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Lavoro cognitivo

Intervista a Enzo Rullani

Logo scienze cognitive1.    Se dovesse individuare delle qualità  fondamentali per definire la trama del lavoro cognitivo oggi emergente, cosa indicherebbe? 

Per identificare le qualità rilevanti del lavoro cognitivo, bisogna innanzitutto capire che cosa è e dove lo troviamo, nei processi produttivi di oggi. Bisogna innanzitutto distinguere il lavoro cognitivo con cui abbiamo a che fare ai nostri giorni (nel contesto della modernità) dal lavoro energetico-muscolare del passato (riferito ai modelli provenienti dall’epoca pre-moderna). In linea generale, possiamo chiamare lavoro cognitivo ogni forma di lavoro che – come output utile – produce conoscenza, usando questa conoscenza sia per generare significati o legami dotati di valore (per gli interlocutori a cui sono rivolti), sia, in altri casi, per governare e avviare trasformazioni materiali realizzate da macchine e da energia artificiale.

Il lavoro energetico invece è una forma di lavoro che usa la forza muscolare per trasformare i materiali, trasportare oggetti pesanti, arare la terra ecc., dando loro una forma utile.

La linea di demarcazione tra le due forme di lavoro, però, è meno ovvia di quello che sembra. Per due ragioni: prima di tutto, anche il lavoro cognitivo dello scienziato, dell’artista, del professore, del tecnico utilizza il corpo e le sue capacità fisiche per produrre/usare la conoscenza; d’altra parte, è altrettanto vero che il lavoro energetico non è soltanto energia allo stato “puro”, ma è sempre energia guidata dall’intelligenza “biologica” dell’uomo-lavoratore, necessaria per rendere efficiente il lavoro di trasformazione realizzato.

La linea di demarcazione tra i due tipi di lavoro è infatti rimasta assai labile (una questione di prevalenza, non di sostanza) per millenni, fino a che non è arrivata la modernità, con la sua invenzione fondamentale: la conoscenza riproducibile. Che ha cambiato tutto. La conoscenza riproducibile (quella di una formula chimica, di un progetto di telaio, di un algoritmo o software perfettamente codificati) aveva un ruolo marginale nei processi di produzione pre-moderni, anche se la matematica o la scrittura/lettura dei libri erano da tempo diventate forme consuete di “educazione” della mente. Ma il massiccio impiego della conoscenza riproducibile nella produzione è sostanzialmente un portato della modernità, che decolla nel momento in cui la conoscenza (scientifica) comincia ad essere prodotta usando protocolli particolari (il laboratorio, l’impersonalità, la definizione di un codice astratto di uso che separa la conoscenza dal suo contesto di produzione iniziale), pensati col fine esplicito di renderla riproducibile anche in presenza di persone e contesti diversi da quelli della sua (prima) produzione.

In economia, la conoscenza riproducibile ha il formidabile vantaggio di poter essere ri-usata – ossia replicata in grandi serie e trasferita a distanza (nel tempo e nello spazio) – a costo zero, purché si rispetti il codice delle istruzioni per l’uso. Essa ha segnato il grande sviluppo della scienza, ma anche dell’economia moderna, che si è basato sulla tecnologia, sulle macchine, sui prodotti standard e su automatismi astratti come il mercato, il calcolo economico, le procedure organizzative, le norme astratte e generali dello Stato di diritto. Tutte conoscenze codificate che, ad ogni ri-uso, generano un valore utile, a costo zero (almeno dal punto di vista cognitivo).

Da questa premessa nasce, nel corso della rivoluzione industriale dell’ottocento, l’astrazione del lavoro, che diventa impersonale (“tempo-lavoro”, appunto), e del capitale, che diventa “denaro che produce denaro”, per usare un’immagine di Marx. Da questa premessa deriva anche, di conseguenza, la progressiva artificializzazione del mondo della vita (il consumo) e del mondo del lavoro (la fabbrica).

L’artificializzazione che re-impiega conoscenza riproducibile a costo zero diventa – nei due secoli e mezzo di epoca moderna – una fonte inesauribile di produttività, ossia di valore utile ricavato dal sistematico ri-uso delle conoscenze, una volta che queste sono state trasformate in forma replicabile.

La divaricazione tra lavoro energetico e lavoro cognitivo, che possiamo osservare nella realtà attuale, sta, appunto, nel diverso rapporto che queste due forme di lavoro hanno assunto, nella modernità, con la replicazione moltiplicativa del valore. Ogni ora di lavoro cognitivo che si trasforma in conoscenza replicabile genera infatti valore in modo moltiplicativo, in funzione di quanto si espande, nello spazio e nel tempo, il bacino del ri-uso. La produttività oraria del tecnico, che in cento ore di lavoro, scopre una nuova molecola chimica può essere altissima, e generare flussi di valore milionari, se quella formula viene ri-usata in migliaia o milioni di applicazioni che il consumatori acquistano e pagano in rapporto al valore utile che ne ottengono.

