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Il pivot to China

Diego Angelo Bertozzi

cina circondataScopo di questo saggio è di dare un quadro il più possibile comprensibile delle tensioni che si stanno accumulando in Asia orientale, soprattutto in riferimento al nuovo ruolo di potenza economica e politica della Cina popolare. Questo perché la stampa, soprattutto occidentale, diffonde l’immagine di una Pechino sempre più aggressiva e intenzionata a far pesare sui Paesi vicini tutta la propria forza, utilizzando il ricatto della propria modernizzazione militare. Queste denunce hanno un grande limite, e non certamente per puro caso, perché riflettono una vera e propria scelta di campo: tacere sul quadro complessivo che vede proprio la Cina come oggetto di un nuovo sistema di accerchiamento militare, politico ed economico con al centro Washington, decisa a salvaguardare la propria posizione egemonica risalente al secondo dopoguerra.

 

Il primo cordone sanitario attorno a Pechino

Lo scoppio della guerra di Corea (1950-53) è il primo tremendo impatto della Cina con la realtà delle relazioni fra potenze.

L’amministrazione Truman è convinta di trovarsi di fronte ad una prima chiara manifestazione del progetto di conquista mondiale ordito dal comunismo sovietico, ed ogni tentennamento, alla luce delle polemiche divampate all’indomani della perdita della Cina, non potrebbe certo essere sostenuto. Così, accanto all’intervento militare, che prende la forma di un intervento Onu, ma in sostanza a comando statunitense, si invia la VII Flotta della marina a protezione di Taiwan per impedire un’occupazione da parte delle truppe comuniste che avrebbe comportato una minaccia diretta alle forze Usa presenti nella regione e, infine, viene aumentato l’aiuto militare alle forze francesi impegnate in Indocina sempre contro forze indipendentiste a guida comunista.

Pechino, reduce da decenni di guerra civile e da una guerra di liberazione, per di più impegnata in un titanico sforzo di ricostruzione e fuoriuscita dalla miseria, si vede nuovamente impegnata in una guerra, anche se formalmente sotto forma di invio di volontari a sostegno della Corea popolare. Troppo fresco è il ricordo delle sofferenze, delle tragedie e delle devastazioni procurate dall’invasione giapponese, per non correre ai ripari nel momento in cui le truppe Usa si avvicinano ai propri confini. Il rischio è quello di trovarsi circondati da un cordone politico e militare; un “serpente disteso” che parte dalla Corea del Sud e si estende al Giappone, a Taiwan, alle Filippine e al Vietnam. Un’estensione della guerra sul proprio suolo, inoltre, potrebbe mettere a repentaglio il potenziale industriale in Manciuria e nel Nord-Est, mettere a rischio la politica di ricostruzione economica appena avviata e, perfino, segnare l’inizio di una nuova fase di guerra civile, con le truppe nazionaliste forti dell’appoggio di Washington. Per tutto questo, Pechino non ha alternative all’intervento, come sottolinea Henry Kissinger, l’ex segretario di Stato di Nixon e Ford:

La cosa senza dubbio più inverosimile era che i cinesi accettassero la presenza americana lungo un confine che aveva rappresentato una tradizionale via d’ingresso per l’invasione della Cina e, in particolare, era stato la base dalla quale il Giappone aveva intrapreso l’occupazione della Manciuria e l’invasione della Cina settentrionale [Kissinger 2011: 123].

Considerazioni analoghe nella sostanza a quelle che nel pieno della bufera il generale cinese Wu Xiuquan esprime in una seduta del Consiglio di sicurezza: la Cina non può accettare di vedere forze ostili attestate contemporaneamente al di là del fiume Yalu, nello stretto di Taiwan e nelle regioni di confine del Vietnam [Masina 2012: 87.].

L’intervento cinese – che sul piano bellico permette di allontanare le truppe Usa/Onu dal confine e riportarle lungo il 38° parallelo – ha pesanti conseguenze sul piano internazionale, a partire dalla condanna in sede Onu come Paese aggressore (febbraio 1951, che per molto tempo a venire impedirà di sollevare la questione della rappresentanza di Pechino nel Palazzo di vetro) e dalla decisione di imporre un embargo. Gli Stati Uniti dispiegano attorno alla Cina popolare proprio quel “serpente” che quest’ultima temeva, un sistema di sicurezza del Pacifico occidentale per resistere al comunismo. A partire dal 1951 sono siglati patti militari con le Filippine, con Australia e Nuova Zelanda (Anzus), con la Corea del Sud, il trattato di pace e il patto di sicurezza con il Giappone, fino ad arrivare al 1954 con la fondazione dell’Organizzazione del Trattato dell’Asia sud-orientale (Seato) e la ratifica di un patto di sicurezza con Taiwan. Il Pacifico, sul quale Washington proietta la propria potenza, diventa un “lago americano” e, dal punto di vista strategico, il teatro nel quale agisce un fronte diplomatico-militare di Paesi coscritti in funzione anticinese.

