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Il Medio Oriente è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione 

Intervista* a Michel Collon

Proponiamo di seguito l’intervista integrale al giornalista d’investigazione belga Michel Collon apparsa sull’edizione di maggio 2016 del quadrimestrale d’approfondimento marxista #politicanuova, a cura di Aris Della Fontana e Raffaele Morgantini

482f4a8618323 zoom1. Quali sono le principali caratteristiche dei rapporti tra Occidente (Usa ed Europa) e Medio Oriente a partire dai momenti conclusivi del Novecento? Quale funzione svolge il Medio Oriente all’interno delle strategie geo-politiche e geo-economiche occidentali?

Il Medio Oriente, inteso in senso ampio, quindi comprendente anche il Maghreb, la penisola arabica, il Corno d’Africa e paesi asiatici quali l’Afghanistan e il Pakistan – di fatto quel “Grande Medio Oriente” concepito dall’amministrazione statunitense -, è l’oggetto di una guerra di ricolonizzazione, innescata nel 1991 con la prima guerra del Golfo. A quel tempo Saddam Hussein cadde in una trappola: gli si fece credere che gli Stati Uniti non si sarebbero mossi laddove egli avesse tentato di recuperare il Kuwait, sottratto all’Iraq dal colonialismo britannico; ma George Bush senior, invece, intervenne. Lo scopo degli Stati Uniti era quello di distruggere l’Iraq assieme a Saddam Hussein perché quest’ultimo aveva commesso l’imperdonabile errore di sollecitare gli arabi e più in generale il Medio Oriente alla ricerca dell’indipendenza rispetto agli Stati Uniti, alla resistenza rispetto ad Israele e all’utilizzo del petrolio al fine di ingenerare uno sviluppo autonomo che mettesse fine alla colonizzazione economica della regione. Così facendo Saddam Hussein, come tutti quei dirigenti arabi che storicamente si sono mostrati troppo indipendenti rispetto agli Stati Uniti e al colonialismo in generale, firmò la sua condanna a morte: si tentò dunque di abbatterlo, ma la resistenza irachena si rivelò molto forte, e inoltre non si riuscì a contare su personaggi corrotti interni al paese né ad organizzare la divisione tribale di quest’ultimo.

La guerra, in ogni caso, indebolì molto l’Iraq, e servì da avvertimento generale ai paesi arabi, africani e asiatici. Possiamo dire che, con il 1991, si aprì un periodo nuovo: parallelamente alla caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti avviarono la ricolonizzazione di tutto quanto, precedentemente, avevano perduto: i paesi del Terzo mondo divenuti indipendenti nel Medio Oriente e in Africa, assieme ai paesi dell’Europa dell’Est. L’obiettivo era quello di instaurare un nuovo ordine a livello mondiale in cui gli Stati Uniti si fossero imposti quale unica superpotenza – e, in tal senso, era ottimo che la Russia eltisiniana si fosse fortemente indebolita, mentre l’Europa andava mantenuta quale vassallo subordinato e il processo di crescita della Cina andava in qualche modo depotenziato.

 

  1. Quali fattori hanno portato gli Stati Uniti ad avviare una tale dinamica? E, all’interno di quest’ultima, quale funzione ha svolto il Medio Oriente e quale invece Israele e le petro-monarchie del Golfo? L’Europa, dal canto suo, come si posiziona?

Ragione principale alla base d’un tale progetto è stata la crisi economica che attanagliava gli Stati Uniti dal 1973, se non da prima: il paese si era indebolito economicamente, il tasso di profitto evidenziava un’importante caduta, e inoltre, se, da una parte, la delocalizzazione delle aziende di vari settori produttivi (tessile, automobilistico, informatico) aveva fatto aumentare i guadagni delle multinazionali statunitensi e permesso agli Stati Uniti di avvantaggiarsi rispetto ad Europa e Giappone, dall’altra, essa aveva assestato un duro colpo alla base economico-produttiva nazionale e, ancora, aveva indebolito in modo importante il potere d’acquisto dei consumatori statunitensi. Di conseguenza, dati questi presupposti, gli Stati Uniti, con uno squilibrio della bilancia dei pagamenti e con un profondo deficit dei conti statali – reso maggiormente acuto dalle dispendiose politiche militari -, sono via via diventati dipendenti dal credito.