Questo effetto moltiplicativo, invece, è escluso quando abbiamo a che fare con lavoro energetico “puro” o accompagnato da conoscenze pratiche, non facilmente replicabili perché legate alla persona o al contesto. Ogni metro quadrato di terra in più che viene zappata richiede lavoro addizionale, senza crescita della produttività. I moltiplicatori che hanno fatto ricca la società moderna e aumentato il livello di reddito dei lavoratori si ottengono solo mettendo in campo quote sempre più ampie di occupazione nel lavoro cognitivo di tipo replicativo (ossia meramente esecutivo), come dimostra lo sviluppo attuale dei paesi emergenti.

Ma …, come in tutte le storie troppo lineari, c’è un ma. Il fatto è che il lavoro replicativo, proprio perché è tale, ha il difetto di essere – in potenza – totalmente sostituibile da altro lavoro astratto che fa le stesse operazioni, dettate dal programma. Un lavoro del genere, di conseguenza, entra fatalmente in competizione con tutta l’offerta di lavoro che è rimasta esterna al circuito produttivo e che – provenendo in genere dalla bassa redditività del lavoro pre-moderno – si rende disponibile a salari low cost per chiunque abbia accesso a tale sconfinato “esercito di riserva”. Il lavoro replicativo moderno, in altre parole, genera valore ma non è in grado di catturarlo: di fatto, lo lascia agli altri soggetti forti delle filiere (gli imprenditori, i finanziatori, lo Stato, i lavoratori dotati di professionalità scarsa e tutti i percettori di rendite).

E’ successo nell’ottocento, con la proletarizzazione di massa. E sta succedendo di nuovo adesso, con la rapida dilatazione del lavoro low cost messo in produzione nei paesi emergenti. Quando guarderemo la storia della modernità con maggiore cognizione di causa potremo dire che il lavoro cognitivo-replicativo low cost è stato la regola sia nel diciannovesimo (l’ottocento della prima rivoluzione industriale) che nel ventunesimo secolo (il nostro), lasciando al secolo del fordismo (novecento) il ruolo dell’eccezione. Un’eccezione creata dal progressivo esaurimento – in Europa e negli Stati Uniti – dell’”esercito di riserva” di lavoro low cost proveniente dall’agricoltura e dal conseguente fenomeno del “pieno impiego” della forza lavoro disponibile.

E’ questa la circostanza storica che, nel corso del novecento, ha permesso di aumentare notevolmente la quota di surplus distribuita al lavoro (replicativo) attraverso la sindacalizzazione di massa e il potere contrattuale basato sul “cartello” del lavoro che è in grado di organizzare legalmente scioperi o azioni collettive, potenzialmente dannose per i datori di lavoro.

Il risultato è che la “condanna” del lavoro replicativo alla perfetta sostituibilità è stata contraddetta dal fatto che il lavoro individuale (sostituibile) si è trasformato in lavoro collettivo (assai meno sostituibile, nelle circostanze tipiche del ‘900: conoscenza trasferibile solo in un circuito di full employment  europeo/statunitense). Col risultato che – grazie a questa trasformazione – si è ottenuto per via politico-contrattuale uno stabile aumento progressivo dei livelli salariali in tutti i paesi industrializzati dell’epoca.

Ma, oggi lo cominciamo a capire, si è trattato di un’eccezione, non di un nuovo assetto destinato a durare. Infatti oggi le conoscenze replicative sono diventate mobili a scala mondiale, grazie alla globalizzazione dei mercati e alla smaterializzazione/codificazione delle conoscenze, per via ICT. Di conseguenza, esse sono andate rapidamente incontro all’offerta di lavoro low cost presente in paesi dove il potere contrattuale del lavoro collettivo non è arrivato, e – in presenza di un grande “esercito di riserva” di lavoro alle spalle, tarderà ad arrivare anche nel prossimo futuro. Facendo, così, saltare il banco.

La mobilità delle conoscenze codificate, nel capitalismo globale della conoscenza in rete di oggi, ha rovesciato le parti nel rapporto contrattuale di lavoro. Che capacità di influire e di pesare può infatti avere un sindacato che minaccia di bloccare la fabbrica – una fabbrica che impiega lavoro cognitivo di tipo prevalentemente replicativo – in una condizione in cui il potere di interdizione in pratica non esiste e in cui l’esito di un braccio di ferro rischia di andare più a danno dei lavoratori rappresentati che dell’impresa con cui si ingaggia il confronto?