 

Il “Pivot to Asia”: la nuova pelle del “serpente”

Oltre mezzo secolo dopo, i rischi di accerchiamento ai quali Pechino aveva risposto con una politica estera duttile e per certi versi spregiudicata – si pensi al rapporto stretto con gli Stati Uniti di Nixon – e poi con un politica di apertura e graduale inserimento nelle istituzioni economiche e finanziarie internazionali con il preciso scopo di modernizzare le propria struttura produttiva e garantire la propria sicurezza, si sono nuovamente concretizzati. Certo, non si assiste più alla mobilitazione/ crociata anti-comunista, alla denuncia del pericolo rosso e alle enunciazioni della “teoria del domino” – in base alla quale ogni avanzata comunista in Asia, se non bloccata immediatamente, avrebbe avviato una serie di crolli lungo la catena di sicurezza –, ma alla denuncia della crescente “assertività” di Pechino che metterebbe in pericolo la “libertà dei mari e di navigazione” sulle rotte strategiche del Mar cinese meridionale. Su queste acque – occorre ricordarlo – transita il 70% del petrolio destinato alla Cina; di conseguenza, esse garantiscono al contempo il suo sviluppo economico e le iniziative diplomatico-commerciali legate alla Via del-la seta marittima. Ed è proprio su queste acque che si profila una minaccia che, sebbene di difficile attuazione, non è certo peregrina e che a Washington qualcuno annovera tra le possibilità: il blocco commerciale per tenere sotto ricatto la Cina popolare. Sean Mirsky, giovane analista statunitense collaboratore del Carnegie Institute, si domanda come sia possibile per gli Usa vincere una guerra contro la Cina. La sua risposta a proposito è molto semplice: serve un blocco navale. Ma come e con chi attuarlo? Con una coalizione che metta insieme almeno India, Giappone e Russia. Il blocco ipotizzato prevede due “anelli” a distanza con diverse misure di filtro. Ma più degli aspetti pratici di questo progetto, a noi serve comprendere la visione alla base di questa ipotesi. Ebbene, ecco quel che scrive lo studioso:

L’economia cinese si basa fortemente sul commercio marittimo, soprattutto per quanto riguarda le importazioni di petrolio. In linea con la sua reputazione di “officina del mondo”, la Cina dipende dalle materie prime importate per esportare prodotti finiti. Il commercio domina l’economia orientata alle esportazioni della Cina, che comprende il 52,1% del Pil cinese (di cui il 90% è trasportato via mare). La Repubblica popolare è nota per essere il più grande esportatore mondiale di beni merce (1.600 miliardi di dollari nel 2010), ma è anche il secondo più grande importatore mondiale di beni merce (1.400 miliardi di dollari nel 2010) e il terzo più grande importatore mondiale di risorse naturali (330 miliardi di dollari nel 2008). Più sorprendentemente, la sicurezza energetica della Cina è strettamente legata alla sua dipendenza dalle importazioni di petrolio. Nel 2011, la Cina ha acquistato quasi il 60% del suo petrolio all’estero – un sorprendente 5,7 milioni di barili al giorno – e quindi dipendeva dai trasporti marittimi per portare il 90% del petrolio. Il paese è intensamente e insostituibilmente dipendente dal petrolio nel settore industriale e dei trasporti, e lo sarà ancora di più nel prossimo futuro. Il tallone d’Achille della Cina potrebbe essere proprio l’importazione di petrolio. Nel contesto di una guerra sino-americana, gli Stati Uniti potrebbero cercare di prendere la Cina nella sua più grande forza, cioè il suo orientamento alle esportazioni, il suo modello di crescita economica e trasformarlo in una grande debolezza militare. Per fare ciò, gli Stati Uniti dovrebbero attuare un blocco navale della Cina nel tentativo di soffocare la maggior parte del commercio marittimo della Cina. Sotto le giuste condizioni, gli Stati Uniti potrebbero essere in grado di garantire la vittoria debilitando l’economia cinese abbastanza seriamente da portarla al tavolo delle trattative [MirsKi 2014].

