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ass sylos labini

Appunti su contratto unico e articolo 18

Aspettando il “Job act”

Posted by Francesco Sinopoli

Ovvero le politiche neoliberali sul lavoro al tempo della crisi e anche prima…

Il neo segretario del PD ha annunciato un Job Act (chissà perché in inglese) in cui oltre a una “semplificazione” della normativa in materia lavoristica e una cornice di interventi molto varia forse ispirata dalle idee del Prof. Pietro Ichino spiegate bene in questo link  ci sarebbe l’introduzione dell’ormai noto contratto unico a tutele crescenti proposto in Italia da Boeri e Garibaldi  e dallo stesso Ichino in più occasioni (Ichino 2011). In realtà questa ennesima  ipotesi di riforma della disciplina dei contratti individuali di lavoro è stata avanzata anche in campo europeo da una certa letteratura economica  almeno dal 2003 con Blanchard (Blanchard, O., and A. Landier, 2002; Blanchard, O.; Tirole J. 2004).

Della stessa idea esistono, quindi, diverse versioni. In alcune il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti o progressive dovrebbe  sostituire ogni forma contrattuale a termine. In quella ultima  di Boeri convive, invece, con alcune forme contrattuali flessibili cui legare standard minimi di tutela.

La sostanza però non cambia. E’ un contratto a tempo indeterminato che nei primi tre anni prevede uno status simile al periodo di prova.

In questo tempo sarebbe consentito al datore di lavoro un recesso molto semplificato previo indennizzo economico proporzionato all’anzianità ma senza possibilità di reintegro anche nel caso in cui il licenziamento – per ragioni economiche o organizzative di cui il giudice accertasse l’inesistenza – avvenisse nelle unità produttive con un numero di lavoratori superiore a 15. Si tratta della soglia dimensionale da cui scatta la disciplina dell’articolo 18  che  nei primi tre anni di contratto unico sopravviverebbe, quindi, solo per i motivi discriminatori.

La proposta di contratto unico non comporterebbe automaticamente una revisione dell’articolo 18 , peraltro già modificato nel 2012. Esistono appunto diverse ipotesi. Del resto avremo tempo e modo di valutare il contenuto del Job act quando conosceremo il testo del provvedimento che pare essere work in progress quindi aperto alla discussione. Anche per questo potrebbe essere utile ritornare, criticamente, sui tratti di fondo che hanno caratterizzato negli anni più recenti e ci pare caratterizzino tutt’ora la discussione sul mercato del lavoro. In particolare su alcune “invarianti” ascrivibili a quell’egemonia di cui ci parlano Francesco Sylos Labini e Daniela Palma.   che poco hanno a che fare con il merito dei problemi. Convinzioni tanto ideologiche quanto radicate in alcuni ambienti accademici e soprattutto, non a caso, nelle istituzioni della governance economica mondiale.

Come è noto nel luglio 2011 la Banca centrale europea ha vincolato l’acquisto dei nostri buoni del tesoro, presentato come indispensabile per abbassare il differenziale tra Btp e Bund,  ad alcune scelte che il nostro paese avrebbe dovuto adottare. Queste indicazioni sono contenute nella famosa lettera della Bce al governo dell’epoca in cui tra le policy  per rilanciare l’economia, si colloca anche la revisione della disciplina relativa alle assunzioni e ai licenziamenti.

Il governo Monti insediatosi poco dopo ha accolto subito questi “suggerimenti” avviando le famose  “riforme” strutturali. Oltre a misure di natura economica (allungamento dell’età pensionabile e imu essenzialmente) tra le azioni del governo figura la cosiddetta riforma del mercato del lavoro (legge 93/2012) in cui, tra le altre cose, viene modificato l’articolo 18.  In seguito a questo intervento il reintegro come rimedio del recesso illegittimo per motivi economici  (giustificato motivo oggettivo) non è più automatico ma può essere disposto dal giudice solo in caso di manifesta insussistenza degli stessi altrimenti è sostituito da una indennità economica. Anche in caso di licenziamento per motivi disciplinari scompare l’automatismo che rimane solo per ragioni palesemente discriminatorie. Contestualmente si introduce sul  piano processuale una sorta di cognizione sommaria finalizzata a velocizzare il giudizio con una prima pronuncia in ordine alla legittimità o meno del licenziamento cui possono seguire in caso di opposizione i consueti due gradi di giudizio.

Il  presupposto su cui si sono basate tali modifiche è che  avrebbero consentito “di superare il dualismo del mercato del lavoro e contribuire all’aumento dell’occupazione incentivando gli investimenti esteri”  come Monti stesso ha dichiarato al Senato presentando il disegno di legge.

