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La morte definitiva (e la prossima vita) di Keynes

James K. Galbraith

Trascrizione, con il gentile permesso dell’autore, del discorso di apertura di James K. Galbraith al quindicesimo congresso annuale “Dijon” sull’economia post-keynesiana, alla Roskilde University presso Copenhagen, Danimarca, il 13 maggio 2011.

È per me ovviamente un grande privilegio essere qui in questo ruolo e specialmente in occasione del settantacinquesimo anniversario della pubblicazione della Teoria Generale.

Due anni fa, come forse ricorderete, la nostra professione godette di un momento di fermento. Economisti che si erano costruiti la carriera sull’attenzione all’inflazione, le aspettative razionali, gli agenti rappresentativi, le ipotesi di efficienza dei mercati, i modelli dinamico-stocastici di equilibrio generale, le virtù della deregolamentazione e delle privatizzazioni e della Grande Moderazione, furono costretti dagli eventi a tacere temporaneamente. Il fatto di aver avuto torto in modo assurdo, cospicuo e in alcuni casi addirittura riconosciuto, impose persino un po’ di umiltà ad alcuni. Un intellettuale statunitense di vertice in politica legale, compagno di viaggio della Scuola di Chicago, annunciò la sua conversione al keynesismo come se fosse una notizia.

L’apogeo di tale momento fu la pubblicazione sull’edizione domenicale del New York Times del saggio di Paul Krugman ‘Come gli economisti si sono sbagliati’. E in esso, ho notato, Krugman ha ammesso, cito, che:

… alcuni economisti hanno contestato l’assunto del comportamento razionale, messo in discussione il credo che ci si possa fidare dei mercati finanziari e additato la lunga storia di crisi finanziarie che hanno avuto conseguenze economiche devastanti. Ma nuotavano controcorrente, incapaci di fare molti passi in avanti contro una pervasiva e, in retrospettiva, stupida compiacenza.

E devo dire, guardando a questo uditorio, che sarebbe corretto essi sono stati più che soltanto alcuni ed è un piacere essere con voi.

Attenendosi alla prassi convenzionale, Krugman non ha fatto il nome di quasi nessuno. Perciò, in un saggio di risposta intitolato ‘Chi erano, comunque, quegli economisti?’ ho descritto il lavoro dimenticato, ignorato e negato della seconda e terza generazione largamente nella tradizione, anche se non interamente, di Keynes che l’ha detta giusta.

Avrei potuto citare molti più di quanto ho fatto, compresi molti in questa sala.

Permettetemi perciò di cominciare distinguendo tra i tre principali indirizzi del pensiero keynesiano che in effetti hanno visto giusto, che hanno avuto rilievo e applicazione negli eventi attraverso i quali siamo appena passati. E onorerò gli amati e ben ricordati identificando questi indirizzi con Wynne Godley, Hyman Minsky e Galbraith padre.

Godley, ovviamente, ha lavorato nella tradizione di Keynes, Kuznets, Kalecki e Kaldor dei modelli macroeconomici attenti alle identità contabili del reddito nazionale e alla coerenza tagli le disponibilità e i flussi. Il merito di questo approccio sta nella chiarezza e una relativa assenza di ambizioni esagerate. Modelli di questo tipo non dicono nulla di falso, il che può non sembrare molto, ma è un vantaggio enorme rispetto alla posizione di partenza dell’economia convenzionale che consiste in nulla di vero. E i modelli indirizzano a controllare se le affermazioni di fatto hanno senso considerato tutto ciò che esse possono implicare.

Così, che i surplus federali del bilancio degli Stati Uniti degli ultimi anni ’90 implicassero debiti privati insostenibili era chiaro all’epoca a coloro che lavoravano in questa tradizione. Così come il fatto che il carico del debito delle famiglie era, di nuovo, insostenibile era chiaro nel primo decennio del 2000. Di nuovo, forse non sembra molto, perché è semplicemente un argomento radicato nella contabilità del reddito nazionale, fino a quando non si ricorda che la politica in un paese come gli Stati Uniti è fortissimamente influenzata dalle previsioni macroeconomiche di istituzioni quali l’Ufficio del Bilancio del Congresso che non impongono tali limiti di coerenza ai loro modelli e non controllano per verificare se le previsioni in un settore implicano conseguenze ragionevoli e plausibili in un altro. Per questo motivo, molto di tale lavoro è sostanzialmente privo di senso.