Per ora, ad essere esercitata è “l’arte della provocazione”, oppure “la libertà dei mari come libertà di provocare”: ci si potrebbe divertire con la fantasia per sintetizzare con efficacia il comportamento degli Stati Uniti in un luogo caldo del pianeta – per le tante rivendicazioni territoriali e perché area di proiezione dell’ascesa cinese – che non ha certo bisogno di essere surriscaldato.

La Marina a stelle e strisce ha messo ora in atto quanto da tempo stava progettando ai massimi livelli, vale a dire il pattugliamento all’interno delle 12 miglia (distanza che delinea le acque territoriali sottoposte alla sovranità di un Paese costiero) degli isolotti rivendicati dai cinesi: nella mattina di martedì 27 ottobre 2015 il cacciatorpediniere “USS Lassen” ha navigato a 11 miglia al largo del Subi Reef (nelle isole Nansha/Spratly), scatenando dure reazioni da parte di Pechino (“un atto provocatorio” e una “palese violazione della sovranità cinese”, si legge in un editoriale dell’agenzia di stampa ufficiale Xinhua) giunte fino alla convocazione dell’ambasciatore statunitense. Nel gennaio 2016 è stato un altro cacciatorpediniere statunitense, il Curtis Wilbur, a navigare nelle 12 miglia da Triton Island, che fa parte dell’arcipelago delle Paracels rivendicate da Pechino.

Gli obiettivi di una tale mossa possono essere sintetizzati così: da una parte – sempre secondo il documento citato dal Financial Times – si tratta di sfidare con singoli atti dimostrativi “gli sforzi della Cina nel rivendicare gran parte del corso d’acqua strategico attraverso l’ampliamento di rocce e scogliere sommerse per farne isole abbastanza grandi per piste di atterraggio militari, apparecchiature radar e alloggi per truppe”; dall’altra, di confermare agli occhi dei propri alleati come le Filippine o il Giappone (che qualche dubbio lo nutrono), e di possibili partner come il Vietnam, il proprio impegno nella sicurezza di tutta l’area in caso di escalation dell’assertività cinese [Dyer 2015].

Un comportamento provocatorio ampiamente annunciato e che rientra appieno nella “filosofia” di documenti come l’aggiornamento della dottrina militare statunitense contenuti nel “A Cooperative Strategy for 21st Century Seapower: Forward, Engaged, Ready”, rilasciato nel marzo 2015 dalla Marina, dal Corpo dei marines e dalla Guardia costiera, che indica in Pechino l’avversario principale. Ancora una volta la proclamata difesa dei “beni comuni” e della “libertà di navigazione” nei mari nasconde l’intenzione di Washington di ostacolare e fermare la comparsa di un potere statale in grado di ostacolarne l’egemonia militare e politica, soprattutto in un palcoscenico strategico di “importanza crescente come la regione Indo-Pacifico” dove – si legge nel documento – “il continuo sviluppo e la messa in campo di sistemi d’arma anti-accesso/Area denial sfidano il nostro accesso marittimo globale”. Il documento delinea una ricetta che non lascia adito a dubbi: il rafforzamento della presenza militare, in linea con il nuovo Manifest Destiny rappresentato dal “Pivot to Asia” fondato sull’indispensabilità della presenza a stelle e strisce: delle 120 navi che saranno messe in acqua da qui al 2020 (a fine 2014 erano 197), il 60% navigherà proprio tra l’Oceano Indiano e il Pacifico mettendo in mostra i gioielli di famiglia: Littoral Combat, navi dotate di sistema di difesa missilistica contro missili balistici di medio-corto raggio, caccia F-35C Lightning II Joint Strike, droni MQ-4C Triton, e squadroni MV-22 Osprey (velivolo per il trasporto truppe). A questo si aggiungono una Forza di spedizione rapida di marines nel Pacifico occidentale e la distribuzione di marines in Australia.