Si tenga presente che ormai, in molti settori produttivi (non solo nei settori tradizionali, ma anche in quelli nuovi come l’elettronica, l’informatica, la chimica di base, l’automobile) esistono enormi riserve di lavoro e di fornitura low cost, accessibili, sia pure con qualche sacrificio (costi logistici, costi di apprendimento, costi di governance) alle imprese del nostro paese, soprattutto le grandi, ma anche le piccole che decidono di spostarsi su questo versante. E si tenga presente il fatto che la crescita della domanda nei beni di consumo e di investimento è ormai stabilmente delocalizzata nei paesi emergenti, che hanno davanti a loro la prospettiva di venti o trenta anni di crescita accelerata per avvicinarsi ai nostri standard di reddito e di produttività.

Rispetto alla classica contrattazione del novecento, le parti si sono così rovesciate. Perchè:

a)    l’imprenditore ha la chance di spostare la produzione in un paese low cost o di passare gli ordinativi ad un fornitore ivi localizzato, a meno che operi con un tipo di lavoro scarsamente codificato e dunque scarsamente sostituibile (lavoro generativo di tipo innovativo, ma anche lavoro flessibile/creativo di tipo artigianale o di servizio);

b)   il lavoratore teme ,in questo bargaining con la controparte contrattuale, di perdere posto di lavoro, ed è dunque disposto in linea di massima ad accettare “contratti di solidarietà” o al ribasso che rischiano di non essere più un’eccezione, ma di diventare tendenzialmente una regola, perché la situazione sbilanciata dei vantaggi comparati non cambierà nel prossimo futuro.

Non si tratta di una fase temporanea, destinata a passare col venir meno della crisi depressiva che ha caratterizzato il periodo 2008-13. Infatti, come abbiamo detto, la mobilità delle conoscenze codificate continuerà nel prossimo futuro, anche negli anni post-crisi, a svalorizzare il lavoro replicativo, in presenza di un enorme spazio di potenziale dilatazione dell’industria (replicativa) nei paesi emergenti low cost. L’industrializzazione di questi ci metterà almeno cinquanta anni prima di esaurire l’offerta low cost di lavoro in uscita dall’agricoltura di sussistenza o derivante dalla crescita demografica. Difficile dunque che i redditi del lavoro replicativo, anche da noi, possano in futuro tornare a crescere sulla base di nuove forme di tutela politica e sindacale, per la quale mancano le premesse “oggettive”, necessarie per far crescere nei fatti il potere contrattuale di cui, nei paesi avanzati, il lavoro collettivo dispone. Stiamo parlando ovviamente della massa dei lavoratori che svolgono compiti replicativi (esecutivi, codificati, programmati), non per i lavori di artigianato o di servizio che richiedono una certa flessibilità adattiva e che non sono potenzialmente trasferibili in luoghi low cost.

Difendere l’esistente – e dunque la stratificazione differenziata delle tutele che oggi “proteggono” i vari segmenti del lavoro e del non-lavoro – da questa evoluzione negativa può sembrare un compito nobile, anche se destinato probabilmente ad ottenere scarsi risultati. Tuttavia, sarebbe bene considerare anche una cosa che può mettere in dubbio la saggezza di questa scelta: un atteggiamento difensivo, che si limita a subire la transizione in corso, si nega la possibilità di utilizzare la forza del “vento” del cambiamento che produce la transizione stessa. Conservare il lavoro e la sua organizzazione sindacale-contrattuale nella forma attuale impedisce di pensare ad altri modi di lavorare e ad altri modi di organizzare le relazioni sindacali contrattuali, sfruttando i margini di innovazione vantaggiosa – anche per il lavoro – che esistono nel cambiamento in corso. Oltre al fatto che – come accade spesso – lo stress sulle tutele esistenti finisce per creare discriminazioni ingiuste all’interno dello stesso mondo del lavoro, perché la scelta di difendere l’esistente finisce per riversare il peso di tutti gli aggiustamenti richiesti (in termini di posti di lavoro, di salario, di carriera) sulla parte meno tutelata del lavoro: i lavoratori delle pmi, i lavoratori precari, le partite iva, i non-occupati. Il concetto stesso di lavoro collettivo e di interesse comune, in tali circostanze, perde di niditezza e il fronte della tutela del lavoro finisce per frantumarsi in mille rivoli concorrenti.

E allora?

