Print Friendly, PDF & Email
Print Friendly, PDF & Email

coniarerivolta

Salario minimo e cuneo fiscale: la fregatura è servita

di coniarerivolta

allenatoreTra le più conosciute scene del cult ‘L’allenatore nel pallone’ vi è una bizzarra conversazione tra Oronzo Canà, coach della Longobarda, una matricola della Serie A, e il patron della squadra, il pittoresco presidente Borlotti. I due si trovano impelagati nelle trattative del calciomercato, alle prese con squali e magnati del settore, e stanno cercando di imbastire una rosa sufficientemente competitiva per raggiungere una miracolosa salvezza. Borlotti, che di certo non ha né la stoffa né le disponibilità delle big del calcio italiano, si trova dunque a dover ingegnare astruse operazioni per poter portare qualche giocatore alla corte di Canà. Appena uscito da un colloquio con l’Avvocato Agnelli, Borlotti confida entusiasta al suo allenatore: “Ma lo sa che noi attraverso le cessioni di Falchetti e Mengoni riusciamo ad avere la metà di Giordano? Da girare all’Udinese per un quarto di Zico e tre quarti di Edinho”. Di fatto, la Longobarda stava cedendo i suoi due unici giocatori di livello in cambio di eventuali comproprietà future. Insomma, una fregatura bella e buona per il povero Canà.

Una scena simile si sta consumando in questi giorni nei corridoi del Palazzo, dove si discute delle condizioni materiali di vita di milioni di lavoratori italiani, il cui destino sembra somigliare a quello della Longobarda di Canà.

Sappiamo che c’è attualmente sul tavolo una proposta di legge sull’introduzione di un salario minimo che, seppur soggetta ad un futuro iter parlamentare che potrebbe comunque portarla a svuotarsi del suo contenuto più meritevole, rappresenterebbe per molti lavoratori un miglioramento delle condizioni retributive. Tale disegno di legge, a firma della senatrice Nunzia Catalfo (M5S), oltre ad essere stato criticato dai soliti portaborse degli interessi dominanti, è stato, in maniera tutt’altro che sorprendente, oggetto degli strali di Confindustria.

Print Friendly, PDF & Email

coniarerivolta

Per un salario minimo dignitoso, contro lavoro povero e sfruttamento

di coniarerivolta

nuovo salario minimo germania euro stipendio orario 90943357Al Senato è in discussione un disegno di legge, di iniziativa del Movimento 5 Stelle e a prima firma della senatrice Nunzia Catalfo, che mira ad introdurre un salario minimo orario in Italia, uno dei pochi paesi europei ancora sprovvisti di una legge che fissi una soglia minima alle retribuzioni. Secondo i promotori, il disegno di legge darebbe piena attuazione all’articolo 36 della Costituzione, che stabilisce che ciascun lavoratore ha diritto a una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa».

Il disegno di legge è suscettibile di essere modificato anche radicalmente attraverso gli emendamenti che già sono stati o saranno proposti dai parlamentari. Nonostante ciò, è interessante analizzare la discussione nata attorno alla proposta Catalfo, i vantaggi che potrebbero derivare dall’introduzione di un simile istituto nel nostro Paese e le eventuali insidie per i lavoratori che questo disegno di legge nasconde.

Ma cosa prevede questa proposta? In estrema sintesi, in base al dettato del disegno di legge (articolo 2), affinché si possa parlare di retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente, il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non deve essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali.

Questa definizione, così come i rimanenti articoli del disegno di legge, presenta dei punti discutibili. Da un lato, la proposta depositata al Senato sembra offrire preziose sponde che potrebbero rivelarsi utili per conquistare maggiori tutele per i lavoratori, in particolare con riferimento ai cosiddetti ‘lavoratori poveri’, ossia quelli caratterizzati dai salari più bassi.