Certo è che la condanna dell’assertività cinese e la denuncia della minaccia che si estenderebbe sui mari dell’Asia orientale perdono credibilità allorquando si brandisce la minaccia del blocco assoluto e si susseguono dimostrazioni delle proprie capacità militari! E poco credibile diventa anche la denuncia della militarizzazione da parte della Cina delle isole e degli isolotti da essa rivendicati e oggetto di controversie di sovranità con i Paesi vicini, oppure sui quali si vorrebbero creare tensioni che non ci sono. Ci riferiamo al recente caso delle batterie di missili terra aria (HQ-9) installate su Woody Island (controllate da Pechino fin dal 1965) situate a 400 km dalla principale base di sottomarini sull’isola di Hainan [BhaDraKuMar 2015]: anche qui ci troviamo di fronte all’ennesima dimostrazione di forza da parte di Pechino, l’ennesima minaccia alla libertà e alla sovranità dei Paesi vicini, oppure ad una risposta militare di natura difensiva in un contesto che vede in azione gli aerei di ricognizione Poseidon P8 e l’invio di navi militari in acque sulle quali Pechino rivendica la propria sovranità? Certo è che la vicinanza di quest’isola alla massa continentale cinese e, ripetiamo, a basi militari tra le più importanti, spiega bene cosa in realtà si intenda lungo le rive del Potomac per “salvaguardia della libertà di navigazione”: la salvaguardia del diritto imperiale della superpotenza statunitense di esercitare il proprio ricatto militare.

Inoltre, dal punto di vista storico, non va dimenticato che la Cina popolare è solo uno degli attori impegnati nelle rivendicazioni di sovranità nel Mar cinese orientale. E probabilmente la maggiore assertività e intransigenza in queste dispute è legata al fatto di essere uno degli ultimi arrivati nella politica di occupazione. Lo dice chiaramente un attento studioso della strategia marittima cinese come Simone Dossi nel ripercorre una lunga storia spesso dimenticata, che parte nel 1969, periodo nel quale la Cina di Mao è ancora un “paria” nelle relazioni internazionali e ancora afflitta dal caos interno prodotto dalla rivoluzione culturale:

nel Mar cinese meridionale le Filippine conducevano le prime esplorazioni, cui faceva seguito l’occupazione di cinque isolotti e scogli nell’arcipelago delle Spratly, tra il 1970 e il 1973. Ancora, nel 1973 il Vietnam del Sud assegnava diritti di esplorazione a compagnie petrolifere occidentali e occupava sei delle Spratly. Per contro si andava indebolendo la posizione della Cina che – a fronte della rivendicazione dell’intero arcipelago – non occupava però alcuna delle sue isole. Era su questo sfondo che Cina e Vietnam del sud sarebbero giunti da lì a poco a uno scontro diretto, nell’altro arcipelago conteso tra i due vicini: nel gennaio del 1974 la Marina dell’Epl sconfiggeva in battaglia la marina della Repubblica del Vietnam, assoggettando l’intero gruppo delle Paracel al controllo cinese. Da allora la competizione marittima attorno a isole e spazi marittimi si è periodicamente riacutizzata [Dossi, 2014: 78-79].

Ebbene, ricorda sempre l’autore, quando si arriva agli anni ‘80 è il Vietnam che conclude con l’Urss un accordo per l’esplorazione della piattaforma continentale vietnamita in aeree rivendicate dalla Cina, mentre le Filippine procedono all’occupazione di una nuova isola del gruppo delle Spratly, seguite dalla Malaysia che ne occupa tre. In questo contesto, che vede profilarsi il rischio di un pericoloso arretramento sul fronte della sicurezza marittima, Pechino percepisce il rischio di una sfida diretta. Anche in questo caso – generalmente sottaciuto nella sua dimensione storica – ci troviamo di fronte ad una Cina che reagisce ad una minaccia.

 

Riattivare le alleanze e un cordone “sanitario” economico

La decisione del 2011 di insediare a Darwin, in Australia. una base di marines è solo uno dei tasselli – viene poco dopo l’enunciazione del “Pivot to China” – in un quadro più complessivo di riattivazioni di alleanze a partenariati che risalgono agli anni della guerra fredda. È sempre il 2011 quando il Pentagono rilascia il “National Military Strategy of the United States of America”, nel quale si dichiara il “mantenimento di una forte presenza militare in Asia per decenni” e si conferma che gli Stati Uniti avrebbero esteso “la cooperazione militare con Filippine, Thailandia, Vietnam, Malaysia, Pakistan, Indonesia e Oceania” [naTionaL MiLiTary sTraTegy 2011]. Non è un segreto che in questi ultimi tempi Washington abbia intensificato i finanziamenti agli alleati in Estremo oriente e stretto sempre più legami militari, oppure, sull’onda della “minaccia cinese”, facilitato accordi tra altri Paesi. Senza dimenticare di accompagnare il “serpente” militare con una strategia economica di esclusione di Pechino.