Hyman Minsky ha sviluppato un’economia dell’instabilità finanziaria, dell’instabilità alimentata dalla stabilità stessa, conseguenza intrinseca dell’eccesso di sicurezza combinato con l’ambizione e l’avidità. L’approccio di Minsky, molto diverso da quello di Godley, è concettuale piuttosto che statistico. Un suo merito chiave sta nell’aver posto la finanza al centro dell’analisi economica, analiticamente inseparabile da quella che a volte viene definita l’attività economica reale, per il semplice motivo che le economie capitaliste sono gestite dalle banche. E, ovviamente, la sua seconda grande intuizione riguarda le dinamiche delle transizioni di fase: il famoso movimento dalla posizione limite alla posizione speculativa e posizione insostenibile destinata al collasso della catena di Sant’Antonio che emerge dall’interno del sistema ed è soggetta concretamente alla formalizzazione nelle instabilità endogene dei modelli dinamici non-lineari.

Comprendere Minsky, mi pare, significa andare immediatamente oltre il concetto grossolano del “momento-Minsky”, un concetto che implicati falsamente che ci siano anche momenti non –Minsky. Significa riconoscere che il sistema finanziario è sia necessario sia pericoloso, che una regolamentazione finanziaria severa è sia indispensabile sia imperfetta. Immediatamente l’idiozia della “Grande Moderazione” diviene evidente. Così come nel caso di una qualsiasi macchina, da un’automobile a un reattore nucleare, un lungo passato di prestazioni stabili non prova che i controlli e i sistemi d’emergenza siano perfetti più di quanto possa dimostrare che non sono necessari. Sostenere il contrario, che sia da parte del capo della banca centrale o di un richiedente la proroga di una licenza alla Commissione per la Regolamentazione del Nucleare, è il marchio del fanatico.

La linea di Galbraith è alleata di quella di Keynes, e ne discende, nello stesso senso in cui lo fu il lavoro di mio padre; accettazione del ruolo centrale della domanda aggregata effettiva, della contabilità del reddito nazionale, della visione della vita economica in termini di circuito del credito e dell’ipotesi dell’instabilità finanziaria. Ma è anche inserita in un quadro di istituzioni legali, radicato nel pragmatismo, disegnato da Thorstein Veblen e John Commons, forgiato nell’economia politica del New Deal degli Stati Uniti. Questa tradizione enfatizza il ruolo giocato nelle crisi finanziarie dall’infrazione alla legge e dalla mancanza di autorità e di regolamentazione, e il ruolo giocato dalla tecnologia come strumento nelle mani della finanza al fine di infrangere ed eludere la legge.

Oggi voglio sottolineare questo, e non solo per motivi famigliari, perché ritengo resti la meno familiare delle tre, direi, ampie linee di analisi keynesiane che sono più appropriate per una comprensione di ciò che abbiamo passato e che stiamo ancora passando.

Quando ci si intrattiene con chi segue il pensiero prevalente per quanto riguarda la contabilità del reddito nazionale, almeno si tratta di persone che sanno in che cosa consista la dannata faccenda. E in questi giorni, anche se chissà per quanto a lungo, si può sentir rispettosamente menzionato Minsky persino da gente come Larry Summers, anche se senza segni che lo abbia effettivamente letto.

Quella che non si riesce a ottenere – non in una riunione sponsorizzata dal Fondo Monetario Internazionale, non dai partecipanti all’Istituto per il Nuovo Pensiero Economico – è una discussione seria della legge e delle frodi contrattuali. Ci ho provato, ripetutamente. Nessuno nega, in risposta alla domanda, il ruolo che la frode ha giocato nella crisi finanziaria. Come potrebbe? Ma nemmeno nessuno vuol discuterne. E a me sembra che ciò rifletta una logica che merita di essere indagata.