La strada per recuperare reddito e ruolo al lavoro è un’altra. E passa per un cambiamento radicale nei contenuti, nel ruolo e nelle forme contrattuali del lavoro. Che deve cessare di essere meramente replicativo e deve trasformarsi – con gli investimenti professionali e i cambiamenti contrattuali necessari – in lavoro generativo, dotato di maggiore autonomia e intelligenza, ma, proprio per questo, disposto ad assumere parte del rischio derivante dalle proprie decisioni e capace di investire tempo, denaro e attenzione sulla crescita della competenza professionale offerta alla controparte del rapporto di lavoro o impiegata in proprio (come lavoro autonomo).

In questa prospettiva abbiamo di fronte l’emergere, nei paesi ricchi, che vogliono rimanere tali, di un altro genere di lavoro, di un altro genere di lavoratore, di un altro genere di sindacato.  Anche di un altro genere di impresa. Perché tutto questo non si potrà fare se non mutano i rapporti tra impresa e lavoro, superando la vecchia conflittualità novecentesca, che era funzionale a redistribuire il reddito tra le parti in causa. Oggi si tratta di fare di più e di meglio: il reddito bisogna innanzitutto co-produrlo, partecipando con funzioni complementari alle innovazioni e agli investimenti necessari; su questa base si potrà poi governare la distribuzione del reddito co-prodotto in base al grado di insostituibilità che le parti si saranno di fatto guadagnato sul terreno della produttività generata. Ma su questo torneremo più avanti.
 

2. Quale rilevanza hanno secondo lei le istanze di soggettivazione che si esprimono nel lavoro cognitivo? E’ possibile parlare oggi di un lavoro attraversato e fecondato da passioni e desideri?

  Il lavoro astratto, di tipo replicativo, nei due secoli e mezzo di modernità standardizzante, trascorsi fino al 2000, è stato, per definizione, un lavoro impersonale, separato dal mondo della vita degli uomini e donne che lo hanno prestato. Col trascorrere del tempo – e specialmente nel novecento, all’interno del paradigma fordista – il lavoro impersonale è riuscito, tuttavia, a recuperare uno spazio di iniziativa soggettiva sotto forma di lavoro collettivo (sindacale e politico). Un lavoro massificato che, sfruttando la forma standard delle prestazioni richieste e del tipo di vita assegnato a ciascuno, si è organizzato in forma collettiva, potendo in questo modo condizionare sia la distribuzione del reddito (per via sindacale), sia le scelte dello Stato del welfare (per via politica).

Da qualche tempo a questa parte, tuttavia, la soggettività del lavoro di tipo collettivo comincia ad avere uno spazio di azione sempre più ristretto, come abbiamo già ricordato. Ogni Stato ha, infatti, a disposizione un volume di risorse sempre più scarso, accanto ad un potere autonomo di regolazione sempre più circoscritto: le grandi scelte si stanno spostando verso centri decisionali di livello europeo (l’Unione Europea) o mondiale (le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale, il WTO ecc.), che tuttavia fanno fatica a trovare il bandolo della matassa, essendo la loro operatività di fatto bloccata dai veti incrociati dei grandi paesi interessati. D’altra parte, le aziende non radicate e le conoscenze codificate si muovono nello spazio globale, sottraendosi ai condizionamenti politici e sindacali esercitati in un solo paese.

Certo, se si potesse traslare la soggettività collettiva del lavoro a scala europea o mondiale, le cose potrebbero essere in parte diverse. La strada sembra giusta, in linea di principio, ma appare lunga e, in questi anni, impervia: difficile fare regole e parti uguali tra lavori che si trovano ad agire e vivere in condizioni diseguali.

Dunque, il recupero di soggettività del lavoro dovrà passare da un’altra strada: quella della ri-personalizzazione che si aggancia al bisogno di conoscenza generativa e dunque alla riscoperta di un lavoro più legato all’intelligenza delle persone, unico filtro capace di gestire in modo efficace i livelli crescenti di complessità che ci attendono nel prossimo futuro.

Ma le persone non sono macchine, e non sono algoritmi: dal loro punto di vista l’efficienza dei mezzi è importante, ma è ugualmente importante la definizione dei fini che vale la pena di immaginare e perseguire.

Da questo punto di vista, man mano che l’economia si ri-personalizza (con lavoro e consumo che coinvolgono anche emotivamente le intelligenze personali), il funzionamento del motore produttivo del valore viene a dipendere, più che dall’efficienza, dalla ricerca di senso e di legami. Lo vediamo per il fatto che, come ci insegna l’esperienza quotidiana, gli oggetti e le prestazioni acquistate sul mercato, valgono – e sono pagate – in funzione non solo dei loro effetti oggettivi, ma anche del loro significato. Il che rimanda alla qualità dell’esperienza fatta dal consumatore con l’uso dei prodotti/servizi acquistati dal circuito produttivo o alla qualità dell’esperienza fatta dal lavoratore mentre cerca di generare e “catturare” valore nelle filiere globali a cui dedica la sua attenzione e il suo tempo, e in cui cerca di far valere la sua “differenza”. Una differenza giocata non solo in termini di capacità tecnica, ma anche di espressione artistica, di capacità ludica e relazionale, di identificazione in situazioni ricche di significato simbolico o di carica identitaria.