Nel quadro del processo di rivalsa coloniale e soprattutto nel tentativo di acquisire un potere mondiale unipolare, il controllo del Medio Oriente si è rivelato, per gli Stati Uniti, un’arma d’importanza basilare: l’obiettivo, a tal proposito, non era tanto quello di assicurare le proprie forniture petrolifere – gli Stati Uniti importavano petrolio prevalentemente da territori vicini quali il Messico e il Venezuela (dall’Arabia Saudita proveniva solo il 19% della quantità totale) – quanto quello di controllare – in termini strategici – l’approvvigionamento dei rivali (Europa, Giappone, Russia e Cina). Oggi, 25 anni dopo la prima guerra del Golfo, la strategia in questione si è rafforzata. Obama ha indicato con chiarezza che l’obiettivo centrale è il controllo dell’Asia: egli, del resto, non fa altro che applicare le indicazioni del suo maître à penser, Zbigniew Brzezinski, il quale, a suo tempo, spiegò che se gli Stati Uniti avessero voluto restare i signori del mondo avrebbero dovuto controllare l’Eurasia, ossia la zona ove è presente la maggior parte della popolazione, della produzione e della ricchezza mondiale – e la crescita della Cina ha confermato ciò. Secondo Brzezinski, al fine di controllare effettivamente l’Eurasia, occorre impedire ai vari vassalli di unirsi: Russia e Cina, a tal proposito, devono rimanere ben divisi – politicamente ed economicamente – dall’Europa e, in modo particolare, la Russia non si deve connettere alla Germania. Di fatto, quindi, i paesi dell’Europa non posseggono un’indipendenza integrale rispetto agli Stati Uniti. Emblematica, in tal senso, la celeberrima esclamazione dell’inviato speciale statunitense per l’Ucraina Victoria Nuland, «Fuck the EU», che evidenzia la ben scarsa considerazione, da parte statunitense, delle posizioni dei partner europei1.

Israele e le petro-monarchie del Golfo rappresentano dei pilastri molto importanti al fine di mantenere il controllo sul Medio Oriente: gli Stati Uniti, infatti, non sono in grado di garantire un attivo e sistematico intervento nella regione – cioè attraverso invasioni via terra o colpi di stato, entrambe le azioni essendo alquanto pericolose – e quindi Israele, una forza di valenza militare, e le petro-monarchie del Golfo, una forza di valenza economica, si rivelano funzionali a dividere il Medio Oriente.

 

  1. Il concetto di «primavere arabe» ha raccolto nello stesso contenitore numerosi processi aventi carattere regionale e/o nazionale. Ritieni che tale concetto sia effettivamente in grado di contenere in modo esaustivo quanto sotto di esso è stato posto?