Perché no? Perché questo è uno dei grandi argomenti tabù della nostra storia economica moderna? Beh, la complicità personale, francamente, gioca un ruolo tra i dirigenti governativi di oggi e di ieri, i regolatori, consulenti e accademici che hanno consigliato e i protagonisti del mercato o coloro hanno incassato provvigioni da chi sul mercato ha operato.

Al congresso dell’INET [Istituto per il Nuovo Pensiero Economico] a Bretton Woods, qualche settimana fa, Summers ha affermato di essere (è stata una splendida frase) … di non essere tra coloro che considerano necessariamente le innovazioni finanziarie come il male. Mi sono preso nota, sentendolo affermare ciò; ho pensato che davvero meritasse una citazione.

C’è una rete di negligenza e complicità lì. Di colpevolezza, accusa che è legittimata dal modo in cui le università sono finanziate e da quel che insegnano.

Ma è più di questo. Permettetemi di inquadrare la cosa in termini più astratti. Direi che la merce è la pietra angolare dell’economia convenzionale. Che la teoria dello scambio richiede la mercificazione di manufatti scambiabili. Senza di ciò non vi è offerta e domanda. Un mondo di contratti, ciascuno basato su un insieme distinto e separato di promesse, ciascuno di un valore pari agli impegni specificamente previsti e alla capacità delle leggi e dei tribunali di farli rispettare è un tipo di mondo diverso. Soltanto perché si attribuisce un nome a un insieme di tali contratti (“obbligazioni assistite da collaterale” o “copertura inadempienze” [‘credit default swaps’, CDS]) e soltanto perché si è in grado di creare qualcosa – si potrebbe anche essere in grado di creare una borsa per trattare questi prodotti – ciò non lo rende merci con un prezzo di mercato credibile.

Qui è la complessità quella che sconfiggerà il mercato con, in linea di principio, una variabilità infinita e, in pratica, con un numero di caratteristiche distinte superiore a quello che si può dominare. Nei grandi volumi, contratti di questo tipo sono di per sé vulnerabili alle frodi. Gli esempi spaziano dalla compagnia telefonica del New Jersey che semplicemente stampa sulle bollette spese inventate nella speranza che nessuno le noti, e per molto tempo nessuno le ha notate, al fatto che quasi nessuno presso il gigante assicurativo AIG si è reso conto che i contratti CDS che la società vendeva contenevano una clausola di collaterali di cassa, qualcosa che sarebbe costato milioni alla società in un momento in cui non aveva accesso alla liquidità. Spaziano da clausole elusive che permettono ai gestori di obbligazioni con collaterale debitorio (CDO) di sostituire mutui peggiori a mutui migliori in pacchetti venduti in precedenza senza informarne gli investitori, al Sistema di Registrazione Elettronica dei Mutui e al dilagante incentivo alle frodi documentali nella procedura di pignoramento.

L’ammissione che la frode è stata presente in questo processo è simile all’espressione “momento-Minsky”. Anche se vera e anche se ammette qualcosa, non inizia neppure a esaurire il caso. Persino dire che le frodi hanno schiacciato il sistema non va abbastanza in là.

Vi raccomando fortemente, se non l’avete già fatto, di leggere il Rapporto della Commissione d’Inchiesta sulla Crisi Finanziaria appena pubblicato negli Stati Uniti, o l’ancor più recente rapporto del Comitato Permanente d’Indagine del Senato, il molti rapporti del Gruppo di Supervisione del Congresso e il rapporto dell’Ispettore Generale Speciale del Fondo per il Soccorso agli Attivi Problematici (SIGTARP). Sono, per inciso, documenti molto, molto buoni, preparati da pubblici dipendenti seri ed è chiaro come il sole: la frode non è stata un baco del sistema, ne è stata una caratteristica. Il termine stesso, insieme con abusivi, enormi, sconsiderati e persino criminogeni, soffonde questi resoconti di ciò che è accaduto.