Per fare tutto questo, il consumatore e il lavoratore devono investire tempo, denaro e attenzione nello sviluppo delle capacità soggettive che consentono a ciascuno di essere più autonomo nel giudizio e nelle decisioni, più intelligente nelle scelte da fare, più disposto ad assumere e condividere i rischi degli effetti che nascono dal proprio comportamento. L’investimento in tutti questi campi sarà necessariamente diverso da persona a persona, e – anche in presenza di relazioni di condivisione e di gruppo – fornirà spazio alle differenze individuali, nel lavoro e nel consumo.

Che tipo di contratto di lavoro potrà caratterizzare il lavoratore che investe individualmente in intelligenza generativa, sia nel proprio percorso di istruzione nel periodo pre-lavorativo della sia vita, sia nei processi di formazione e sperimentazione innovativa nei luoghi di lavoro?

Che tipo di ricompensa potrà valere per lavoratori e consumatori che mettono più o meno passione nell’esplorazione del mondo a cui si dedicano, considerando che la passione genera energia, ma induce anche a dare meno rilevanza ai rendimenti monetari, a favore di altri riconoscimenti e risultati (fare un lavoro che piace, che crea relazioni, che ha un riconoscimento sociale ecc.)?

Si intravvede, in una prospettiva del genere, un’economia del valore che passa per la creazione di senso e per la costruzione di legami sociali, perché senso e legami sono fonte di valore per chi lavora e per chi consuma il frutto del lavoro.

Certo, questa evoluzione presuppone che il lavoro prestato nei paesi ricchi (come il nostro) riconquisti, insieme alla sua capacità generativa, anche un certo grado di insostituibilità nelle imprese e nelle filiere globali che lo impiegano.

Non è un risultato scontato o che possa essere demandato semplicemente a fattori oggettivi di evoluzione: bisogna provarci, e vedere se questa riqualificazione del lavoro prende forma come desiderio, come programma di azione e poi come risultato. Si parte insieme per un viaggio dall’esito incerto. Sappiamo già che non tutti riusciranno ad arrivare alla meta, mantenendo o migliorando i livelli di reddito ereditati dal passato. Dobbiamo prepararci a gestire le differenze che questo processo di ri-generazione del lavoro comporta: differenze tra chi fa qualcosa e chi non fa niente, tra chi si espone al nuovo e chi si limita a subire la perdita della vecchia cornice di vita e di produzione, tra chi investe e tra chi si risparmia, dedicandosi in altro, tra chi ha ingegno e fortuna e chi, invece, manca di ambedue.
 

3. E’ possibile tutelare i lavoratori cognitivi? Attraverso quali strategie compositive è possibile affrontare il problema della tutela e della protezione sociale del lavoro contemporaneo?

  Abbiamo già detto che la tutela dei lavoratori in generale – visto che oggi quasi tutti i lavori sono di tipo cognitivo – passa nei paesi ricchi per una trasformazione dei contenuti e del ruolo del lavoro, che spostino l’assicella dal lavoro replicativo (sostituibile, nelle filiere globali) al lavoro generativo (meno sostituibile). La tutela implica la riconquista della insostituibilità, entro “macchine del valore” che siano in grado di sfruttare al meglio la conoscenza, sia in termini moltiplicativi (replicazione), che in termini di innovazione, adattamento, creatività (generazione).

Pensiamo al caso italiano: probabilmente il nostro lavoro è carente sotto tutti e due gli aspetti. Non ha accesso ai grandi moltiplicatori (replicativi) delle filiere globali, perché le nostre produzioni sono ancora in gran parte destinate ai soli mercati europei e sono spesso portate all’estero solo sotto forma di export (non di presidio del mercato estero e delle catene di approvvigionamento in esso localizzate). Ma il nostro lavoro produttivo non ha nemmeno accesso al valore creato dalla capacità generativa di innovare, adattare, creare perché – nonostante la flessibilità e duttilità del capitalismo distrettuale ereditato dagli anni pre-2000 – facciamo pochi investimenti in ricerca, conosciamo in misura limitata i linguaggi formali che danno accesso alle conoscenze altrui, forniamo servizi e soluzioni personalizzate a clienti che si trovano nel circuito della prossimità o in canali di fornitura e committenza collaudati da tempo, essendo i nuovi potenziali clienti e consumatori emergenti ancora in gran parte fuori della nostra portata.