Quello di «primavere arabe» è un concetto fasullo [concept bidon], fabbricato dagli esperti di comunicazione psicologica e di manipolazione dell’opinione. Esso è funzionale a velare due fondamentali elementi. In primo luogo, il fatto che gli Stati Uniti e l’Europa hanno sostenuto [maintenu en place] e protetto sino all’ultimo momento dittatori arabi come Ben Ali e Mubarak. In secondo luogo, il fatto che gli Stati Uniti – molto lungimiranti e con ciò sempre pronti ad anticipare il maturare dei processi -, sapendo che Ben Ali e Mubarak erano personaggi politici finiti – rivolte terribili non potevano che sorgere sia date una dittatura e una corruzione inaccettabili sia dato l’accumulo scandaloso di ingenti quantità di ricchezza in antitesi a una condizione di spaventosa povertà -, hanno preparato la loro sostituzione. A tal proposito, in Egitto e in Tunisia, si sono avuti degli scioperi operai e delle rivolte molto importanti, ma sono stati stroncati dal governo con l’aiuto e il sostegno di Stati Uniti ed Europa. La strategia occidentale consisteva nel tentativo di controllare l’esplosione delle proteste affinché si potessero alleviare [soulager] le frustrazioni ma, nel contempo, impedire che a livello politico qualcosa effettivamente cambiasse: ciò è stato conseguito sacrificando qualcheduno, come Mubarak, Ben Ali e i loro più stretti seguaci, ma mantenendo al loro posto sia le élite sia le istituzioni militari, dividendo i giovani e in generale la società civile e organizzando delle elezioni. Il libro che Investig’Action ha recentemente pubblicato, “Arabesque$. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes”2, scritto da Ahmed Bensaada, mostra con evidenza il modo con cui gli Stati Uniti hanno individuato, comprato, condotto negli Stati Uniti e formato i cosiddetti young leaders – i dirigenti di domani, preparati appositamente al fine di giocare un ruolo nell’ammaestramento della rivolta popolare affinché essa non si sviluppasse in una direzione eccessivamente radicale e cioè che non diventasse una vera rivoluzione sociale e politica.

 

  1. Per il caso libico e per quello siriano si può parlare di uno snaturamento sostanziale delle proteste ad opera degli attori esterni? Cioè, se inizialmente si sono presentate legittime ragioni di malcontento relative a contraddizioni interne, successivamente c’è stata una deformazione e con ciò un ingigantimento dei motivi e dei moti di protesta? Come districare la matassa che lega protestanti sinceri, fondamentalisti e attori eterodiretti?

In Libia e in Siria – certamente – vi erano delle legittime ragioni di manifestare.

Per la Libia non parlerei di problematiche sociali: Gheddafi ridistribuiva i proventi del petrolio e, inoltre, aveva concesso [avait accordé] un livello di vita estremamente elevato a tutti i libici: l’educazione e la sanità erano gratuite, e le politiche dell’alloggio avevano permesso una buona accessibilità. Vero è che negli ultimi anni si erano avute delle misure che avevano ridotto questo Stato sociale – misure che, peraltro, erano state prese a seguito della pressione e dei consigli degli Stati Uniti e degli altri popoli sedicenti liberi; ma, ciononostante, in Libia c’era il più alto livello di vita dell’Africa. La Libia, d’altro canto, non era definibile una democrazia liberale: essa aveva bensì l’aspetto d’un regime autocratico. E però, a tal proposito, il dato centrale risiede nel fatto che in Medio Oriente c’erano e ci sono ordinamenti politici ben peggiori, come l’Arabia Saudita, il Qatar e il Kuweit – di conseguenza, se veramente gli Stati Uniti avessero voluto solamente instaurare una democrazia liberale (che, in ogni caso, non può essere imposta dall’esterno con le bombe), avrebbero dovuto cominciare da questi ultimi. In Libia la protesta – come ho spiegato nel mio libro “Libye, Otan et médiamensonges”3 – è stata manipolata e, molto velocemente, orientata [détournée] verso un altissimo contenuto di violenza, della quale sono stati responsabili i terroristi islamisti rispondenti alla sezione libica di al-Qaida: dal secondo giorno di manifestazioni sono apparsi missili e armi anticarro, e si è assistito all’attacco delle prigioni finalizzato alla liberazione dei terroristi ivi prigionieri. Insomma, non si è trattato propriamente di manifestazioni pacifiche.

