nel porto di Novorossijsk sul Mar Nero, a poca distanza da un “gigantesco hub russo di esportazione di materie prime” comprendenti grano, petrolio, carbone e fertilizzanti. Per di più nello stesso terminal marittimo “arriva il petrolio del Kazakistan con cui l’Italia e l’Occidente hanno aumentato i contratti dopo le sanzioni a Mosca”, senza contare che “dietro l’etichetta del petrolio kazako si nasconde la fornitura di greggio russo”.

La guerra quindi può ostacolare, ma non riesce a fermare il commercio internazionale conseguente al formarsi del mercato mondiale. La stessa cosa si può dire per la guerra economica scatenata dagli Stati Uniti contro la Cina iniziata già ai tempi di Obama, portata poi a livelli più alti da Trump attraverso l’imposizione di dazi doganali e il blocco dei prodotti delle principali società tecnologiche cinesi come Huawei, politica poi proseguita da Biden, in particolare sulla questione dei chips o semiconduttori.(2)

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Guerra Russia-Ucraina: la resa dei conti

L’Ucraina è alle corde

di Big Serge - bigserge.substack.com

titolo 7.jpgLa guerra russo-ucraina è stata un’esperienza storica inedita per diverse ragioni, e non solo per le complessità e i tecnicismi dell’impresa militare in sé. È stato il primo conflitto militare convenzionale nell’era dei social media e della cinematografia planetaria (sotto la costante presenza delle telecamere). Questo ha consentito di dare uno sguardo (anche se solo una sbirciatina) all’essenza stessa della guerra, che, per millenni, si era rivelata solo attraverso le forze mediatrici dei notiziari via cavo, dei giornali stampati e delle steli della vittoria.

Per gli eterni ottimisti, c’erano dei lati positivi nell’idea che una guerra ad alta intensità potesse essere documentata da migliaia di video in prima persona. Dal punto di vista della curiosità intellettuale (e della sagacia militare), la marea di filmati provenienti dall’Ucraina consente una visione dei sistemi e dei metodi di armamento emergenti e permette di ottenere una notevole quantità di dati tattici. Invece di aspettare anni le analisi dei rapporti post-azione e poter ricostruire la dinamica degli scontri, siamo a conoscenza in tempo quasi reale dei movimenti tattici.

Sfortunatamente, si sono verificati anche tutti gli ovvi inconvenienti della trasmissione di una guerra in diretta sui social media. La guerra è stata immediatamente sensazionalizzata e saturata da video falsi, fabbricati o con didascalie errate, saturi di informazioni che la maggior parte delle persone e degli pseudo-esperti non è semplicemente in grado di analizzare (per ovvie ragioni, una persona normale non è in grado di fare distinzioni tra due eserciti post-sovietici che utilizzano equipaggiamenti simili e parlano una lingua simile o addirittura la stessa).

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giubberosse

Palestina: strategie a confronto

di Enrico Tomaselli

photo 2023 11 10 16 31 47Proviamo a indagare l’attuale fase del conflitto israelo-palestinese sotto il profilo strettamente militare: le strategie, le tattiche, le scelte fatte – e le condizioni oggettive – di una guerra in cui comunque interagiscono, direttamente o indirettamente, molti attori, ciascuno con i propri interessi e le proprie esigenze. Proprio per ciò, un puzzle complicato da risolvere.

* * * *

In ogni conflitto non c’è solo lo scontro tra forze militari. Ci sono sempre (questo anche prima) due strategie che si confrontano. E se, come ci ricordava von Clausewitz, la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, allora queste strategie non sono mai esclusivamente militari.

Il parlare di strategie, però, implica l’idea che ci sia un disegno, un piano, che tenga insieme degli obiettivi da conseguire con le mosse necessarie per conseguirli. Il che, a sua volta, comporta che vi sia un prevalere del calcolo razionale, rispetto al dato emotivo, che pure è ineludibile.

La prima cosa da chiedersi, dunque, è se vi siano effettivamente strategie che si stanno confrontando, nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, così come esso si è andato delineando dal 7 ottobre in avanti. E, solo successivamente, se è il caso, indagarle.

Ora, in un conflitto così lungo (quasi secolare) e così aspro, è ovvio che vi siano componenti che affondano le proprie radici nei sentimenti e nelle emozioni; il dolore, la nostalgia, la rabbia, la paura, l’odio. Quindi, non possiamo aspettarci di non trovarne traccia, da ambo le parti. Si tratta piuttosto di capire in quale misura tutto ciò agisca nel determinare le scelte degli uni e degli altri.