Print Friendly, PDF & Email

effimera

Il digital labour all’interno dell’economia delle piattaforme

Il caso di Facebook

di Andrea Fumagalli, Stefano Lucarelli, Elena Musolino, Giulia Rocchi

La versione originale inglese di questo saggio è stata pubblicata sulla rivista Sustainability, giugno 2018. Effimera.org ringrazia gli autori per la traduzione in italiano del testo

The Turk 600x3001. Introduzione

Nonostante lo scoppio della bolla Internet alla fine degli anni ’90, la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) continua a segnare gli anni 2000. Soprattutto negli ultimi anni abbiamo assistito ad una significativa accelerazione tecnologica. Diversi settori sono stati colpiti. Si tratta di industrie che hanno sempre più a che fare con la gestione della vita umana (ad esempio, lo Human Genome Project, iniziato nel 1990 e conclusosi nel 2003, ha aperto enormi spazi nella possibilità di manipolazione della vita individuale e della sua procreazione [1]). Come sottolineato da Robert Boyer “questo tipo di modello di crescita è un’estensione della continua trasformazione che è proseguita a partire dalle potenzialità dell’economia dell’informazione” [2]. Se il paradigma tecnologico dell’ICT ha colpito duramente i livelli occupazionali nell’industria manifatturiera, la nuova ondata biotecnologica rischia di avere effetti ancora maggiori sui settori terziari tradizionali e avanzati, che negli ultimi decenni hanno svolto un ruolo compensativo contro la perdita di posti di lavoro nei settori tradizionali.

Lo sviluppo di algoritmi di seconda generazione [3] permette un processo di automazione senza precedenti nella storia dell’umanità. Applicati alle macchine utensili, attraverso le tecnologie informatiche e le nanotecnologie, sono in grado di trasformarle in strumenti e mezzi di produzione sempre più flessibili e duttili. Gli algoritmi di seconda generazione si differenziano dalla prima generazione per la loro natura cumulativa di auto-apprendimento, configurando così un nuovo rapporto tra uomo e macchina. Infatti, dopo la prima fase di implementazione e creazione, grazie al comportamento umano, sono in grado di operare in una condizione quasi totale di automazione (machine learning). Le tecnologie attuali, tuttavia, non possono operare senza l’accelerazione (rispetto al recente passato) del grado di raccolta e manipolazione di una grandissima quantità di dati in spazi sempre più ristretti e con una velocità sempre maggiore. Già nel 2011, una ricerca del McKinsey Global Institute ha esaminato lo stato dei dati digitali e ha riconosciuto il grande potenziale di valore economico che questi possono creare:

Print Friendly, PDF & Email

blackblog

Liberare il lavoro, o liberarsi dal lavoro?

Simone Weil lettrice di Marx 

di Franck Fischbach

ISNel suo libro scritto nel 1934, le "Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale", Simone Weil redige un primo capitolo che intitola «Critica del marxismo». Mi propongo qui di esaminare quel capitolo, al fine di determinare la natura e la portata delle critiche che Weil rivolge al «marxismo». Ma indubbiamente bisogna aggiungere immediatamente che la prima questione che qui si pone, alla lettura di questo capitolo e di tutto il libro stesso, è quella di sapere e determinare a chi sia rivolta la critica, o piuttosto le critiche formulate da Weil: se ci si attiene al titolo del capitolo, appare evidente che l'oggetto della critica sia il «marxismo», ma, leggendo il testo, si constata che nessun «marxista», nessuna corrente del «marxismo», né - come direbbe Ètienne Balibar - alcuno "dei" marxismi viene mai citato, e che alla fine le critiche di Weil sono tutte rivolte a Marx in persona. Da parte di Weil, questo può significare una pura e semplice assimilazione di Marx al (ai) marxismo(i): pertanto fa uso dell'espressione «Marx e i suoi seguaci», senza fare alcuna distinzione fra gli stessi «seguaci», e, soprattutto, inscrivendo tali «seguaci» in diretta continuità con Marx, sulla base di una qualche sorta di principio secondo cui essi sono tutti dei fedeli discepoli del maestro, ed hanno proseguito l'opera teorica e pratica sulla base dei principi di Marx stesso. Insomma, in breve, sembrerebbe che, per Weil, Marx ed il marxismo siano una sola ed unica cosa. Non la rimprovereremo qui per questo, considerando che questo gesto di assimilazione del marxismo allo stesso Marx è perfettamente comprensibile, essendo la Weil un'autrice che scrive nel 1934. Ciò detto, è proprio a partire da questi anni che comincia a diventare possibile non assimilare più immediatamente Marx ed il marxismo, e questo soprattutto proprio grazie alla pubblicazione nel 1932 dei "Manoscritti del 1844" e de "L'ideologia tedesca" - due testi che Simone Weil perciò aveva potuto conoscere quando aveva scritto le sue "riflessioni".