Che dire di questi provvedimenti? Misurandoli sulla base degli obiettivi dichiarati il giudizio non può che essere impietoso.

L’Italia, nonostante sia entrata nel ristretto «club» degli Stati con il bilancio in pareggio è costantemente sotto la lente di osservazione dei mercati proprio a causa delle misure di austerity,  che stanno producendo una spirale recessiva.  Per la stessa Banca d’Italia “ le misure di correzione dei conti pubblici adottate nella seconda parte del 2011 hanno avuto un effetto negativo sulla domanda valutabile in un punto percentuale di crescita annua.” (Banca d’Italia Bollettino trimestrale Gennaio 2013).

Siamo al sesto anno di crisi economica con un ulteriore calo dei livelli occupazionali previsto per il 2014.  L’Istat afferma che nell’ultimo trimestre la caduta del PIL si è arrestata ma dal 2008 a oggi abbiamo perso ben 6 punti mentre la produzione industriale ha subito una contrazione del 25, 3%.

La disoccupazione giovanile è oltre il 40% mentre quella totale attesa al 2014 sfiora il 13%  senza considerare i cassintegrati e gli scoraggiati che non cercano lavoro. Insomma non esattamente un successo. Indipendentemente dal merito.

Ad avviso di chi scrive la “cura Monti” in realtà rappresentava la ricetta mainstream che “l’ecclesia militans” neoliberale  predica in tutti i contesti politici e sociali da anni. Non è una novità. Il pensiero neoconservatore  alla base delle azioni di governo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher  partiva anche esso dallo stesso presupposto.: riduzione dell’intervento pubblico diretto in economia,  tagli allo stato sociale, contenimento della dinamica salariale, libertà di licenziamento. Lo spiega bene tra gli altri Wolfgang Streeck .  All’epoca la giustificazione (rectius il pretesto) era la lotta all’inflazione ma l’obiettivo neanche tanto mascherato era colpire il lavoro organizzato e quindi l’attività sindacale che negli anni dal secondo dopoguerra in poi si erano molto rafforzati anche grazie alle politiche economiche Keynesiane. Ovviamente la compressione dei salari che ne è conseguita avrebbe prodotto un tracollo della domanda, se non fosse stata sostituita dal credito facile quindi dalla crescita dell’indebitamento privato e pubblico (lievitato quest’ultimo anche per le spese militari). Tutto ciò grazie  agli strumenti finanziari che hanno portato alla crisi del 2007 dei mutui subprime diventata poi crisi bancaria e come conseguenza crisi degli stati sovrani chiamati a garantire la solvibilità delle stesse banche. E il cerchio si chiude (Harvey 2011, Gallino, 2011,  Crouch 2012, Streeck 2013).

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Il problema è che questo apparato ideologico lo ritroviamo  nel Rapporto Ocse del 1994 – vera e propria bibbia del pensiero liberista sul lavoro – , successivamente acquisito dal fondo monetario internazionale e poi dalla Bce. Tra i punti centrali figura, in particolare, la necessità di modificar i regimi di protezione dell’impiego in quanto, secondo la ricetta mainstream “solo un mercato del lavoro perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche macroeconomiche potrebbe  aumentare l’occupazione” (Lettieri, 2002).  Oggi, con il pretesto della crisi e l’incursione ripetuta della Bce nelle politica degli stati nazionali il mantra, ripetuto ossessivamente  è il medesimo, come peraltro conferma l’ultimo rapporto Oecd going for growth: l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro ( in particolare italiano di cui la tutela in materia di licenziamenti sarebbe la massima espressione) scoraggerebbe gli investimenti esteri oltre a  rappresentare la causa principale della precarietà e della disoccupazione producendo il cosiddetto dualismo insiders vs outsiders. I primi sarebbero gli occupati stabilmente a tempo indeterminato che godono del sistema di tutele inderogabili della legge e dalla contrattazione collettiva (invero sempre più debole dopo l’articolo 8 della legge 148 2011 che ha permesso la derogabilità da parte della contrattazione aziendale) i secondi l’enorme massa di sottoccupati precari e disoccupati prevalentemente giovani e donne.

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Secondo queste analisi uno dei maggiori deterrenti all’attivazione di contratti a tempo indeterminato è, naturalmente, il vincolo alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa che nella vulgata diventa una insormontabile «difficoltà» di licenziare delle nostre aziende con un numero di dipendenti superiore a 15.