In Siria c’erano legittime ragioni di carattere politico che hanno portato a manifestare. Anche la Siria, infatti, non può essere definita una democrazia liberale. C’erano inoltre delle ragioni di carattere socio-economico, date dal fatto che anche in questo paese si era avuto un ridimensionamento dello Stato sociale (e, come nel caso libico, gli Stati Uniti si sono distinti per le pressioni volte al varo di riforme neoliberali) – la Siria era un paese meno ricco rispetto alla Libia, ma comunque pure ivi erano attive forme di socialità relativamente consistenti se paragonate alla miseria di altri paesi circostanti. Ad essere colpiti in modo particolarmente acuto da queste riforme sono stati i contadini, i quali parallelamente avevano dovuto sopportare due annate filate di siccità: essi si sono perciò ritrovati in grosse difficoltà a livello finanziario e sociale. Il copione, a questo punto, è grosso modo lo stesso: le legittime ragioni di protesta sono state ben presto messe a frutto dagli attori esterni, Stati Uniti in primis, la cui volontà di rovesciare Assad era tale già da diversi anni: l’ex Ministro degli affari esteri di Francia Roland Dumas (1984-1986, 1988-1993) ha dichiarato che, nel 2009 – cioè ben due anni prima delle manifestazioni -, era stato avvicinato, a Londra, da agenti inglesi i quali, comunicandogli che la Siria sarebbe stata presa di mira, lo interrogarono circa la volontà francese di partecipare a ciò4. Ci sono poi molti altri documenti e rivelazioni di giornalisti, statunitensi e non, che mostrano con chiarezza l’effettiva preparazione di un’offensiva nei confronti della Siria.

Appare alquanto chiaro come una grande potenza non abbia alcun motivo valido di sferrare un attacco contro un paese per il fatto che all’interno di quest’ultimo si stiano svolgendo delle manifestazioni di protesta, ché di esse ve ne sono pressoché dappertutto tutti i giorni. Gli Stati Uniti, invece, intervengono al fine di esacerbare le tensioni, operare delle provocazioni, trarre un pretesto dal caos ingenerato per pretendere e prendere delle sanzioni economiche e militari e, infine, effettuare un cosiddetto regime changhe.

 

  1. Nei tuoi interventi hai sostenuto l’operare di una «propaganda di guerra» finalizzata a legittimare l’intervento militare occidentale. In tal senso, hai individuato i cinque principi costituenti di tal narrazione: ce ne puoi parlare?

C’è una cosa che una grande potenza intenzionata a muovere una guerra non potrà mai dire: la verità. «Facciamo questa guerra per impadronirci della ricchezza della regione»; «questo paese mette in pericolo la nostra supremazia»; «questa guerra è necessaria per i profitti delle nostre multinazionali»: sono tutte dichiarazioni che mai si sentiranno pronunciare ufficialmente. Queste ragioni vanno oscurate, perché evidentemente c’è bisogno che l’opinione pubblica – il contribuente finanziario – sostenga queste onerose operazioni. La cinque regole della propaganda di guerra rispondono a questa necessità. 

1. Nascondere il fatto che, alla base, stiano determinati interessi economici. Se il Medio Oriente non fosse un campo di petrolio bensì di carote, gli Stati Uniti avrebbero le stesse ragioni per spendere, ogni anno, tre o quattro miliardi di dollari per fare d’Israele il guardiano della regione? E se l’Iraq non contenesse nient’altro che sabbia, e non quindi petrolio, gli Stati Uniti avrebbero speso molte energie per far sloggiare un dittatore quando invece, nel contempo, essi ne proteggono molti altri?

2. Invertire i ruoli tra vittima e aggressore: colui che sferra l’attacco militare non può definirsi l’aggressore, egli è infatti la vittima o, anche, il protettore che accorre a soccorso della vittima. Quando Israele passa all’offensiva per annettere dei territori palestinesi, pretende sempre di agire in posizione di legittima difesa contro gli Arabi, che o l’avrebbero attaccato o si preparerebbero a farlo.

3. Offuscare la storia e con ciò fabbricare un pretesto plausibile e inattaccabile – proprio ché non si possono comprendere gli antecedenti e le cause profonde d’un conflitto – per poter intervenire in una data regione. In Ruanda, Francia e Belgio si presentano come forze neutrali; in realtà essi hanno aizzato le etnie una contro l’altra al fine di meglio dividere e con ciò indebolire la loro resistenza.