Print Friendly, PDF & Email

ospite ingrato

Risvegli

di Francesco Ciafaloni

Art nouveau 2 348x215Mi è capitato di recente di leggere o rileggere alcuni testi sulla riduzione e la redistribuzione dell’orario di lavoro scritti più o meno un quarto di secolo fa, quando si discuteva di 35 ore, di autori che mi sono familiari, come Giovanni Mazzetti1 o Giorgio Lunghini.2 Mi sono reso conto che alcune delle tesi sostenute dagli autori, che avevo ben presenti venti anni fa, erano come sparite dal mio orizzonte mentale negli ultimi tempi. Avevo smesso di fatto di usarle per cercare di capire quello che succede tutti i giorni. Mi sono accorto di essermi come addormentato, intontito dalla eterna ripetizione delle tesi correnti: l’eccesso di spesa pubblica, la necessità di puntare sull’innovazione tecnica, sull’industria 4.0, la possibilità che si crei, all’interno del sistema produttivo, occupazione sostitutiva di quella distrutta dall’automazione, l’ossessione e la necessità della crescita del Pil. Venti anni fa erano vivi De Cecco, Graziani, Gallino, non c’era la resa culturale che ci sommerge ora. C’erano economisti, sociologi, storici autorevoli, che non si rifugiavano nel silenzio e avevano modo di esprimersi sui giornali maggiori. Oggi prevale l’imbarazzante ripetizione di parole senza senso, come “mercato”, inteso come il dispensatore di giudizi inappellabili di adeguatezza, positività, efficienza di qualsiasi iniziativa; “crescita” intesa come la tendenza naturale di tutti i paesi del mondo, a meno di colpe gravi dei loro cittadini, ad aumentare il Pil più o meno del 3% l’anno; “equilibrio”, inteso come la naturale, automatica, tendenza all’equilibrio tra domanda e offerta (“l’equilibrio è un caso”, avrebbe ribattuto Lunghini citando Marx). Eravamo abituati a distinguere tra economisti ortodossi ed eterodossi. Gli ortodossi avevano un bel sistema ma negavano l’evidenza della disoccupazione involontaria, della concentrazione della ricchezza, dell’uso del denaro per arricchirsi senza produrre. Gli eterodossi prendevano atto dello scandalo della disoccupazione (contro le tesi dell’equilibrio economico generale), delle altre emergenze impreviste che preparano la crisi prossima ventura. Ci si poteva schierare.

Print Friendly, PDF & Email

micromega

Landini, Marx e la cultura economica della CGIL

di Luca Michelini

landini cgil marxUn bel convegno organizzato dall’Università di Pisa sul pensiero di Marx (dal titolo Marx 201. Ripensare l’alternativa) ha avuto tra gli ospiti Maurizio Landini, neo-segretario della CGIL. Ero molto curioso di ascoltare Landini, perché mi aspettavo che parlasse appunto di Marx e del marxismo, cioè del ruolo che il pensiero marxiano e marxista poteva avere, o non avere, oggi, all’interno della più grande organizzazione del cosiddetto movimento operaio italiano. Il titolo della relazione, del resto, prometteva bene: Il lavoro nel capitalismo globalizzato. Per una nuova internazionale.

I presupposti culturali perché il tema fosse rilevante sono numerosi. Il marxismo è stato per lungo tempo l’ideologia portante del sindacato italiano “rosso”, fin dalle sue origini. Ciò non significa affatto che Marx fosse una sorta di profeta da cui trarre dottrina e pratica del sindacalismo: fin dalle sue origini, la fortuna di Marx in Italia si è intrecciata con continue riletture e re-interpretazioni del suo pensiero, fino ad arrivare a vere e proprie critiche, talune anche radicali, tanto da decretarne l’accantonamento come punto di riferimento teorico e politico. Particolarmente rilevante fu in Italia il cosiddetto “revisionismo”, che ebbe notevole impatto sul pensiero economico socialista, grazie ad Achille Loria; ma ebbe rilievo anche in ambito filosofico e storiografico grazie agli scritti di Benedetto Croce di Giovanni Gentile.