I seguaci di Godley insegnano che le scorte non possono essere separate dai flussi. I seguaci di Minsky insegnano che la finanza non può essere separata dalla realtà. E la tradizione di mio padre è che la legalità e la tecnologia non possono essere separate. Il mondo finanziario, così com’è, non ha nulla a che fare con il mondo delle merci dell’economia dello scambio con il suo delicato equilibrio di forze interagenti. E’ il mondo della tecnologia all’opera sotto forma di una produzione quasi in serie di documenti legali di complessità incontrollabile. E’ il mondo, in altre parole, della specializzazione evolutiva in una danza infinita del predatore e della preda. In natura, quando i predatori conseguono un vantaggio schiacciante, le prede subiscono un crollo della popolazione, del quale i predatori soffrono a loro volta successivamente. In economia si tratta di crolli finanziari, ma le dinamiche sono sostanzialmente simili.

La frode da parte delle imprese non è una cosa nuova; la frode finanziaria non è una cosa nuova. Ciò che qui è stato nuovo sono state la scala e la complessità delle obbligazioni debitorie, garantite da mutui. I mutui non sono la stessa cosa, diciamo, delle azioni ordinarie che, anche se emesse a milioni, sono, ciascuna, un diritto identico sul patrimonio netto di una società. I mutui sono, ciascuno, un diritto sul flusso di entrate di famiglie diverse, garantite da abitazioni di una diversità resa irriducibile dal semplice fatto che ciascuna di esse si trova in un luogo diverso. I mutui a lungo termine esistono, negli Stati Uniti, sin dal New Deal ma sono stati resi gestibili per decenni dalla loro semplice struttura uniforme, dal loro sostanziale margine di sicurezza e dal fatto che i mercati secondari erano pubblici e imponevano standard a ciò che poteva essere emesso e a ciò che poteva essere trasferito agli organismi creati per rifinanziare tali mercati. E ciò che questo ha significato è stato che il controllo era possibile. E’ potuto esserci un codice ben accettato che stabiliva quel che era giusto e quel che era sbagliato da parte dei professionisti che comprendevano l’etica della cosa e dei dirigenti addetti ai controlli che potevano collaborare con essi in modo abbastanza agevole, per la maggior parte, e intervenire quando venivano alla luce abusi.

Nell’era dei computer, invece, siamo entrati nel mondo di cartolarizzazioni etichettate dai privati, della possibilità di ammortamenti negativi, di mutui a tasso variabile con un ricarico a copertura dell’anticipo. Oh, e documentazione facoltativa!

C’era un vocabolario privato, ben noto nell’industria, che riguardava questi finanziamenti e i relativi prodotti finanziari: prestiti ai bugiardi, prestiti NINJA (i debitori non avevano reddito, né lavoro, né beni), prestiti al neutrone (prestiti che sarebbero esplosi distruggendo le persone ma lasciando intatti gli edifici), rifiuti tossici (il residuo del processo di cartolarizzazione). Suggerisco che questo riveli che coloro che vendevano questi prodotti sapevano o sospettavano che il loro tipo di lavoro non era onesto neppure per l’un per cento. Pensate a un ristorante dove il personale si riferisce al cibo come a immondizia, melma e liquame.

È da apprendere, come facciamo dall’eccellente libro di Bethany McLean e Joe Nocera ‘All the Devils are Here’ [Tutti i diavoli stanno qui] che presso il creatore dominante dei mutui negli Stati Uniti, Ameriquest, i capi degli uffici nutrivano gli addetti alle vendite a base di meta-amfetamine in cristalli per tenerli all’opera. La cosa aggiunge un tocco di dettaglio significativo, così come il fatto che il fondatore di Ameriquest ha finito la carriera come ambasciatore degli Stati Uniti in Olanda.