Partiamo da quest’ultimo aspetto. Il 5 ottobre 2015 gli Stati Uniti e altri 11 Paesi (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam) hanno raggiunto l’intesa per dare vita all’accordo di libero scambio della regione del Pacifico, conosciuto come Trans Pacific partnership. Al di là delle questioni economiche – l’accordo prevede il generale abbassamento delle tariffe commerciali su mercati che rappresentano il 36% del Pil mondiale, soprattutto grazie alla presenza di Usa, Canada, Giappone, Messico e Australia – ad essere rimarcata sulla stampa è la sua valenza strategica nei confronti della Cina, come gamba economica del più ampio “Pivot to Asia”. Così scrive, ad esempio il Sole24ore: “Ancor più, dal punto di vista strategico, forgia un’alleanza per dialogare con forza con la Cina, esclusa dal negoziato e impegnata a creare un proprio patto economico asiatico” [VaLsania 2015]. Già nell’aprile del 2014 Tom Donilon, consigliere alla sicurezza nazionale tra il 2010 e il 2013, in un intervento sul Washington Post era stato chiaro nel delineare il disegno complessivo nel quale si posizionava il trattato di libero scambio:

Ma il ri-bilanciamento va oltre gli aspetti militari; pone ancora di più l’accento sulla diplomazia e sul commercio. Il fulcro del riequilibrio economico è la Trans-Pacific Partnership (TPP), il più importante accordo commerciale oggi in fase di negoziazione. Gli obiettivi più importanti del TPP, tuttavia, sono strategici. Un accordo potrebbe solidificare la leadership degli Stati Uniti in Asia e, insieme con i negoziati su un patto di libero commercio in Europa, mettere gli Stati Uniti al centro di un grande progetto: la scrittura delle regole che governeranno l’economia globale per il prossimo secolo. In quanto piattaforma aperta che i paesi possono firmare a condizione che accettino i suoi elevati standard, il TPP potrebbe incentivare la diffusione del libero mercato e principi economici liberali” [DoniLon 2014].

Passa un anno e, questa volta sul New York Times, Thomas L. Friedman evidenzia senza mezzi termini come il Tpp possa trasformarsi in una sorta di fronte delle democrazie capitaliste. Ma quale sarebbe la minaccia da affrontare? Non ci sono dubbi: “Il globo si sta dividendo tra mondo dell’ordine e mondo del disordine”. Nel primo sono comprese “le nazioni democratiche e in via di democratizzazione, fondate sullo stato di diritto e sul mercato, che costituiscono la spina dorsale del mondo”. A queste spetta il compito di fronteggiare il caos che si sta espandendo in Africa e Medio Oriente. Questa “coalizione democratica” ha la straordinaria opportunità di scrivere le regole base per l’integrazione globale del XXI secolo. Una missione certo non nuova: all’Occidente, in epoca coloniale, era già spettato il “pesante fardello” di esportare la civiltà e, col passare del tempo, anche potenze prima estranee ad esso, come il Giappone, sono diventate stimati membri dell’esclusivo club. Due sono gli ostacoli che si frappongono a questo progetto: la Cina popolare, che “sta cercando di riscrivere unilateralmente le regole internazionali”, e la Russia, impegnata nella “distruzione delle regole”; entrambe, insomma, vogliono portare il mondo dalla loro parte [FrieDMan 2015]. Giunge infine il londinese Financial Times a rimarcarne la valenza geopolitica:

Spesso definita la spina dorsale economica del Pivot to Asia promosso dal presidente americano Barack Obama, l’obiettivo per gli Stati Uniti e il Giappone è quello di contenere la Cina, che non è inclusa nel TPP, e creare una zona economica nel Pacific Rim che possa bilanciare il peso economico di Pechino nella regione [FINANCIAL TIMES 2015].

Obama stesso, subito dopo il raggiungimento dell’accordo, ha ribadito come questo “rifletta i valori americani” e che “quando oltre il 95 per cento dei nostri potenziali clienti vivono al di fuori dei nostri confini, non possiamo lasciare che paesi come la Cina scrivano le regole dell’economia globale” [WASHINGTON POST 2015].