Oggi avremmo invece un gran bisogno di presidiare il fronte “caldo” delle tante innovazioni d’uso connesse al cambiamento degli stili di vita e di lavoro, lavorando in una condizione di interazione comunicativa ed empatica con i tanti clienti potenziali che sono presenti nel mondo, e che nella relazione apportano le loro differenze e le loro esigenze particolari. Il contatto con questi mercati potenziali è ancora troppo limitato, sia in termini tecnologici (ICT, logistica) che in termini semantici (marchi, reti commerciali dirette, reputazione, capacità di raccontare e raccontarsi).

Molte cose nel mostro modo di lavorare e di vivere devono dunque cambiare, se vogliamo rimettere il lavoro in sintonia con il motore generativo del valore tipico del capitalismo globale della conoscenza, il nuovo paradigma produttivo del nostro secolo. Questo cambiamento dovrà necessariamente coinvolgere le imprese e i lavoratori nell’immaginare e perseguire progetti di innovazione condivisi, rimettendo insieme i cocci di un sistema che il declino del fordismo sta mandando in frantumi.

Un percorso del lavoro che possa marciare in questa direzione nell’interesse del “nuovo lavoro” (e non solo in quello delle imprese con cui ha relazione), si articola in due passaggi fondamentali:

a)    costruire, nei settori in cui abbiamo capacità distintive ancora rilevanti, delle filiere globali che consentano di delegare l’effetto moltiplicativo che è proprio del lavoro replicativo ad attività decentrate o mobili, che vanno a cercare il lavoro low cost nel mondo;

b)   trasformare il lavoro cognitivo che rimane nel nostro territorio in lavoro generativo, ossia in una forma di lavoro che è oggi sempre più rilevante nella gestione dell’innovazione e delle stesse filiere globali, ma che nasce da investimenti intellettuali e professionali di qualche peso, che ancora non stiamo facendo. Questo tipo di lavoro, per innovare in modo consistente ed avere effetti rilevanti sulla produttività, richiede una forma di collaborazione stabile con gli interlocutori che condividono i progetti di innovazione e gli investimenti a rischio da fare.

Questa – poco compresa e ancora poco apprezzata – è la nuova strada che consente di mettere un argine alla deriva del lavoro cognitivo verso il low cost (qui o nel mondo), venendo a capo del paradosso, che oggi segna in modo profondo e irreversibile il lavoro cognitivo: l’essere fonte essenziale (come lavoro replicativo) dei grandi moltiplicatori che generano il valore nelle filiere globali; e l’essere, al tempo stesso, deprivato dei frutti di tale produttività, in forme che rendono sempre meno efficace l’uso di barriere monopolistiche o politico-sindacali per la tutela dei posti di lavoro e dei redditi, nelle forme pre-esistenti, ereditate dal passato.

La nuova carta da giocare, per superare questa contraddizione, è quella di una evoluzione della modernità che rimetta al centro della produzione di valore il lavoro cognitivo di tipo generativo, ossiail lavoro che produce conoscenza generativa (conoscenza che è capace di produrre nuova conoscenza). Un tipo di conoscenza che non è facilmente riproducibile o meccanizzabile, ma che – complice la crescita di complessità del mondo attuale – sta diventando sempre più importante nell’esplorazione del nuovo, nell’assunzione ragionata del rischio e persino nella creazione di modelli e filiere di conoscenza replicativa.

La conoscenza generativa è quella che consente ad esempio alla Apple di mettere al lavoro (generativo), in America, alcune migliaia di scienziati, manager, tecnici, programmatori, comunicatori, distributori ecc. per costruire una rete di produzione replicativa distribuita in più di cinquanta paesi del mondo, ciascuno dei quali pensa a produrre un micro-componente dell’iPhone o dell’iPad, replicato in qualche milione di esemplari. Il lavoro generativo svolto, nell’interesse della catena trans-nazionale Apple, dal quartier generale (in America) è l’asse portante di tutta la filiera perché – a differenza dei lavori replicativi commissionati ai tanti fornitori asiatici – non è sostituibile. Esso dunque, attraverso la casa madre, è in grado di catturare buona parte del surplus generato dalla filiera globale, cosa che mantiene elevati i profitti della Apple ma anche i redditi dei lavori generativi che essa impiega.

Dunque oggi, per usare la leva moltiplicativa della massima generazione del valore bisogna costruire filiere ampie che mettano in campo tutto il lavoro replicativo che serve per estendere al massimo il ri-uso delle conoscenze codificate. Ma questo può essere fatto se nel “nocciolo duro” della filiera replicativa si situa un investimento in lavoro generativo (non sostituibile) che – grazie ai prezzi “interni” della catena di fornitura, assegnati ai componenti e alle lavorazioni conto terzi – è in grado di intercettare il surplus prodotto dai volumi di ri-uso, lasciando agli altri produttori e agli altri lavori (replicativi) solo la copertura dei costi.