4. Demonizzare l’avversario – crudele, immorale e pericoloso – e di riflesso convincere l’opinione pubblica del sincero desiderio, da parte delle forze governative, di proteggerla tramite l’eliminazione della minaccia da esso rappresentata. Si tratta, in fondo, di manipolare le emozioni dell’opinione pubblica – che si impaurisce oppure si indigna – impedendole di analizzare lucidamente i reali interessi in gioco.

5. Monopolizzare l’informazione, dando prevalentemente voce alle fonti e agli esperti organici agli teressi dominanti, impedendo così alla popolazione di riflettere sulla base dei due o più punti di vista in campo. Come dimostrato da Noam Chomsky, esiste una vera e propria censura che non pronuncia il proprio nome e che impedisce un effettivo dibattito sul ruolo delle multinazionali, degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in Medio Oriente, come anche in America latina o in Africa. Il discorso massmediatico viene fatto virare su questioni secondarie o totalmente false, ed esso, inoltre, non presenta adeguatamente le posizioni dell’altra parte in causa e in generale le prospettive alternative come quelle proposte dagli analisti che rilevano l’ingiustizia e la strumentalità di queste guerre.

 

  1. Spesso e volentieri, le letture di largo respiro, cioè quelle analisi costruite da ramificazioni causali che tendenzialmente assorbono le varie dinamiche in un disegno complessivo, vengono accusate di avere una natura “complottista”. Come è più adeguato rispondere a questo tipo di accuse – nel caso concreto finalizzate a svalutare l’attendibilità delle posizioni anti-imperialiste?

In genere nei miei scritti cito testi, dichiarazioni e rapporti provenienti dai dirigenti politici degli Stati Uniti oppure dai responsabili della strategia di questo paese: li faccio parlare. Domandiamoci: quando Hillary Clinton afferma che gli Stati Uniti hanno creato al-Qaida, è anch’essa complottista? E quando il già citato Brzezinski ammette di essere il responsabile dell’invio di Osama bin Laden in Afghanistan e della crescita dell’islamismo, è anch’egli un complottista? E, se io li cito, divento un complottista? Non credo proprio.

Credo occorra porsi altre tre domande.

I complotti esistono? Sì, essi hanno un’esistenza reale. La definizione che ne dà un vocabolario è molto chiara: stiamo parlando di una manovra, di una cospirazione, di un’intesa segreta, tra più soggetti, finalizzata a conseguire uno o più obiettivi. Nella storia politica degli Stati Uniti – come in quella degli altri paesi – ci sono stati dei complotti, ad opera di determinate personalità, le quali hanno mantenuto le loro azioni celate all’opinione pubblica nazionale e internazionale. La faccenda relativa al presunto possesso, da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, di armi di distruzione di massa, è un caso emblematico: George W. Bush e Tony Blair hanno fatto in modo fossero redatti falsi rapporti che dimostrassero le loro pretestuose tesi. Ma si pensi anche all’Operazione Gladio, promossa dalla Cia in Europa al fine di seminarvi il panico, giustificare l’adozione di politiche repressive e impedire ai comunisti di andare al governo: essa rappresenta un complotto i cui dettagli sono oggi appurabili. E, di complotti di tal genere, se ne svolgono in modo periodico. E – detto tra parentesi – ci sono pure i “complotti di sinistra”: quando Fidel Castro ed Ernesto Che Guevara organizzano di nascosto il rovesciamento della dittatura militare di Fulgencio Batista e con essa la dominazione statunitense su Cuba, essi effettuano nient’altro che una cospirazione, che fortunatamente ha avuto successo.