Che l’accordo di libero commercio Trans Pacific Partnership (TPP) abbia un alto valore strategico per gli Stati Uniti, come pilastro economico dell’anti-cinese Pivot to Asia e da contrappeso alle iniziative economiche cinesi che potrebbero espanderne pericolosamente l’influenza [PerLez 2015)], è da pochi messo in dubbio. E quei pochi che ancora di dubbi ne nutrano conviene prestino attenzione ad alcune coincidenze temporali assai particolari. Il giorno successivo all’approvazione dei dodici Paesi aderenti, l’ammiraglio statunitense Scott Swift, comandante della flotta del Pacifico ha puntato il dito contro “alcune nazioni che continuano ad imporre controversie e limiti alla libertà di navigazione nei mari dell’area” – chiaro riferimento a Pechino – e proprio per questo “la flotta Usa del Pacifico resta impegnata come non mai per garantire la libertà dei mari. In parole povere, noi continueremo ad esercitare la libertà dei mari a tutela di tutte le nazioni, perché sappiamo dalla dolorosa esperienza passata che sottrarsi a questo obbligo e responsabilità, mette molto più a rischio gli interessi marittimi di qualsiasi nazione”. E da parte sua il segretario alla Difesa Ash Carter è stato ancora più chiaro in un discorso tenuto all’Università dell’Arizona:

Ma il TPP ha anche forte senso strategico, ed è probabilmente una delle parti più importanti del riequilibrio. E questo è il motivo per cui ha ottenuto un sostegno bipartisan. In realtà, non ci si aspetterebbe di sentire queste considerazioni da un Segretario della Difesa, ma nei termini più ampi nel nostro riequilibrio, la conclusione del TPP è importante per me, come un’altra portaerei. Potrebbe approfondire le nostre alleanze e partnership all’estero e sottolineare il nostro impegno duraturo per la regione Asia-Pacifico. E ci potrebbe aiutare a promuovere un ordine globale che riflette sia i nostri interessi che i nostri valori [CarTer 2015].

Passiamo, per concludere, all’aspetto più propriamente diplomatico-militare del Pivot to China e alla rete di accordi che sostanzia la politica di accerchiamento anti-cinese. Durante l’ultimo summit dell’Apec, Obama ha reso noto che nei prossimi due anni gli Usa forniranno a Filippine, Vietnam, Indonesia e Malaysia 250 milioni di dollari in aiuti militari. Di questi, ben 79 milioni spetteranno a Manila, con la quale è in via di ampliamento il rapporto militare, dopo che proprio le basi militari a stelle e strisce erano state chiuse nei primi anni ‘90. Il nuovo patto decennale dell’aprile del 2014 – che per evitare la proibizione di basi permanenti sancita nella Costituzione dell’ex colonia di Washington ricorre alla formula della “presenza a rotazione” – prefigura un ritorno potenzialmente massiccio delle forze armate a stelle e strisce sul suolo filippino: l’Enhanced Defence Cooperation Agreement – questo il nome dell’accordo – consente al Pentagono l’accesso “temporaneo” a una serie di basi e il posizionamento di aerei e navi da guerra in porti e aeroporti del Paese [Carrer 2014]. Le Filippine, a loro volta, hanno firmato un patto di partenariato strategico per la cooperazione marittima e stretto relazioni con il Giappone per ottenere equipaggiamento militare da usare nel Mar cinese meridionale.