Si tratta di una situazione transitoria, o destinata a durare?

Il ruolo determinante del lavoro generativo dipende oggi da un fatto incontrovertibile: come abbiamo detto, il nostro mondo, il nostro futuro, è dominato dalla complessità, ossia da un aumento progressivo della varietà, della variabilità e dell’indeterminazione. Ora, quando ci si muove in un mondo complesso, la codificazione delle conoscenze non può andare oltre certi limiti, perché il suo uso massiccio e non regolato presuppone una riduzione drastica della complessità (varietà, variabilità, indeterminazione) del mondo reale a cui la conoscenza astratta e replicabile deve essere applicata negli usi.

Ma questa prospettiva oggi è fuori della nostra portata: per diverse ragioni.

In primo luogo, non abbiamo i mezzi di controllo efficaci per governare le dinamiche di interdipendenza (tra i tanti mercati e paesi del mondo attuale) che abbiamo messo in moto: si pensi solo agli effetti che avranno i due o tre miliardi di persone in più che, nei prossimi anni, entreranno nel circuito degli altri consumi energetici, di ambiente e di materiali.

Non solo. In secondo luogo, l’aumento della complessità – ossia della varietà, della variabilità e dell’indeterminazione con cui avremo a che fare nel prossimo futuro – nasce anche dai crescenti spazi di libertà che sono stati conquistati grazie all’aumento del reddito disponibile. L’uso di questa libertà diventa destabilizzante quando ogni scelta fatto, ogni messaggio inviato, ogni innovazione proposta viene amplificata dall’impiego pervasivo della rete della comunicazione ICT. Gli amplificatori hanno un effetto potenzialmente destabilizzante, perché i flussi di innovazione che circolano in rete possono ri-orientare da un giorno all’altro i comportamenti (collegati) di migliaia o milioni di persone.

Infine, bisogna tenere presente una casa, di cui ancora c’è scarsa consapevolezza: il crescente impiego degli assets immateriali (conoscenze e relazioni) nelle attività produttive comporta una intrinseca e irrimediabile instabilità dei valori di mercato, perché – nell’economia della conoscenza – il valore delle conoscenze messe a disposizione degli users dipende unicamente dal potenziale valore che le conoscenze impiegate oggi potranno avere in futuro e non dai costi – noti e certificati – che sono stati necessari per produrle. Nell’economia del lavoro energetico (produzione materiale non-cognitiva) il valore futuro discende dal costo di produzione attuale ed eventualmente da quanto sarà il costo atteso di ri-produzione tra un anno o due, di un oggetto disponibile oggi. Costo di produzione e costo di ri-produzione sono simili e, salvo sorprese, sono ancorati ambedue a fattori oggettivi (un certo ammontare di ore di lavoro e di capitale investito per unità di prodotto ottenuto). Ma per la conoscenza questa equazione tra valore (futuro) e costo (attuale) salta del tutto: il costo di riproduzione delle conoscenze codificate, come si è detto, è infatti zero, e, dunque, quando entra in gioco il moltiplicatore cognitivo, il valore non ha niente a che fare col costo di (prima) produzione e nemmeno col costo di (successiva) ri-produzione. Il valore che oggi attribuiamo ad una nuova applicazione di software, per fare un esempio, discende unicamente da quante replicazioni d’uso pensiamo possano essere fatte dagli acquirenti di tutto il mondo e di tutti gli anni a venire; da quanto valore tali replicazioni possano produrre a vantaggio degli users; da quanti soldi questi sono disposti a pagare al fornitore, viste le offerte in concorrenza presenti sul mercato; da quanta parte del valore complessivamente pagato dagli users andrà al singolo produttore di filera, specializzato in questa o quella mansione.

Tutte cose che, come si vede, possono suscitare grandiose aspettative (di valori iper-milionari) e grandi delusioni (di valori che crollano a zero) in funzione di circostanze instabili, che hanno più a che fare con la psicologia di massa che con previsioni di trend statisticamente prevedibili.