Ma, alla luce di ciò, possiamo comprendere tutta la politica e la storia facendo uso dei complotti? No. Oggi, pensatori appartenenti all’estrema destra francese ed europea credono di poter spiegare la crisi economica, la crescita delle ineguaglianze, la povertà, come se tutto ciò fosse un complotto ordito dalle banche, o dagli ebrei, o dai massoni o, ancora, dai dirigenti statunitensi. Credo che di fronte a tali questioni si debba essere chiari: non esiste nessuno in grado di controllare l’economia al punto da poter provocare una crisi. L’economia capitalista funziona attraverso leggi intrinseche e cioè in modo tendenzialmente autonomo rispetto alle volontà e ai progetti degli attori umani (singoli o collettivi). L’economia capitalista – concretamente – si basa sulla proprietà privata dei grandi mezzi di produzione: in virtù di ciò i proprietari possono decidere ciò che deve essere prodotto e a quale prezzo, e possono fissare le retribuzioni salariali; c’è poi anche il momento della concorrenza tra i capitalisti, che si lega a filo doppio all’assenza d’una pianificazione della produzione: ognuno, all’interno di questa dinamica, perseguendo la legge della massimizzazione del profitto, tenta di guadagnare più degli altri, sia attraverso la compressione dei costi del lavoro e delle materie prime, sia precipitandosi nei settori maggiormente redditizi e con ciò investendo nell’innovazione tecnologica funzionale all’incremento della produttività. Ma ciò genera tre conseguenze alquanto rilevanti: il montante sfruttamento del lavoro indebolisce il potere d’acquisto e di riflesso una quota maggiorata di prodotti resta invenduta; i capitalisti, investendo nello stesso momento in quei settori che appaiono più redditizi, elevano la capacità di produzione in modo sproporzionato rispetto alle reale possibilità di assorbimento del mercato (il caso dell’industria automobilistica è emblematico: ogni anno si sfornano 25 milioni di auto in più di quanto il mercato può assorbire) e così si genera un enorme spreco di forze produttive; il miglioramento delle tecniche produttive, dal canto suo, se da un lato aumenta la produttività, dall’altro, in termini complessivi, dato che comporta un relativo aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile (il solo creatore di plusvalore e quindi di profitto), conduce ad una flessione del saggio di profitto complessivo. Così ha origine la crisi di sovrapproduzione, la quale porta con sé diminuzione degli investimenti, chiusura degli stabilimenti, licenziamenti, diminuzione dei salari e altre similari reazioni, che non fanno altro che incrinare ulteriormente la situazione economica complessiva. Grosso modo da quarant’anni ci troviamo in questo tipo regime. E non c’è alcun dirigente politico né capitalista – per nulla interessato al fatto che si produca in funzione dell’interesse della popolazione e secondo una forma di pianificazione – che possieda gli strumenti per risolverne le contraddizioni. Bisogna dunque smetterla di fantasticare pensando che la crisi sia il frutto d’un complotto voluto da banche o da non so chi altro; la crisi è un prodotto inevitabile del capitalismo, e le guerre sono condotte per conseguire interessi economici e sono la diretta conseguenza delle politiche economiche delle grandi potenze, intenzionate sia a controllare le materie prime, a non pagarle e ad impedire che i rivali se le aggiudichino, sia ad ottenere nuovi mercati per le loro merci, sia, infine, a procurarsi manodopera a basso costo. Come ebbe a dire all’inizio del XX secolo Jaen Jaurès, «le capitalisme porte en lui la guerre comme la nuée porte l’orage». Il complottismo, quindi, è un’assurdità dal punto di vista dell’analisi teorica – anche se, evidentemente, i complotti si fanno per fabbricare pretesti, nascondere le vere ragioni e per conseguire altri obiettivi strumentali.

Ma perché, allora, ci sono persone come Bernard-Henri Lévy o Caroline Fourest che utilizzano quale spauracchio la questione della teoria del complotto laddove si critichi la politica statunitense, europea ed israeliana, laddove si critichino le politiche coloniali? La ragione è semplice: essi non possiedono altri argomenti, non hanno assolutamente nulla da ribattere allorquando gli si presenta sotto gli occhi un’analisi basata sui fatti oggettivi, allorquando si dà la parola alle vittime, allorquando, in fin dei conti, si esce dal perimetro del pensiero dominante amministrato dalle élite occidentali. È continuamente in atto una battaglia ideologica che ruota attorno alla spiegazioni di fenomeni quali le contraddizioni economiche, le cause della povertà e delle ingiustizie, la guerra e il terrorismo. Le classi dominanti auspicano che i giovani e i lavoratori accettino le letture dominanti e che non si pongano altre domande. La precisa funzione di uno spauracchio quale la sempre in agguato accusa di complottismo, in questo senso, è quella di impedire che la gente rifletta autonomamente.