Rendere comparabili tali complessi e innumerevoli strumenti debitori richiede un approccio statistico basato su indicatori. E ciò ci getta in un mondo che non era immaginabile nel, diciamo, 1927. Il mondo dei punteggi creditizi, delle valutazioni e degli algoritmi, un mondo di strumenti derivati e super-derivati di obbligazioni supportate da mutui residenziali sminuzzati, di obbligazioni con collaterale debitorio, di CDO sintetiche, di CDO sintetiche pareggiate, di CDS [credit default swaps – in pratica assicurazioni sul rischio di insolvenza – n.d.t.], tutti costruiti in modo da garantire la famosa tripla A e da piazzare strumenti che, tanto per cominciare, erano contraffatti; sembravano mutui ma non erano realmente mutui. Riciclati, cioè, trasformati dall’immondizia che erano in obbligazioni da tripla A e ricettati, vale a dire venduti sul mercato degli investimenti legittimi da un intermediario chiamato banca commerciale o banca d’investimenti. Per mettere questi strumenti contraffatti, riciclati e ricettati nella mani del mercato. E chi era il mercato? Michael Lewis, nel suo ‘The Big Short’ [Il grande ammanco] ci dice chi era il mercato. Il mercato aveva un nome nell’industria; usavano dire “a chi vendiamo questa roba?”. E la risposta era: “A Duesseldorf”. [Probabile gioco di parole sul doppio significato di ‘mark’, qui tradotto con ‘mercato’ che sta anche per ‘marco tedesco’ – n.d.t.]

Lo studioso di economia istituzionale, Clarence Ayres, (per portarvi una voce dal mio luogo natale ad Austin, Texas) ha sottolineato con la massima forza il ruolo della tecnologia e il contributo irreversibile dei nuovi strumenti al processo produttivo. In finanza, a me pare, lo strumento è l’algoritmo. Un sostituto radicalmente a buon mercato delle procedure di collocamento, un meccanismo per convertire gli utili finanziari in un casinò computerizzato, in senso stretto, in cui nessuno può essere certo di quanto la casa distorca le regole. Ci siamo limitati a osservare, come ho già citato, che nessuno alla sezione Prodotti Finanziari della AIG sapeva delle clausole di collaterale liquido in tali contratti, che i detentori di CDO sintetiche non sapevano che i mutui solvibili venivano sostituiti da mutui peggiori, che i modelli di valutazione non consideravano il rischio di insolvenza quando i mutui venivano perfezionati con due anni iniziali di tassi allettanti e via di seguito.

Keynes, penso, comprese molto bene questi problemi nella misura in cui, nella sua epoca, entrarono da protagonisti attivi nei mercati speculativi. E ciò lo portò a sostenere che tali mercati dovessero essere limitati, di accesso costoso e limitati a coloro che potevano permettersi di giocare e perdere. Non riteneva che dovessero essere interamente repressi, in parte perché vi speculava e in parte perché, come notoriamente disse, è meglio che un uomo sia tiranno riguardo al suo conto in banca piuttosto che nei confronti di altri uomini. Ma in termini keynesiani, a me pare, ciò che ci ritroviamo dopo il crollo finanziario non dovrebbe essere affatto una sorpresa. Vale a dire che l’incapacità dell’economia mondiale, e particolarmente delle economie finanziarizzate dell’Europa e del Nord America, di riprendersi da questa crisi è un prodotto del carattere della crisi stessa. Assoluta sfiducia che porta a una preferenza assoluta per la liquidità è la conseguenza incurabile, a me pare, della frode finanziaria.

Io dico ‘incurabile’. E’ la diagnosi di una malattia irreversibile. La corruzione e il collasso dello stato di diritto, nella sfera finanziaria, sono fondamentalmente irreparabili. Non è solo il fatto che ripristinare la fiducia richiede molto tempo. E’ che nel nuovo ordine tecnologico in questo campo, la cosa non può essere fatta. Le tecnologie sono progettate per seminare e promuovere la sfiducia ed essa è la conseguenza del loro utilizzo. A me pare che la recente esperienza lo dimostri. E perciò non può esserci ritorno al modo in cui stavano le cose in precedenza. In altre parole, siamo alla fine dell’illusione di un mercato nella sfera finanziaria.