Marx, tuttavia, rimaneva un pensatore con il quale il confronto era ineludibile, se non altro perché la storia del capitalismo italiano e la storia mondiale riproponevano continuamente la sua attualità: ora analitica, con lo svilupparsi degli imperialismi occidentali, lo scoppio del primo conflitto mondiale, la Grande Crisi, lo svilupparsi si sistemi economici socialisti; ora politica, con la Rivoluzione d’Ottobre, la nascita del fascismo e del nazismo, l’instaurarsi di regimi socialisti di ispirazioni marxiana, come la Cina ecc. La tradizione di pensiero che, opponendosi al revisionismo, principia con il filosofo Antonio Labriola ed arriva fino ad Antonio Gramsci, costituirà una delle colonne portanti della cultura del Partito Comunista Italiano, cioè di quel partito che con la CGIL aveva un rapporto privilegiato e di continua osmosi culturale e politica.

Print Friendly, PDF & Email

laboratorio

La relazione europeismo-corporativismo nei sindacati

di Domenico Moro

Edmondo Rossoni in Piazza del Popolo a Roma annuncia la promulgazione della Carta del LavoroDa circa dieci anni l’austerity europea, combinata con la più grave crisi economica dal 1929, sta devastando la società europea. I danni più gravi sono stati sopportati dal lavoro salariato che ha registrato importanti balzi all’indietro a tutti i livelli. Eppure, le mobilitazioni più importanti contro l’austerity europea sono venute soprattutto da movimenti extrasindacali sorti fuori dai luoghi di lavoro, come gli indignados e i gilet gialli, invece che dalle organizzazioni tradizionali dei lavoratori. Non sono mancate le eccezioni, come in Francia, dove negli ultimi anni si sono avute alcune forti mobilitazioni sindacali, anche recentemente, come nel caso dei ferrovieri. Invece, le mobilitazioni contro l’austerity e le controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, ecc. sono state particolarmente deboli nel nostro Paese, dove persino i provvedimenti del governo Monti, di gran lunga il peggiore almeno dell’ultimo decennio, sono passati senza alcuna opposizione da parte dei sindacati principali. Le ragioni della particolare debolezza della riposta sindacale in Italia sono molteplici, e vanno dalle massicce delocalizzazioni alla estrema frammentazione contrattuale del lavoro salariato. Ma, almeno in parte, sono da ascriversi alle scelte politiche del sindacato stesso, in particolare al connubio di concertazione, neocorporativismo e filo-europeismo, che ha caratterizzato i tre principali sindacati italiani, compreso il maggiore, cioè la Cgil.

 

Un appello e una lettura dell’Europa sbagliati

Il recente Appello per l’Europa, firmato congiuntamente da Confindustria e sindacati (Cgil, Cisl e Uil), è la dimostrazione emblematica di questa situazione. L’organizzazione che rappresenta i maggiori beneficiari delle controriforme europee, le grandi imprese internazionalizzate, e le organizzazioni che dovrebbero rappresentare i più penalizzati, i lavoratori salariati dell’industria, firmano insieme un manifesto che riproduce quelle illusioni sull’Europa nelle quali forse si poteva cadere qualche anno fa, ma che ora non ha più senso ripetere.

Print Friendly, PDF & Email

volerelaluna

Come ci siamo ridotti così? Risvegliamoci!

di Francesco Ciafaloni

21lettere pag 15 destra commento fernand leger les constructeurs 1950Mi è capitato di recente di leggere o rileggere alcuni testi sulla riduzione e la redistribuzione dell’orario di lavoro scritti più o meno un quarto di secolo fa, quando si discuteva di 35 ore, di autori che mi sono familiari, come Giovanni Mazzetti (Teoria generale della necessità di redistribuire l’orario di lavoro) o Giorgio Lunghini (Introduzione a L’ABC dell’economia, di Ezra Pound).

Mi sono reso conto che alcune delle tesi sostenute dagli autori, che avevo ben presenti venti anni fa, erano come sparite dal mio orizzonte mentale negli ultimi tempi. Avevo smesso di fatto di usarle per cercare di capire quello che succede tutti i giorni. Mi sono accorto di essermi come addormentato, intontito dall’eterna ripetizione delle tesi correnti: l’eccesso di spesa pubblica, la necessità di puntare sull’innovazione tecnica e sull’industria 4.0, la possibilità che si crei, all’interno del sistema produttivo, occupazione sostitutiva di quella distrutta dall’automazione, l’ossessione e la necessità della crescita del PIL.