Per rispondere a queste affermazioni sarebbe sufficiente ricordare la maggior parte delle aziende dove trova applicazione l’art. 18 si colloca in quelle aree geografiche dove registriamo livelli occupazionali pari alle migliori performance europee e dove si producono i beni a più alto valore aggiunto, quelli che maggiormente esportiamo. C’è però almeno un altro argomento che merita di essere richiamato. I rapporti di lavoro diversi da quelli regolati nella forma giuridica del contratto subordinato a tempo indeterminato sono svariati. Ciò è noto. Ed è altrettanto noto che le collaborazioni a progetto (nei settori pubblici ancora coordinate e continuative) e le cosiddette partita Iva rappresentano la fetta più problematica in quanto la stragrande maggioranza di questi contratti (formalmente di lavoro autonomo) in realtà maschera un’attività di lavoro subordinato standard. Non a caso il 90 per cento dei collaboratori lavora per un singolo committente. In sintesi si può dire che la disponibilità «giuridica» dei contratti di lavoro autonomo in sostituzione del lavoro dipendente, economicamente convenienti in quanto privi di tutele ha reso possibile una vera e propria fuga non tanto dalla subordinazione, ma dallo statuto «protettivo» del lavoro subordinato. Il fatto che la subordinazione, in molte aziende, non si esprima più nella sottoposizione a prescrizioni  circa l’esecuzione  della prestazione lavorativa , ma nel modo di determinare i risultati attesi, la rende più difficilmente individuabile rendendo possibile una “confusione” formale tra le fattispecie contrattuali tutta italiana in realtà utilizzata come pretesto per tagliare il costo del lavoro (anche nei settori pubblici dove l’abuso è ancora più eclatante) (Sinopoli 2012). D’altra parte la grande diffusione, secondo i dati Istat, di contratti di lavoro autonomo nelle imprese con meno di 15 dipendenti (dove non si applica l’art. 18) è poi una ulteriore conferma che l’assenza di una tutela forte contro il licenziamento non esclude il ricorso a forme contrattuali diverse dalla subordinazione. La banalizzazione del tema, una delle maggiori problematiche del diritto del lavoro, in verità, non è casuale. Risponde a un preciso obiettivo di policy. La teoria della contrapposizione tra insider e outsider deve diventare la chiave di lettura unica per suggerire soluzioni incontestabili fondate sulla generale premessa assiologica – non dimostrata né forse dimostrabile-  che le norme inderogabili impedirebbero la libera concorrenza tra lavoratori occupati e disoccupati, producendo l’esclusione di questi ultimi dall’area delle tutele anche quando accedono a un lavoro (Garofalo M.G 1999).

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I sostenitori della insider outsider theory, evidentemente dimenticano che le migliori performance occupazionali che si registrano in Europa hanno in comune non tanto la libertà di licenziare quanto serie politiche di formazione professionale e tasse elevate anche per sostenere di strumenti di tutela del reddito universali (Roccella, 2007). Gran Bretagna, Svezia e Danimarca hanno infatti discipline in materia di protezione dell’impiego completamente diverse: si passa dalla libertà di licenziamento tipica del sistema danese all’estremo opposto rappresentato dal sistema svedese di tutela contro il licenziamento ingiustificato molto simile al nostro per intensità, passando dalle regole di protezione deboli dell’ordinamento britannico.  Ruolo non secondario nei successi sul fronte occupazionale della Danimarca è attribuibile ai cosiddetti “schemi di congedo”, in virtù dei quali ai dipendenti pubblici e privati viene consentito di assentarsi dal lavoro per periodi sabbatici, remunerati dallo Stato, durante i quali il loro posto viene coperto dai disoccupati  Inoltre l’orario di lavoro settimanale medio dei lavoratori danesi è di 35 ore (contro le nostre 39-40) e che le ferie e le festività si portano via 37 giorni l’anno (contro i nostri 31). Quindi non si può escludere una sostanziale redistribuzione del lavoro (Braun T. 2003  citato in Cavallaro L., Palma D. 2008) alla base delle performance danesi senza dimenticare le politiche industriali pubbliche che hanno  effetti rilevanti sulla qualità della domanda occupazionale.

Se poi dobbiamo dirla tutta è la Svezia con la sua disciplina lavoristica “rigida” a mantenere il rapporto migliore tra livelli di occupazione e competitività rispetto ai quali sfigurano sia Gran Bretagna sia  Danimarca  dove vi sono fenomeni di disoccupazione di lunga durata in alcuni gruppi sociali (Reyneri 2001).

In realtà il vero “rimosso” in questo discorso sulla “flessibilità in uscita” modo elegante quanto ipocrita di chiamare la libertà di licenziamento è proprio di natura ideologica.