Permettetemi di condurre questa analisi momentaneamente in Europa. In questi giorni parliamo per luoghi comuni della crisi greca, della crisi irlandese, della crisi portoghese e così via, come se si trattasse di eventi finanziari distinti. Ciò rafforza l’impressione che ciascuna possa essere risolta mediante accordi appropriati con i creditori, con quartier generale a Francoforte, Bruxelles, Berlino, Parigi e con i debitori presi uno alla volta. Un buon comportamento, nella forma di un’austerità appropriata, sarà ricompensato con un ritorno a normali condizioni di credito e all’accesso al mercato. Questo, almeno, è l’assunto ufficiale. Il mercato finanziario, in questo immaginario, è severo ma equo, abbatte la sua frusta sui dissoluti ma elogia e premia chi si comporta bene.

Ma che la Grecia abbia un sistema fiscale debole e una grande amministrazione pubblica, è difficile dire che sia una novità. E’ un fatto vero da decenni, trascurato nei tempi buoni e che emerge quando conviene. Che l’Irlanda abbia avuto una bolla immobiliare che era intrinsecamente insostenibile sicuramente non era una novità. Lo shock iniziale all’Europa non è venuto dalla scoperta di questi fatti, è venuto dai mercati statunitensi dei mutui. Quando le banche europee e altri investitori si sono resi conto della misura delle proprie perdite, a cominciare dalla fine del 2008, hanno cercato modi per proteggersi e lo hanno fatto come avrebbe fatto qualsiasi investitore sensato, vendendo le attività deboli e acquistandone di solide: obbligazioni tedesche e francesi e soprattutto titoli del Tesoro statunitensi. È per questo che i rendimenti sono saliti in tutti i piccoli paesi periferici e sono scesi in quelli grandi, nonostante le situazione molto diverse nei paesi che erano stati colpiti duramente.

È ovvio che la Grecia non può attuare il programma che le viene richiesto senza far crollare il proprio PIL e accrescendo perciò il suo rapporto debito/PIL. Ma anche se potesse, un qualsiasi evento che colpisse una nazione europea o, quanto a questo, qualsiasi altro paese al mondo, potrebbe far nuovamente precipitare la Grecia indipendentemente da ciò che la Grecia facesse. Dunque non c’è alcuna soluzione in termini di politica nazionale e nessuna soluzione in termini di mercato finanziario. È questo il significato dei negoziati in corso in Lussemburgo e altrove. Ci sarà una ristrutturazione o l’insolvenza e deve esserci un salvataggio economico e non meramente finanziario. E, oltre a ciò, ovviamente non deve esserci soltanto una nuova architettura europea bensì una nuova architettura finanziaria che non sia costruita intorno alle banche, come accade oggi, e ai mercati del credito così come si sono trasformati nel periodo precedenti la crisi. O si fa ciò o la depressione in Europa non farà che proseguire. Fino a quando, alla fine, l’Unione Europea andrà a pezzi.

È questo che intendo quando affermo che in termini pratici ciò di cui ci occupiamo qui e ciò di cui abbiamo bisogno di riconoscere non è un’interruzione di un lungo processo di crescita economica, una recessione o un qualche sconvolgimento della domanda aggregata. E’ una malattia incurabile al cuore del sistema.

La nostra sfida, in quanto keynesiani, consiste ora nell’elaborazione delle implicazioni pratiche di questa realtà e nella chiara esposizione di una linea d’azione. E forse il primo passo che dobbiamo compiere, a me pare, consiste chiaramente nel condannare quello che definirò il falso keynesismo che è salito per poco tempo al potere nella nuova amministrazione statunitense nel 2009.