Venti anni fa erano vivi De Cecco, Graziani, Gallino, non c’era la resa culturale che ci sommerge ora. C’erano economisti, sociologi, storici autorevoli, che non si rifugiavano nel silenzio e avevano modo di esprimersi sui giornali maggiori. Oggi prevale l’imbarazzante ripetizione di parole senza senso, come “mercato”, inteso come il dispensatore di giudizi inappellabili di adeguatezza, positività, efficienza di qualsiasi iniziativa; “crescita” intesa come la tendenza naturale di tutti i Paesi del mondo, a meno di colpe gravi dei loro cittadini, ad aumentare il PIL più o meno del 3% l’anno; “equilibrio”, inteso come la naturale, automatica, tendenza all’equilibrio tra domanda e offerta («l’equilibrio è un caso», avrebbe ribattuto Lunghini citando Marx).

Eravamo abituati a distinguere tra economisti ortodossi ed eterodossi. Gli ortodossi avevano un bel sistema ma negavano l’evidenza della disoccupazione involontaria, della concentrazione della ricchezza, dell’uso del denaro per arricchirsi senza produrre.

Print Friendly, PDF & Email

ist onoratodamen

Intelligenza artificiale: dannazione o liberazione del lavoratore?

di Carlo Lozito

Si annuncia la rivoluzione dell'IA, peraltro già avviata da oltre 20 anni con lo sviluppo di Internet e del web. Sarà una rivoluzione che peggiorerà le già deteriorate condizioni di vita dei lavoratori aprendo scenari sociali di potenziali conflitti i cui esiti sono al momento imprevedibili. Essa fa intravedere, per la prima volta nella storia, la possibilità concreta di far lavorare le macchine al posto degli uomini e di liberarli dalla dipendenza dal lavoro coatto

Intelligenza artificiale. Bolognini IIP Tra privacy e algoritmi. Equilibrio difficile ma necessario articleimageMeno si è meno si esprime la propria vita;
più si ha e più è alienata la propria vita.
Karl Marx

Siamo alla quarta rivoluzione industriale. Il capitalismo, finora, è riuscito a dare un impulso senza precedenti allo sviluppo delle forze produttive che, in poco più di due secoli, ha trasformato profondamente la società. Se guardiamo oltre l'apparente progresso, tanto sbandierato dagli apologeti del capitalismo, constatiamo un disastro sociale ed ambientale senza precedenti storici. Oggi le più colpite sono le giovani generazioni addirittura private della possibilità di progettare il loro futuro tanto è precaria la loro condizione lavorativa ed esistenziale. I fenomeni di karoshi e ikikomori, presenti in Giappone e sempre più frequentemente in Occidente, sono un segno dei tempi che viviamo1.

Mentre si realizzano le strabilianti nuove macchine dell'intelligenza artificiale (in seguito IA), rese possibili dallo sviluppo sviluppo scientifico senza eguali, viviamo contraddizioni spaventose. Alcuni uomini, le ricerche ci dicono siano otto (!), possiedono una ricchezza pari a quella della metà della popolazione mondiale più povera mentre la maggior parte dell'umanità vive la condizione di un'esistenza minacciata quotidianamente dalla precarietà, dall'incertezza, dalla faticosa lotta per conquistare il minimo vitale.

Ora si annuncia la rivoluzione dell'IA, peraltro già anticipata da oltre 20 anni con lo sviluppo del mercato globale, di Internet e del web, destinata nel volgere di un paio di decenni a porre sfide decisive all'intera società.

 

IA: una breve panoramica.

Non possiamo fare un'estesa disamina delle nuove macchine dotate di IA. Diciamo solo che esse incorporano e svolgono molte delle funzioni umane, anche complesse. Ne accenneremo solo, indicando nelle note all'articolo i link ai video in rete che le mostrano.

Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Nuove note su “lavoro di cittadinanza”, salari minimi, Piano del lavoro e terzo settore

di Jacopo Foggi

lavoro digitale pri 940A poche settimane di distanza dalla più volte rinviata pubblicazione del libro da me curato (Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione, Castelvecchi) dedicato al “lavoro garantito”, “occupazione di ultima istanza” o “lavoro di cittadinanza”, che dir si voglia, mi sembra opportuno riprendere il filo del discorso per aggiornarlo alla luce di dibattiti e vicende più recenti ed esplicitarne alcuni aspetti in funzione delle esigenze di sviluppo del nostro martoriato paese.

Per chi si fosse perso il tema di cui stiamo parlando, sintetizziamo brevemente gli elementi centrali. Si tratta di una politica che consiste, almeno in prima battuta, in un intervento pubblico di “occupazione di ultima istanza” che, rifacendosi appunto all’azione delle banche centrali come prestatrici di ultima istanza, vede le istituzioni governative entrare in campo come datori di lavoro di ultima istanza nel momento in cui il mercato prevedrebbe o di non offrire alcun posto di lavoro retribuito oppure di fornirne solo di pagati al di sotto delle soglie dei redditi minimi consentiti e stabiliti per legge, o in generale a livelli di povertà – per la misera retribuzione o per le troppo poche ore. Analogamente al modo in cui la Banca centrale garantisce alle banche e allo Stato anticipazioni o scoperti di conto ad un tasso prestabilito sostenibile nei momenti di carenza di liquidità, stabilendo così un tetto massimo al tasso di interesse e garantendo la circolazione monetaria, allo stesso modo lo Stato decide di fornire un impiego retribuito, a un livello salariale di base ma dignitoso, a tutti coloro ai quali il mercato imporrebbe condizioni inaccettabili, vuoi perché semplicemente inesistenti, vuoi perché troppo basse per essere ritenute socialmente accettabili, stabilendo così un pavimento minimo alle retribuzioni1 .

Print Friendly, PDF & Email

patriaecostituz

Perché il lavoro di cittadinanza

di Chiara Zoccarato

New Deal artistsLa proposta di un lavoro di cittadinanza nasce dalla necessità di offrire un’alternativa sostenibile alla disoccupazione e all’inattività, purtroppo in crescita, andando a garantire un reddito a chi ne è attualmente privo. Contemporaneamente, si consente la fornitura di servizi che altrimenti sarebbero fuori mercato, aumentando il benessere della comunità, cioè la ricchezza reale condivisa di beni e servizi, diminuendo la spesa pubblica assistenziale e aumentando il Prodotto Interno Lordo.

Perché è necessario affrontare la disoccupazione? Perché è un problema rilevante dal punto di vista economico, sociale e politico: il disoccupato non ha di che vivere e dipende interamente dai sussidi pubblici, dalla carità o dai parenti; non partecipa all’organizzazione economica e sociale del paese; rappresenta uno spreco di risorse produttive, perché non viene impiegato nella forza lavoro e il suo contributo, grande o piccolo che sia, viene comunque perso. Disoccupazione, sottoccupazione e inattività deprimono la domanda interna e costringono a fare affidamento sulla domanda estera, che non possiamo, e nemmeno vogliamo, controllare; esse, infine, aumentando «l’esercito industriale di riserva», indeboliscono il potere contrattuale nei rapporti di forza capitale-lavoro.

La proposta di attuare programmi di lavoro non è nuova, ha una storia illustre – il New Deal dell’amministrazione Roosevelt, per citare l’esempio più noto – e vanta un pedigree accademico di tutto rispetto, dal momento che a teorizzare l’intervento dello Stato per la creazione di posti di lavoro in modo diretto in fase di recessione economica furono economisti come J.M. Keynes e Hyman Minsky; oggi a spingere per questa proposta è soprattutto la scuola della Teoria della Moneta Moderna (MMT), i cui principi sono alla base delle proposte di Bernie Sanders del Programma di Lavoro Garantito Federale e del Green New Deal.

Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

OIL, il Lavoro è povero. Figuriamoci lavoratori e lavoratrici

di Alessandro Perri

ghj 1Quando Marx, quello “vero”, dei testi letti direttamente dall’originale in tedesco e non tramite compendi terzi, carenti in termine di comprensione; ebbene quando fece il suo ingresso in Italia, lo fece per mezzo della penna di Antonio Labriola negli ultimissimi anni del XIX secolo.