Lo spiega bene un compianto giurista – Mario Giovanni Garofalo – che affrontando nel lontano (?) 1990 lo stesso argomento affermava: “un sistema giuridico che abbia come unico o preponderante valore da tutelare la libertà di mercato non può per definizione ammettere vincoli che ostacolino l’operatore economico nella scelta della migliore (per lui) allocazione delle risorse …inoltre la libertà di licenziamento è strumentale all’affermazione del potere dell’imprenditore sull’organizzazione produttiva mentre di converso le sue limitazioni sono funzionali alla costruzione del contropotere di chi è subordinato nell’organizzazione produttiva stessa” (Garofalo M.G. 1990).

Sarebbe gradita almeno la chiarezza invece ci tocca subire il consueto giochino retorico per cui si dichiara di voler perseguire determinati obiettivi sui quali vi è un largo consenso sociale mentre in realtà perseguono l’interesse dei gruppi  più forti tra quelli coinvolti.

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Le ragioni della nostra scarsa competitività e della qualità della nostra occupazione sono strettamente correlate ma hanno motivazioni ben diverse da quelle dichiarate dai teorici della economics analysis of law, per la quale il sistema giuridico deve limitarsi a oliare i meccanismi di  mercato  anziché presidiare i valori costituzionali (Perulli 1997). Non è un problema di asimmetrie informative o di eccessive protezioni per alcuni a scapito di altri come sostengono questi ultimi (Ichino 1998).

L’andamento della produttività nella nostra industria (manifatturiera in particolare) segue una traiettoria ascendente dagli anni cinquanta fino alla prima metà degli anni settanta, per poi iniziare a declinare, finendo col precipitare dalla seconda metà degli anni novanta in avanti. La ragione è fin troppo semplice. Proprio  dalla fine degli anni ’80 sono venuti meno, progressivamente, alcuni dei presupposti di fondo della “crescita” italiana.   L’introduzione prima del Sistema monetario europeo  poi dell’euro ha segnato la fine dalle svalutazioni competitive (un polmone spesso utilizzato per rilanciare le nostre esportazioni) ed ha coinciso  con l’aumento della competizione diretta su alcune fasce di prodotto con i paesi di più recente industrializzazione aiutati da costi irrisori della manodopera (Ferrari S 2007; Greco P, 2013). Ciò è andato di pari passo all’aumento del deficit commerciale nel comparto high-tech  in particolare nei confronti dei maggiori paesi dell’Unione europea, con i quali si attua più del 60% del commercio di questi prodotti  ( Ferrari S, Guerrieri P., Malerba F., Mariotti S, Palma D, 2004;  2007).

Per aumentare la produttività sulle nostre gambe dovevamo fare una scelta di fondo. Modificare la specializzazione produttiva del paese investendo in ricerca e innovazione sulla base di politiche industriali vere per recuperare innanzitutto il gap nel comparto hig tech.

Ma la strategia è stata un’altra. Dalla prima metà degli anni novanta in poi ci siamo trovati di fronte a una fuga progressiva dal lavoro subordinato a tempo indeterminato unita ad ud una politica di contenimento salariale e a manovre deflazionistiche, con l’obiettivo di sostituire il vantaggio della svalutazione competitiva con la compressione del costo del lavoro. Inoltre la composizione del tessuto industriale e le caratteristiche delle nostre produzioni hanno effetti non trascurabili sulle stesse mansioni impiegate, quindi sulla domanda di professionalità e sul tipo di occupazione o di disoccupazione. E’ inoltre accertato un deficit di domanda di lavoro qualificato  da parte delle nostre imprese confermato dal trend occupazionale di laureati e dottorati. Ciò evidentemente dipende da un sistema industriale con caratteristiche di specializzazione produttiva sostanzialmente diverse da quelle dei maggiori Paesi europei come confermano le statistiche eurostat sul capitale umano (Cavallaro L., Palma D. 2008) . Il confronto dei dati più recenti (2012) con quelli esaminati nel lavoro di Cavallaro e Palma, mostra peraltro il sensibile peggioramento della situazione italiana. Infatti, a fronte di quote molto esigue di personale ad alta qualificazione nei settori ad alta intensità tecnologica, l’Italia non solo non mostra progressi significativi ma vede aumentare il divario con i restanti paesi europei.”

Domanda di laureati in aree di elevata qualificazione professionale (Quota percentuale dei laureati occupati in settori ad elevata intensità di conoscenza sul totale degli occupati) – classe di età 25 – 64



La famigerata fuga dei cervelli diventata con la crisi emigrazione di massa dipende essenzialmente da questo oltre che dal progressivo smantellamento delle nostre università e i nostri centri di ricerca.