A gennaio di quell’anno, come ricorderete, la nuova amministrazione ha annunciato la necessità di un programma di stimolo o di ripresa. Senza di esso l’amministrazione aveva calcolato che la disoccupazione poteva salire sino al 9% nel 2010 prima di iniziare a ridiscendere. Con il programma, la disoccupazione prevista poteva essere mantenuta all’8%, la ripresa sarebbe iniziata a metà 2009 e per gli inizi del 2011, vale a dire ora, la disoccupazione sarebbe scesa al 7% per arrivare al 5% nel 2013. Mentre parliamo, negli Stati Uniti è al 9%.

La previsione è stata un disastro politico ed economico, ma in retrospettiva è più interessante per quel che ci dice riguardo a coloro che l’hanno formulata. Chiaramente non hanno compreso, forse non hanno voluto comprendere, quel che stava accadendo. Hanno adottato il presupposto di un percorso in discesa verso la disoccupazione al 5%, il che ha significato che il tasso naturale di disoccupazione – il concetto più non-keynesiano e anti-keynesiano mai ideato nell’economia moderna – era incorporato nella loro mentalità e nei modelli computerizzati che hanno utilizzato. L’unico problema era la velocità dell’aggiustamento e se un po’ di stimolo ci avrebbe aiutato ad arrivarci più velocemente. Il pacchetto di stimolo non era finalizzato a fornire una risposta sostanziale alla crisi, bensì solo ad accrescere tale velocità di aggiustamento di un piccola quantità.

Chiaramente, per farla breve, non vi era alcuna crisi nella mente di coloro che erano in carico nel 2009. C’era soltanto una recessione insolitamente profonda, una Grande Recessione, come finì per essere definita, e la recessione sarebbe terminata. Il Presidente del Consiglio della Federal Reserve, Bernanke, affermò fin dall’inizio che la recessione sarebbe terminata e che l’economia si sarebbe ripresa. Non disse come lo sapeva, ma quando lo fece era sicuro che le cose sarebbero tornate alla normale prosperità dei metà del primo decennio del 2000. E’ stata la noncuranza riguardo alle carenze di produzione, l’unanimità delle previsioni circa il ciclo economico e riguardo alla legge di Okun. Il momento-Minsky sarebbe sicuramente passato.

È un brutto film e, ovviamente, lo abbiamo già visto in precedenza. Ricorderete che nel 1960 lo zio di (succede) … di Larry Summers fu co-inventore di un concetto chiamato la curva di Phillips, che determinava, sulla base di prove empiriche molto deboli e senza una teoria chiara, il rapporto tra il tasso di disoccupazione e il tasso d’inflazione. I keynesiani veri, compresi il mio maestro, Nicholas Kaldor, Joan Robinson, Robert Eisner, un mio grande eroe, e mio padre, rimasero sbigottiti. La costruzione era destinata a crollare e quando ciò accadde, dopo il 1970, la scuola che molti ritenevano keynesiana fu spazzata via nella risacca.

Oggi gli errori che stanno dietro le previsioni di ripresa si fondono con il fallimento dello stimolo stesso e la stessa cosa sta accadendo di nuovo. Coloro che hanno fallito più miseramente nel lanciare l’allarme riguardo alla crisi finanziaria hanno, in conseguenza, recuperato la voce come flagellatori del deficit e del debito pubblico. Vi è un coro di condanna con coloro che un tempo pensavano che il nuovo paradigma avrebbe potuto andare avanti per sempre che ora inveiscono contro il vivere al di là dei nostri mezzi e predicono il fallimento federale e il collasso del dollaro e del sistema monetario mondiale, tra altre favole paurose. Ne fanno parte luminari quali la dirigenza del Fondo Monetario Internazionale e, fra tutte le altre, la divisione di analisi di Standard and Poor’s, una società che dalla quale si potrebbe sperare che un minimo di modestia si sia sviluppata o sia esibita sulla scia degli eventi recenti.

Sarebbe patetico se non fosse così pericoloso. Ma il fatto è che queste forze stanno scendendo lungo un’autostrada che è stata liberata da ostacoli ad opera della ritirata, di fatto della distruzione, della posizione falso-keynesiana.