Questi, fine filosofo prima ancora che socialista della primissima ora, era solito insistere su un punto fondamentale: la praxis, ossia il lavoro come energia, è l’essenza dell’essere umano («l’uomo», scriveva in realtà Labriola…). L’individuo è il suo lavoro, e poiché sono le azioni dell’essere umano che fanno la storia (la cui scrittura, poi, è un capitolo a parte), quest’ultima va intesa come la storia del lavoro, ossia dell’insieme delle attività del genere umano.

A livello «concreto», ne consegue che le condizioni in cui è dato all’essere umano di esprimere la propria natura sono quelle, nel modo di produzione capitalistico, del mondo del lavoro propriamente detto, e dello “stato sociale” in cui queste si esprimono.

Se così stanno le cose, allora il World employment and social outlook, “Prospettive occupazionali e sociali nel mondo” rilasciato pochi giorni fa dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil, Ilo nella versione internazionale), riveste un’importanza decisiva, al netto della retorica istituzionale e del linguaggio tendente al neutro, come rilevanza-accademica-vuole, per avere un quadro più ordinato del mondo nel suo insieme.

Senza remore, possiamo affermare che il documento rilasciato è un bollettino di guerra, per come questa è intesa al giorno d’oggi nei confronti del mondo del lavoro. Come riassume l’«executive summary» dello studio, che di seguito vi riportiamo nella traduzione italiana, sono molti i dati allarmanti di cui nel futuro difficilmente saremo, o meglio, chi di dovere sarà, in grado di venirne a capo.

Print Friendly, PDF & Email

jacobin

Le morti sul lavoro sono un indicatore di classe

di Carmine Tomeo

Ogni anno nel mondo 3 milioni di persone muoiono per infortuni o malattie connesse al lavoro. Ma aumentare i controlli non basta, il problema è il paradigma economico che subordina le vite alla competitività delle imprese

7647Partiamo da un presupposto: una qualsiasi analisi degli infortuni e delle malattie professionali che tenti di abbracciare in maniera complessiva la materia non può prescindere dal considerare i rapporti di produzione esistenti. Una sanzione a questa tesi ci viene dal compianto sociologo torinese, Luciano Gallino: «Le imprese che per risparmiare qualche migliaio di dollari o di euro non predispongono misure adeguate per prevenire incidenti o gravi patologie a lunga genesi rappresentano in modo singolarmente efficace la lotta di classe sui luoghi di lavoro». Una lotta nella quale ogni anno muoiono milioni di persone.

 

Due milioni di morti ogni anno

Le più recenti stime dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) sono agghiaccianti: 2,78 milioni di lavoratori muoiono ogni anno per infortuni sul lavoro (quasi 400 mila) o per malattie connesse all’attività lavorativa (circa 2,4 milioni). Altre 160 milioni di persone contraggono malattie professionali seppure non mortali. Mentre molto spesso un incidente non mortale lascia tracce indelebili nella vita di un numero sterminato di lavoratori: 313 milioni di persone subiscono infortuni che provocano lesioni gravi e gravissime; dati Ilostat confermano che negli ultimi dodici anni, mediamente 2 milioni di persone ogni anno hanno perso in maniera permanente la capacità di svolgere le normali mansioni di lavoro nell’occupazione che avevano al momento dell’incidente; in moltissimi casi, com’è facile immaginare, la lesione ha provocato una totale incapacità lavorativa.

Così, nel tempo che avete dedicato a leggere queste poche righe, da qualche parte nel mondo 153 persone hanno subito un infortunio e 4 di esse hanno perso la vita, ammazzati da un sistema economico che fa stragi (pressoché nel silenzio generale) che non risparmiano nemmeno i minorenni, neppure i bambini.