Gli interventi sul mercato del lavoro finalizzati a ridistribuire le tutele, e con esse le opportunità occupazionali, oltre che non condivisibili per le ragioni esposte, non saranno mai sufficienti a rilanciare l’occupazione. Si conferma, invece, che gli interventi sul mercato del lavoro sono un  sostituto delle svalutazioni competitive di cui necessitano le imprese che si confrontano con la concorrenza estera in mancanza di un cambiamento di specializzazione produttiva e di una politica economica espansiva preclusa dai sempre più assurdi vincoli imposti dalla attuale governance europea (Cavallaro L. Palma D. 2008).  Se questa è la cornice anche l’enfasi posta da più parti sul costo del lavoro sorprende. Guardando le maggiori imprese multinazionali oltre alla riduzione della quota di vendite nelle aree di alta tecnologia delle imprese italiane colpisce proprio il rapporto tra costo del lavoro per addetto e valore aggiunto. Abbiamo i costi del lavoro per dipendente più bassi dei nostri competitor europei ma un rapporto costo del lavoro/valore aggiunto più alto perché più basso il valore aggiunto. Pensare di competere riducendo ancora il costo in valore assoluto magari con paesi come la Cina o la Russia è semplicemente illusorio (Bianchi P. 2013).

Che non siano i regimi di tutela dell’impiego il problema lo confermano anche i dati del  World Economic Forumdi Ginevra, pubblicati nel The Global Competitiveness Report2010-2011: le restrictive labour regulations  sono considerate un fattore critico  per Germania, Finlandia e Francia. Per l’Italia, al contrario, questo elemento non viene considerato tra i maggiori limiti alla competitività (Perulli, Speziale 2011).

La stessa Ocse, del resto, ha prodotto negli anni indagini decisamente contraddittorie. Nel 1998 l’Employment Outlook riconosceva come le analisi econometriche non fossero state in grado di determinare prove del fatto che riducendo la protezione contro il licenziamento e indebolendo i contratti di lavoro standard fosse possibile agevolare la crescita dell’occupazione (Ocse, 1998). Peraltro si è rivelato fallace  l’indice di rigidità dell’impiego elaborato dalla stessa agenzia nel 1999, che includeva per il nostro paese, erroneamente, il trattamento di fine rapporto fra i costi monetari del licenziamento, mentre – com’è noto – rappresenta una quota differita della retribuzione. Nel rapporto viene, incredibilmente, confuso con una indennità per il licenziamento.

Per salvare l’economia reale, quella che produce valore e non si limita a creare denaro dal denaro, quella che mette al centro le persone e il lavoro, abbiamo bisogno di una strategia diversa. Fondata, lo ribadiamo, su politiche dello sviluppo (leggi politiche industriali e investimenti pubblici) che mettano al centro ricerca e innovazione tecnologica. Per quanto riguarda poi la ridottissima dimensione delle nostre  aziende che nella vulgata si considera determinata anche dall’articolo 18 in realtà dipende da altri fattori. Le imprese non crescono rimanendo  bancocentriche. precludendosi l’opportunità di finanziarsi sui mercati e mantenendo una ridotta possibilità/capacità di investire nell’innovazione essenzialmente per la scarsa propensione dei nostri imprenditori ad aprire gli assetti proprietari e di controllo (Barca 2007). Perciò è insostituibile in Italia più che altrove il ruolo dello stato capace di orientare il necessario cambiamento del nostro sistema produttivo e fare quegli investimenti – rischiosi- che le imprese non sono in grado di realizzare ad iniziare da quelli nella ricerca fondamentale da cui nascono anche le applicazioni come ci ricorda da ultimo Mariana Mazzuccato . Perchè ciò sia possibile serve una governance europea alternativa a quella attuale di stampo hayekiano che è incompatibile con qualunque ipotesi di sviluppo come suggeriscono tra gli altri Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

L’ideale sarebbe che ciò avvenisse perseguendo allo stesso tempo l’obiettivo di riunificare davvero il lavoro, introducendo un obbligo formativo in tutti i contratti e costruendo un welfare universale. Si potrebbe partire dalle idee elaborate da Massimo D’Antona e  dalla nostra Costituzione, che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35). Non solo quello subordinato, ma tutto il lavoro che, per ostacoli di ordine sociale ed economico (art. 3 Cost.), non diventa strumento di sviluppo delle persona umana e di partecipazione collettiva.

 

Riferimenti bibliografici
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