È dunque nostro compito, mi pare, contro ogni probabilità, costruire una nuova linea di resistenza. E finirò col dire che penso che tale linea debba comprendere almeno i seguenti elementi:

Primo: la comprensione dei rapporti di contabilità monetaria all’interno delle società e tra di esse, in modo da non essere presi dal panico da semplici rapporti finanziari ed essere spinti a politiche sociali autodistruttive o a condannarci a vite di stagnazione economica e spreco umano. E aggiungerei in particolare, perché è importante in Danimarca al momento, alla distruzione dei sistemi di assistenza sociale e pensionistici che sono stati le fondamenta di una vita decente per decenni per una gran parte della popolazione.

Secondo: un’analisi efficace della deflazione del debito in corso, la crisi bancaria e le risposte, sin qui, delle politiche fiscali inadeguate e delle politiche monetarie illusorie. Negli Stati Uniti e in Europa questa è una crisi principalmente delle banche, non dei governi, e sta a noi richiamare l’attenzione su questo fatto.

Terzo: un’analisi completa dell’attività delittuosa che ha distrutto il settore bancario, comprese le sue fondamenta tecnologiche, in modo da scacciare l’illusione che questi mercati possano effettivamente essere ripristinati a una forma in qualche modo simile a quella di 4 o 5 anni fa. Come parte di ciò, ovviamente, sarebbe utile ottenere un impegno rinnovato a denunciare i crimini, punire i colpevoli e far valere le leggi. Economisti Keynesiani per un FBI Più Efficace credo sia una corrente che sarei lieto di sponsorizzare e cui sollecitare la vostra adesione.

Quarto: una comprensione del modo in cui i mercati finanziari interagiscono con la mutevole geofisica dell’energia, specialmente del petrolio, e con i mercati delle materie prime per scoraggiare la ripresa economica salvo che il problema energetico sia affrontato direttamente. Penso che sia qualcosa che ora stiamo vedendo accadere.

Quinto: una direttiva strategica per riprogettare e ricostruire le nostre società in rapporto alle sfide dell’invecchiamento, delle infrastrutture, dell’energia, del cambiamento climatico e dello sviluppo condiviso che tutti abbiamo di fronte. E per creare le istituzioni necessarie perché ciò accada. Ciò richiede, penso, da un punta di vista intellettuale, una fusione delle tradizioni Keynesiana, Post-Keynesiana e Istituzionale che, di fatto, è qualcosa già in corso.

Sesto: conseguire questi obiettivi mobilitando muscoli e cervelli umani per superare la disoccupazione e garantire una società largamente condivisa, decente e ragionevolmente egalitaria secondo i modelli sociali di maggior successo e più duraturi, col che io intendo un impegno ai più profondi principi politici che Keynes stesso sosteneva e anche a una comprensione del fatto che dovremmo utilizzare la storia come guida a ciò che ha funzionato e a ciò che non ha funzionato.

E, settimo: la ricostruzione degli strumenti del potere pubblico – il potere di spendere, il potere di tassare, il potere monetario e il potere di regolamentare – in modo da perseguire efficacemente questi obiettivi con sistemi democratici di pesi e contrappesi per evitare che le nuove istituzioni finanziarie siano prese in ostaggio da forze predatrici.

Non fingerò, come fece Keynes, che nulla intralci il cammino se non pochi vecchi gentiluomini in redingote che chiederebbero soltanto di essere abbattuti come nove birilli e che potrebbero godere della cosa.

Dovremmo farci carico di questa sfida semplicemente come di una questione di coscienza. Non siamo concorrenti al potere. E’ per noi una questione di responsabilità professionale e di dovere civico. Il mio amico Bill Black, che ha qualche esperienza in quest’area, ama dire, nelle parole di Guglielmo d’Orange, che per perseverare non è indispensabile sperare.

Grazie molte per il piacere e l’onore di aver potuto proporre queste osservazioni.

(Traduzione di Giuseppe Volpe)

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Articolo originale: James K. Galbraith: The Final Death (and Next Life) of Maynard Keynes
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