L’economia della conoscenza è dunque un’economia inevitabilmente ad elevatissima complessità, perché fa dipendere i valori correnti dalle aspettative (labili, influenzabili) di un futuro tutto ancora da fare. Dunque, se c’è una certezza, per il prossimo futuro, è questa: la complessità crescerà. Per nostra fortuna, aggiungiamo, perché è proprio questo che ci può salvare dalla svalorizzazione del lavoro replicativo. Infatti, se la complessità del mondo reale aumenta, chi aspira a generare valore (a vantaggio di users paganti) deve attrezzarsi per inventare continuamente nuove soluzioni o capire eventi imprevisti e situazioni non collaudate. Per fare questo, il lavoro astratto (replicativo) non basta più: occorre invece mobilitare l’intelligenza mentale e la sensibilità corporea degli uomini, in carne ed ossa. Ecco la leva che può rimettere il lavoro non-sostituibile entro il circuito della distribuzione del valore, prodotto dalle filiere globali.

Ma, perché ciò accada in forma diffusa, non marginale, bisogna che i nostri lavoratori e le politiche delle loro rappresentanze prendano sul serio la prospettiva di puntare sulla conoscenza generativa. Ossia su un investimento in capacità professionale che impegna le singole persone, distribuisce il rischio del futuro, costringe a creare legami sul terreno della generazione di nuovo valore e non solo su quella della distribuzione contrattualizzata del reddito, in forma collettiva. E’ una rivoluzione destinata a trasformare il “lavoro dipendente”, tipico del paradigma fordista, in lavoro auto-organizzatore (dipendente e indipendente, ma collocato in una rete stabile di collaborazione con altri produttori). Questa trasformazione è già in corso, anche se la crisi l’ha resa invisibile. Essa scorre oggi sotto-traccia sia all’interno delle imprese che cercano di trovare nuovi modelli di business, in cui si apre la strada a forme di lavoro intraprendente (più autonomo, più intelligente, più coinvolto nel rischio), sia nel mercato del lavoro, dove molti giovani e lavoratori non-occupati cercano sbocchi diversi da quelli standard. Al lavoro auto-organizzatore come forma tipica del lavoro post-fordista, nei paesi ad alto reddito, si arriverà, ma ci vorrà tempo e molta pazienza ancora.

Per adesso, possiamo dire che – in una prospettiva del genere – la tutela migliore che si possa predisporre per i lavoratori di oggi è quella auto-generata, perché non nasce da decreti dello Stato o dal contratti che riguardano il lavoro astratto (collettivo), ma dalla conquista professionale di una capacità non sostituibile o scarsamente sostituibile nelle filiere dotate di elevato potenziale moltiplicativo.

Questo non esclude affatto un processo di tutela che usi la forza della condivisione sindacale o politica, per rafforzare il lavoro che è riuscito a rendersi generativo e non-sostituibile nella sua filiera. Infatti, una volta che questo punto fermo  si sia irrobustito e esteso a sufficienza, è possibile fare leva su di esso usando il residuo potere normativo dello Stato e del contratto per generalizzare le regole e i livelli reddituali ad una platea di lavoratori che si trovano in condizioni simili. Stato e contratto, in altri termini, devono favorire il processo di auto-generazione delle tutele, che è anche un processo di co-produzione e di condivisione del valore tra lavoro e imprese, nelle filiere globali.

Produzione e distribuzione del valore si sono ormai sovrapposte, in questo quadro: il lavoro che cambia muta sia la natura della produzione del valore che quella della sua distribuzione. Il lavoro deve rimettersi al centro di questo crocevia, diventando parte attiva della generazione innovativa del valore. Quanta parte del lavoro attuale potrà, negli anni, realizzare una trasformazione del genere, cambiando il contenuto delle proprie mansioni dalla replicazione esecutiva dello standard alla generazione intraprendente del nuovo?

Non lo sappiamo: bisogna provarci e vedere, cominciando dai lavori, dalle imprese, dalle forme di organizzazione sindacale e politica più consapevoli e maggiormente disposte a scommettere sul futuro possibile. La trasformazione  in essere rientra nelle nostre possibilità: e la sua generalizzazione dipende anche dalla nostra capacità di condividere investimenti, rischi e progetti di futuro. Dunque, proviamoci. L’importante è non sprecare energie e speranze nel compito impossibile di recuperare poteri contrattuali e spazi di crescita che il nuovo vento della storia ha messo nell’angolo e forse condannato ad una lenta e dolorosa estinzione.

E’ stato detto: “Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo”. Ma se il punto di appoggio manca, le leve pubbliche e contrattuali lavorano a vuoto, anche nella ricerca di tutele che la buona volontà politico-sindacale vorrebbe difendere o estendere ai nuovi arrivati. Se invece si accetta la sfida di un futuro più incerto, ma anche più promettente, le nuove vele e la nuova rotta potranno rafforzarsi strada facendo, usando l’energia del vento che cambia il mondo intorno a noi, rendendolo più favorevole e amico del lavoro intraprendente che stiamo sperimentando.

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