E gli Stati Uniti hanno rafforzato un patto di difesa, che risale alla fine della seconda guerra mondiale, proprio con il Giappone, che ora, però, nell’ottica del riequilibrio in funzione di “contenimento” della crescita del potere cinese, ha avviato anche un processo di revisione costituzionale che gli permetterà di svolgere un ruolo più attivo nel contesto dell’Asia orientale, anche di supporto politico e militare ai Paesi coinvolti in dispute di sovranità con Pechino. L’accordo dell’ottobre 2013, a detta del New York Times, oltre ad approfondire una storica alleanza, amplia il “ruolo del Giappone nel tentativo di mostrare la volontà americana di rimanere una presenza dominante nella regione” e ribadisce “gli sforzi dei due Paesi nella risposta alle crescenti sfide provenienti dalla Cina e dalla Corea del Nord in periodo di restrizioni di bilancio”. Quali sono i contenuti dell’intesa stretta durante la visita del segretario di Stato John Kerry e dell’allora ministro della Difesa Chuck Hagel? Oltre al permesso concesso agli Stati Uniti per la costruzione di un nuovo sistema radar in banda X a Kyogamisaki (non lontano da Tokyo), per la prima volta droni statunitensi avrebbero avuto base anche in Giappone e permesso ai comandi Usa di monitorare facilmente il Mar cinese orientale, comprese le isole Diaoyu/Senkaku, oggetto di contesa tra Pechino e Tokyo e in relazione alle quali Kerry riconosceva l’amministrazione giapponese e, di conseguenza, la copertura del Trattato di sicurezza. A questo si aggiungeva lo stanziamento di due squadroni di MV-22 Osprey, aerei in grado di decollare e atterrare verticalmente, ognuno dei quali può trasportare una ventina di marines anche su lunghe distanze, e, a partire dal 2017, cacciabombardieri di quinta generazione F-35B Joint Strike Fighters. Per far fronte agli sviluppi della Marina militare cinese, la Us Navy avrebbe spostato inoltre anche esemplari del nuovissimo P-8 Poseidon, versione “navale” del Boeing 737, dotato di attrezzatura sonar, potenti radar, siluri e missili anti-nave Harpoon [cfr. FOREIGN POLICY 2013; NEW YORK TIMES 2013].

Iniziato nel 2013, nel settembre del 2015 è giunto a compimento il processo di revisione della Costituzione pacifista giapponese, processo che, proprio nell’accordo di cui sopra, aveva ricevuto luce verde da parte dell’amministrazione Obama. Ora Tokyo, nonostante una forte opposizione popolare, potrà utilizzare le Forze di autodifesa nel caso in cui “l’esistenza del Paese fosse minacciata” o in caso di attacco armato contro il Paese stesso o a “Paesi con i quali esistono stretti legami” [FaTTon 2014]. Le conseguenze sono facili da comprendere: un ruolo più attivo per il Giappone nell’alleanza con gli Stati Uniti; l’esercizio del diritto di difesa collettiva permetterà un maggiore impegno nella cooperazione militare anche in teatri lontani da quello asiatico e, soprattutto, aumenta il valore del Giappone come potenziale alleato di probabili partner come Filippine, Australia e Vietnam. Tanto più che il governo del premier Abe ha poi preso la decisione – anch’essa storica – di togliere l’embargo sull’esportazione delle armi in vigore da quasi mezzo secolo. Un nuovo sistema di alleanze, di supporto al Pivot obamiano, è ora più che mai possibile in Asia.

Va infine ricordato come, nel dicembre 2015, a circa un mese di distanza dalle elezioni presidenziali di Taiwan, l’amministrazione Obama ha annunciato la propria volontà di procedere alla consegna di quattro fregate a Taipei, in base al Naval Transfer Act authorizing e al Taiwan Relation Act (1979); quest’ultimo impegna Washington a difendere la “provincia ribelle” e garantirne la sicurezza militare. Una provocazione, in questo caso, dal duplice aspetto: da una parte si entra ancora una volta a gamba tesa in una questione interna cinese, mentre è in atto un processo di progressivo riavvicinamento; dall’altra, si lancia un assist diplomatico alle forze cosiddette “indipendentiste”.

Mentre terminiamo di scrivere, due importanti iniziative si sviluppano nell’immediata periferia di Pechino. È ufficializzato l’avvio dei colloqui tra Stati Uniti e Corea del Sud per l’implementazione di un sistema di difesa antimissilistico – Terminal High Altitude Area Defense System (THAAD) – la cui dichiarata natura difensiva in caso di un eventuale attacco della Corea del Nord non esclude certo il suo utilizzo per il controllo degli sviluppi militari cinesi, ponendo in essere un’ulteriore minaccia alla sicurezza di Pechino, che si troverebbe sotto casa un sistema militare avanzato e sotto controllo statunitense, con ricadute sugli sviluppi del rapporto diplomatico con Seoul [Tiezzi 2016]. E quest’ultima è impegnata dal 7 marzo fino a fine aprile nelle più imponenti esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti nella storia della penisola asiatica, con la partecipazione di 300mila soldati sudcoreani e 17mila statunitensi impegnati in un piano di guerra che prevede attacchi chirurgici contro le strutture militari nordcoreane e incursione di forze speciali per decapitare la leadership comunista (piano “Oplan 5015”). Per le esercitazioni sono inoltre mobilitate punte di diamante tecnologiche come gli F22, un sommergibile e una portaerei entrambi a propulsione nucleare [FiFieLD 2016]. 

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