 

  1. Concretamente, i pacifisti e gli anti-imperialisti occidentali come si devono muovere?

Penso che la sparizione, in Europa occidentale, del movimento contro la guerra sia una vera e propria tragedia. Nel passato si sono avuti dei grandi movimenti che si opponevano alle politiche guerrafondaie: i lavoratori scioperavano per impedire che le navi caricassero le armi che sarebbero poi state usate nelle guerre coloniali, una quota importante di giovani rifiutava di servire negli eserciti, c’erano fenomeni di disobbedienza, e gli intellettuali si mobilitavano per lanciare appelli contro la guerra e per la costruzione di un movimento per la pace.

Dopo la prima guerra del Golfo si è avuta praticamente una guerra all’anno – considero anche le guerre non dichiarate e le cosiddette proxy wars. Ma la popolazione non si è mobilitata. È vero che nel 2003 c’è stato un grande movimento contro la guerra, quando George W. Bush attaccò l’Iraq; ma nel caso specifico va tenuto conto di due fenomeni eccezionali. Bush, coi suoi metodi, ha fatto ben comprendere a tutti che si trattava d’una guerra per il petrolio; inoltre, alcuni paesi europei si sono opposti denunciando l’azione statunitense (comprendendo come si trattasse, anche, di una guerra contro l’Europa): ciò ha aperto uno spazio di discussione che rese possibile che sui media si parlasse esplicitamente di “guerra per il petrolio”.

Ma nel 2011 per la Libia od oggi per la Siria sui media non si può leggere che le guerre sono fatte per interessi economici; e come se non bastasse, non è sorto alcun movimento che sensibilizzi e faccia contro-informazione. Questo è anche la conseguenza della capitolazione della sinistra – per non parlare dei socialisti al governo – e dei suoi intellettuali; le “mediamenzogne” vengono accettate, senza ricercare altre spiegazioni, e, inoltre, non si osa difendere determinati governi i quali, pur non essendo delle democrazie liberali e pur non essendo di sinistra, difendono almeno la sovranità del loro paese e con essa il diritto alla libera gestione delle loro ricchezze. La sinistra occidentale, insomma, non conducendo più una lotta contro il colonialismo e la guerra, ha commesso un vero e proprio tradimento nei confronti della sua storia: di ciò non potranno non tenere conto i progressisti delle prossime generazioni, chiamate a ricostruire al più presto un movimento per la pace di cui i popoli del Sud hanno assolutamente bisogno.

* Intervistatori Aris Della Fontana e Raffaele Morgantini

Note
[1] In italiano, una possibile traduzione della citata esclamazione potrebbe essere la seguente: «E per quel che riguarda l’Unione Europea […], vada a farsi fottere!». Viktoria Nuland è massimo responsabile statunitense per i rapporti con l’UE e all’epoca della presidenze di George W. Bush è stata consigliera in materia di politica estera del vicepresidente Dick Cheney. Nuland ha affermato quanto sopra durante una telefonata – realizzata nel gennaio 2014 – con l’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt, in cui si è discussa la possibilità di trovare un accordo tra il governo ucraino di Viktor Ianukovich e l’opposizione guidata da Vitali Klitschko. Per maggiori informazioni, si veda s.n., “’L’Unione europea si fotta’, l’audio della diplomatica che imbarazza gli USA”, IlFattoQuotidiano.it, 6 febbraio 2014 (http://goo.gl/U269Gh).
[2] Ahmed Bensaada, Arabesque$. Enquête sur le rôle des États-Unis dans les révoltes arabes, Investig’Action, 2015
[3] Michel Collon, Libye, Otan et médiamensonges, Investig’Action – Couleur livres, 2011
[4] Qui è possibile visualizzare il video della dichiarazione di Dumas: https://goo.gl/3xk5N4  

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