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lantidiplomatico

Il complesso militare e industriale degli Stati Uniti (e dell’Europa)

di Paolo Arigotti

720x410c50mu7ygvcdw.jpgIl segretario di stato (leggi, ministro degli Esteri) degli USA, Anthony Blinken, ha tenuto lo scorso 13 settembre un discorso alla John Hopkins School of Advanced International Studies[1], considerato uno dei “templi” della strategia a stelle e strisce, nel quale, pur ribadendo l’avversione dell’Amministrazione Biden nei confronti della Russia, ha confermato che la maggiore sfida alla leadership (o dominio, se preferite) politica, economica e militare degli States è rappresentata, specie nel lungo periodo, dalla Cina; tenuto conto del livello di “autonomia” del quale godono gli “alleati” di Washington (pensiamo solo a Giappone o Europa, Italia in primis) è ovvio che questo messaggio rappresenta una sorta di “direttiva” non ufficiale per tutte le “province” dell’impero.

In sostanza, il cambio di “colore” dell’Amministrazione statunitense non sembra aver inciso più di tanto sull’orientamento politico di Washington, che già al tempo di Donald Trump aveva individuato nella Repubblica popolare il principale avversario, forse l’unico in grado di tenere testa e/o contrastare, per lo meno nel lungo periodo, i disegni egemonici di Washington e scardinare quella sorta di unipolarismo scaturito dalla fine della guerra fredda.

La potenza americana deriva innanzitutto da quella militare. Le forze armate USA sono stanziate in circa 170 paesi sparsi per l’intero globo, e sono almeno 76 gli stati che ospitano le circa 642 basi presenti nei quattro angoli del mondo[2]; per la cronaca nella nostra penisola le basi NATO sono 120, cui se ne aggiungerebbe una ventina di non ufficiali[3]. Gli Stati Uniti surclassano nettamente il resto del pianeta anche per quanto concerne la spesa militare: nel 2022 il budget di Washington ha toccato gli 876 miliardi di dollari, cifra da sola equivalente a quella stanziata da undici tra le più grandi nazioni: Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Germania, Francia, Corea del sud, Giappone, Ucraina e Canada.

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lantidiplomatico

La débâcle militare e la resa dei conti interni: cosa accadrà ora a Kiev?

di Giacomo Gabellini

720x410c50hvjgyAll’inizio di novembre, il generale Valerij Zalužny, comandante in capo dell’esercito ucraino, ha scritto un articolo pubblicato sull’«Economist», arricchito da un’intervista rilasciata sempre alla nota rivista britannica.

Dal quadro dipinto dal generale, emerge con chiarezza cristallina che la controffensiva avviata nella tarda primavera di quest’anno dalle forze armate ucraine non ha raggiunto alcuno degli obiettivi perseguiti dal governo di Kiev e dai suoi sponsor occidentali. Secondo Zalužny, il conflitto «si sta muovendo ora verso una nuova fase: quella che noi militari chiamiamo guerra “di posizione”, di combattimento statico e logoramento sulla falsariga della Prima Guerra Mondiale, in contrasto con la guerra “di manovra” di movimento e velocità».

A suo avviso, le forze in campo si sono arenate in una situazione di stallo che non lascerebbe spazio ad alcuna svolta significativa della guerra, poiché la parità tecnologica – tipica dei conflitti simmetrici che l’Occidente si è ormai disabituato ad affrontare – che caratterizza i due schieramenti impedisce alle truppe di sfondare le linee difensive del nemico. Ne consegue che, in assenza di un concreto avanzamento qualitativo ma anche quantitativo di una parte sull’altra dal punto di vista delle capacità militari e di intelligence, il conflitto è destinato a languire nella condizione in cui si trova allo stato attuale.

Per Zalužny, il superamento della guerra di posizione passa necessariamente per l’ottenimento «della superiorità aerea che consenta alle forze di terra di penetrare in profondità nei campi minati; di una maggiore efficacia del fuoco di controbatteria; di accresciute capacità in materia di guerra elettronica, oltre che dalla possibilità di formare e addestrare unità di riserva in numero adeguato», attualmente compromessa dalle diserzioni di massa che si registrano ormai da molti mesi.