Print Friendly, PDF & Email

blackblog

Terrore del lavoro e critica del lavoro

La tolleranza repressiva e i suoi limiti

di Ernst Lohoff

terroreLa moderna società occidentale ha preso l'abitudine di autocelebrarsi in quanto asilo di tolleranza e di libertà; per quel che riguarda il soggetto moderno del mercato, dichiara con soddisfazione di non avere tabù. A ben guardare, tuttavia, la sua pretesa assenza di pregiudizi si rivela una mera forma di indolenza, e come il risultato di un adattamento mimetico alla situazione di amministrazione fiduciaria che la società di mercato esige. Questo condiziona i suoi membri ad accettare il fatto che, in ultima analisi, le decisioni relative al contenuto della ricchezza sociale e lo sviluppo delle relazioni sociali non si basano su degli accordi coscienti, ma su un'istanza anonima, in questo caso il mercato . Che si tratti di senape o di detersivo, di preferenze sessuali o di opinioni politiche, tutto quello che può essere messo sul mercato è giusto, e tutto quello che si rivela invendibile è sbagliato. Il moderno soggetto delle merci vive la propria vita senza riserve e pregiudizi solo a partire dal fatto che ha dovuto interiorizzare l'idea secondo la quale il mercato è l'unica istanza legittima di riconoscimento, che ritraduce sempre le relazioni sociali in relazioni di domanda e offerta. L'identità fra tolleranza regnante e sottomissione incondizionata al potere della merce e de mercato. non gli conferisce tuttavia solo le caratteristiche di ciò che Herbert Marcuse ha definito «tolleranza repressiva». Questa connessione interna determina allo stesso tempo sia i suoi limiti che il punto in cui le cose si invertono, il punto in cui l'abbrutimento di un soggetto del mercato, capace di digerire tutto, lascia il posto al puro odio. In una società dove il fatto di essere vendibili è il criterio che decide tutto, opporle un criterio di principio è una cosa inaccettabile ed asociale: significa rifiutare di rischiare la propria pelle, e mancare di disciplina per quanto riguarda il conformare sé stessi alla merce.

Print Friendly, PDF & Email

jacobin

Reddito e salario: la vera posta in gioco

di Marta Fana e Simone Fana

Per il blocco neoliberista il principale problema del Reddito di cittadinanza è di essere troppo generoso rispetto alle retribuzioni italiane. Emerge allora il vero oggetto dello scontro: continuare a svalutare il lavoro

Salario minimo Differenza tra reddito minimo garantito e salario minimoDa mesi si parla dei due cavalli di battaglia dell’ultima legge di stabilità: quota 100 e Reddito di cittadinanza. L’audizione alla Commissione Lavoro del Senato sul decreto legge 4/2019 che li introduce si è dimostrata la sede privilegiata in cui vengono scoperte le carte delle parti sociali chiamate a esprimersi. È stato in quel momento infatti che i veri nodi politici sono venuti al pettine: il problema principale del Reddito di cittadinanza è di essere troppo generoso rispetto ai salari italiani: la distanza tra i due è minima e questo comporterebbe che i lavoratori potrebbero rinunciare ai magri salari preferendo il sussidio.

In particolare, Tito Boeri, presidente (in scadenza) dell’Inps, spiega che «secondo i dati Inps, quasi il 45% dei dipendenti privati nel Mezzogiorno ha redditi da lavoro netti inferiori a quelli garantiti dal Reddito di cittadinanza» e che pur considerando il 50% dei trasferimenti meno generosi questi rimangono più alti «dei redditi da lavoro del 10% più basso della distribuzione dei redditi da lavoro». Sulla stessa barricata si trova Confindustria, preoccupatissima della potenziale riduzione dell’offerta di lavoro da parte dei poveri disgraziati, accusa il «livello troppo elevato del beneficio economico. I 780 euro mensili che percepirebbe un single, privo di altro reddito dichiarato, potrebbero scoraggiarlo dal cercare un impiego, considerando che in Italia lo stipendio mediano dei giovani under 30, al primo impiego, si attesta sugli 830 euro netti al mese: 910 al Nord (820 per i non laureati) e 740 al Sud (700 per i non laureati)».

La critica, avanzata dal blocco liberista italiano, che si estende al Pd e a Carlo Calenda, è nei fatti infondata dal momento che il Reddito di cittadinanza obbliga i lavoratori ad accettare una delle prime tre offerte di lavoro a prescindere dalla retribuzione, pena la decadenza del diritto al sussidio. Tuttavia, la psicosi provocata dal decreto mette in chiaro quello che fin qui in molti non avevano voluto vedere: l’oggetto dello scontro in atto non è il reddito in sé, ma il diritto del padronato italiano a perseverare nella svalutazione del lavoro e dei salari. Bassi sono e bassi devono restare altrimenti addio competitività.